V. I consigli del bruco

 

  Il Bruco e Alice si guardarono a vicenda per qualche tempo in silenzio; finalmente il Bruco staccò la pipa di bocca, e le parlò con voce languida e sonnacchiosa: Chi sei? — disse il Bruco.

 

Non era un bel principio di conversazione. Alice rispose con qualche timidezza: — Davvero non te lo saprei dire ora. So dirti chi fossi, quando mi son levata questa mattina, ma d'allora credo di essere stata cambiata parecchie volte.

— Che cosa mi vai contando? — disse austeramente il Bruco. — Spiegati meglio.

— Temo di non potermi spiegare, — disse Alice, — perchè non sono più quella di prima, come vedi.

— Io non vedo nulla, — rispose il Bruco.

— Temo di non potermi spiegare più chiaramente, — soggiunse Alice in maniera assai gentile, — perchè dopo esser stata cambiata di statura tante volte in un giorno, non capisco più nulla.

— Non è vero! — disse il Bruco.

— Bene, non l'hai sperimentato ancora, — disse Alice, — ma quando ti trasformerai in crisalide, come ti accadrà un giorno, e poi diventerai farfalla, certo ti sembrerà un po'strano, — non è vero?

— Niente affatto, — rispose il Bruco.

— Bene, tu la pensi diversamente, — replicò Alice; — ma a me parrebbe molto strano.

— A te! — disse il Bruco con disprezzo. — Chi sei tu?

E questo li ricondusse di nuovo al principio della conversazione.

 

Alice si sentiva un po' irritata dalle brusche osservazioni del Bruco e se ne stette sulle sue, dicendo con gravità: — Perchè non cominci tu a dirmi chi sei?

— Perchè? — disse il Bruco.

Era un'altra domanda imbarazzante. Alice non seppe trovare una buona ragione. Il Bruco pareva di cattivo umore e perciò ella fece per andarsene.

— Vieni qui! — la richiamò il Bruco. — Ho qualche cosa d'importante da dirti.

La chiamata prometteva qualche cosa: Alice si fece innanzi.

— Non arrabbiarti! — disse il Bruco.

— E questo è tutto? — rispose Alice, facendo uno sforzo per frenarsi.

No, — disse il Bruco.

Alice pensò che poteva aspettare, perchè non aveva niente di meglio da fare, e perchè forse il Bruco avrebbe potuto dirle qualche cosa d'importante. Per qualche istante il Bruco fumò in silenzio, finalmente sciolse le braccia, si tolse la pipa di bocca e disse:

— E così, tu credi di essere cambiata?

— Ho paura di sì, signore, — rispose Alice. — Non posso ricordarmi le cose bene come una volta, e non rimango della stessa statura neppure per lo spazio di dieci minuti!

— Che cosa non ricordi? — disse il Bruco.

— Ecco, ho tentato di dire “La vispa Teresa” e l'ho detta tutta diversa! — soggiunse melanconicamente Alice.

— Ripetimi “Sei vecchio, caro babbo”, — disse il Bruco.

 

Alice incrociò le mani sul petto, e cominciò:

“Sei vecchio, caro babbo” — gli disse il ragazzino —

“sulla tua chioma splende — quasi un candore alpino;

eppur costantemente — cammini sulla testa:

ti sembra per un vecchio — buona maniera questa?”

“Quand'ero bambinello” — rispose il vecchio allora —

“temevo di mandare — il cerebro in malora;

ma adesso persuaso — di non averne affatto,

a testa in giù cammino — più agile d'un gatto.”

“Sei vecchio, caro babbo” — gli disse il ragazzino —

e sei capace e vasto — più assai d'un grosso tino:

e pur sfondato hai l'uscio — con una capriola;

“dimmi di quali acrobati — andasti, babbo, a scuola?”

 

“Quand'ero bambinello.” — rispose il padre saggio,

per rafforzar le membra, — io mi facea il massaggio

sempre con quest'unguento. — Un franco alla boccetta.

“chi comperarlo vuole, — fa bene se s'affretta”

 

“Sei vecchio, caro babbo,” — gli disse il ragazzino, —

“e tu non puoi mangiare — che pappa nel brodino;

pure hai mangiato un'oca — col becco e tutte l'ossa

Ma dimmi, ove la pigli, — o babbo, tanta possa?”

 

“Un dì apprendevo legge.” — il padre allor gli disse, —

“ed ebbi con mia moglie continue liti e risse,

e tanta forza impressi — alle ganasce allora,

tanta energia, che, vedi, — mi servon bene ancora.”

 

“Sei vecchio. caro babbo,” — gli disse il ragazzino

“e certo come un tempo — non hai più l'occhio fino:

pur reggi in equilibrio — un pesciolin sul naso:

or come così desto — ti mostri in questo caso?”

 

“A tutte le domande — io t'ho risposto già,

“e finalmente basta!” — risposegli il papà:

“se tutto il giorno poi — mi vuoi così seccare.

ti faccio con un calcio — le scale ruzzolare”

 

— Non l'hai detta fedelmente, — disse il Bruco.

— Temo di no, — rispose timidamente Alice, — certo alcune parole sono diverse.

— L'hai detta male, dalla prima parola all'ultima, — disse il Bruco con accento risoluto.

Vi fu un silenzio per qualche minuto.

Il Bruco fu il primo a parlare:

— Di che statura vuoi essere? — domandò.

— Oh, non vado tanto pel sottile in fatto di statura, — rispose in fretta Alice; — soltanto non è piacevole mutar così spesso, sai.

— Io non ne so nulla, — disse il Bruco.

Alice non disse sillaba: non era stata mai tante volte contraddetta, e non ne poteva proprio più.

— Sei contenta ora? — domandò il Bruco.

— Veramente vorrei essere un pochino più grandetta, se non ti dispiacesse, — rispose Alice, — una statura di otto centimetri è troppo meschina!

— Otto centimetri fanno una magnifica statura! — disse il Bruco collerico, rizzandosi come uno stelo, mentre parlava (egli era alto esattamente otto centimetri).

— Ma io non ci sono abituata! — si scusò Alice in tono lamentoso. E poi pensò fra sè: “Questa bestiolina s'offende per nulla!”

Col tempo ti ci abituerai, — disse il Bruco, e rimettendosi la pipa in bocca ricominciò a fumare.

 

Questa volta Alice aspettò pazientemente che egli ricominciasse a parlare. Dopo due o tre minuti, il Bruco si tolse la pipa di bocca, sbadigliò due o tre volte, e si scosse tutto. Poi discese dal fungo, e se ne andò strisciando nell'erba, dicendo soltanto queste parole: — Un lato ti farà diventare più alta e l'altro ti farà diventare più bassa.

“Un lato di che cosa? L'altro lato di che cosa?” pensò Alice fra sè.

— Del fungo, — disse il Bruco, come se Alice lo avesse interrogato ad alta voce; e subito scomparve.

Alice rimase pensosa un minuto guardando il fungo, cercando di scoprirne i due lati, ma siccome era perfettamente rotondo, trovò la cosa difficile. A ogni modo allungò più che le fu possibile le braccia per circondare il fungo, e ne ruppe due pezzetti dell'orlo a destra e a sinistra.

— Ed ora qual è un lato e qual è l'altro? — si domandò, e si mise ad addentare, per provarne l'effetto, il pezzettino che aveva a destra; l'istante dopo si sentì un colpo violento sotto il mento. Aveva battuto sul piede!

Quel mutamento subitaneo la spaventò molto; ma non c'era tempo da perdere, perchè ella si contraeva rapidamente; così si mise subito ad addentare l'altro pezzo. Il suo mento era talmente aderente al piede che a mala pena trovò spazio per aprir la bocca; finalmente riuscì a inghiottire una briccica del pezzettino di sinistra.

— Ecco, la mia testa è libera finalmente! — esclamò Alice gioiosa; ma la sua allegrezza si mutò in terrore, quando si accorse che non poteva più trovare le spalle: tutto ciò che poteva vedere, guardando in basso, era un collo lungo lungo che sembrava elevarsi come uno stelo in un mare di foglie verdi, che stavano a una bella distanza al di sotto.

— Che cosa è mai quel campo verde? — disse Alice. — E le mie spalle dove sono? Oh povera me! perchè non vi veggo più, o mie povere mani? — E andava movendole mentre parlava, ma non seguiva altro effetto che un piccolo movimento fra le foglie verdi lontane.

E siccome non sembrava possibile portar le mani alla testa, tentò di piegare la testa verso le mani, e fu contenta di rilevare che il collo si piegava e si moveva in ogni senso come il corpo d'un serpente. Era riuscita a curvarlo in giù in forma d'un grazioso zig-zag, e stava per tuffarlo fra le foglie (le cime degli alberi sotto i quali s'era smarrita), quando sentì un sibilo acuto, che glielo fece ritrarre frettolosamente: un grosso Colombo era volato su di lei e le sbatteva violentemente le ali contro la faccia.

— Serpente! — gridò il Colombo.

— Io non sono un serpente, — disse Alice indignata. — Vattene!

— Serpente, dico! — ripetè il Colombo, ma con tono più dimesso, e soggiunse singhiozzando: — Ho cercato tutti i rimedi, ma invano.

— Io non comprendo affatto di che parli, — disse Alice.

— Ho provato le radici degli alberi, ho provato i clivi, ho provato le siepi, — continuò il Colombo senza badarle; — ma i serpenti! Oh, non c'è modo di accontentarli!

Alice sempre più confusa, pensò che sarebbe stato inutile dir nulla, sin che il Colombo non avesse finito.

— Come se fosse poco disturbo covar le uova, — disse il Colombo. — Bisogna vegliarle giorno e notte! Sono tre settimane che non chiudo occhio!

— Mi dispiace di vederti così sconsolato! disse Alice, che cominciava a comprendere.

— E appunto quando avevo scelto l'albero più alto del bosco, — continuò il Colombo con un grido disperato, — e mi credevo al sicuro finalmente, ecco che mi discendono dal cielo! Ih! Brutto serpente!

— Ma io non sono un serpente, ti dico! — rispose Alice. — lo sono una... Io sono una...

— Bene, chi sei? — chiese il Colombo. — È chiaro che tu cerchi dei raggiri per ingannarmi!

— Io... io sono una bambina, — rispose Alice, ma con qualche dubbio, perchè si rammentava i molti mutamenti di quel giorno.

— È una frottola! — disse il Colombo col tono del più amaro disprezzo. — Ho veduto molte bambine in vita mia, ma con un collo come il tuo, mai. No, no! Tu sei un serpente, è inutile negarlo. Scommetto che avrai la faccia di dirmi che non hai assaggiato mai un uovo!

— Ma certo che ho mangiato delle uova, — soggiunse Alice, che era una bambina molto sincera. — Non son soli i serpenti a mangiare le uova; le mangiano anche le bambine.

— Non ci credo, — disse il Colombo, — ma se così fosse le bambine sarebbero un'altra razza di serpenti, ecco tutto.

Questa idea parve così nuova ad Alice che rimase in silenzio per uno o due minuti; il Colombo colse quell'occasione per aggiungere: — Tu vai a caccia di uova, questo è certo, e che m'importa, che tu sia una bambina o un serpente?

— Ma importa moltissimo a me, — rispose subito Alice. — A ogni modo non vado in cerca di uova; e anche se ne cercassi, non ne vorrei delle tue; crude non mi piacciono.

— Via dunque da me! — disse brontolando il Colombo, e si accovacciò nel nido. Alice s'appiattò come meglio potè fra gli alberi, perchè il collo le s'intralciava tra i rami, e spesso doveva fermarsi per distrigarnelo. Dopo qualche istante, si ricordò che aveva tuttavia nelle mani i due pezzettini di fungo, e si mise all'opera con molta accortezza addentando ora l'uno ora l'altro, e così diventava ora più alta ora più bassa, finchè riuscì a riavere la sua statura giusta.

Era da tanto tempo che non aveva la sua statura giusta, che da prima le parve strano; ma vi si abituò in pochi minuti, e ricominciò a parlare fra sè secondo il solito. — Ecco sono a metà del mio piano! Sono pure strani tutti questi mutamenti! Non so mai che diventerò da un minuto all'altro! Ad ogni modo, sono tornata alla mia statura normale: ora bisogna pensare ad entrare in quel bel giardino... Come farò, poi?

E così dicendo, giunse senza avvedersene in un piazzale che aveva nel mezzo una casettina alta circa un metro e venti. — Chiunque vi abiti, — pensò Alice, — non posso con questa mia statura fargli una visita; gli farei una gran paura!

E cominciò ad addentare il pezzettino che aveva nella destra, e non osò di avvicinarsi alla casa, se non quando ebbe la statura d'una ventina di centimetri.

 

VI. Porco e Pepe

 

Per un po' si mise a guardare la casa, e non sapeva che fare, quando ecco un valletto in livrea uscire in corsa dalla foresta... (lo prese per un valletto perchè era in livrea, altrimenti al viso lo avrebbe creduto un pesce), e picchiare energicamente all'uscio con le nocche delle dita. La porta fu aperta da un altro valletto in livrea, con una faccia rotonda e degli occhi grossi, come un ranocchio; ed Alice osservò che entrambi portavano delle parrucche inanellate e incipriate. Le venne la curiosità di sapere di che si trattasse, e uscì cautamente dal cantuccio della foresta, e si mise ad origliare.

Il pesce valletto cavò di sotto il braccio un letterone grande quasi quanto lui, e lo presentò all'altro, dicendo solennemente: “Per la Duchessa. Un invito della Regina per giocare una partita di croquet.” Il ranocchio valletto rispose nello stesso tono di voce, ma cambiando l'ordine delle parole: “Dalla Regina. Un invito per la Duchessa per giocare una partita di croquet.”

Ed entrambi s'inchinarono sino a terra, e le ciocche de' loro capelli si confusero insieme.

Alice scoppiò in una gran risata, e si rifugiò nel bosco per non farsi sentire, e quando tornò il pesce valletto se n'era andato, e l'altro s'era seduto sulla soglia dell'uscio, fissando stupidamente il cielo.

Alice si avvicinò timidamente alla porta e picchiò.

 

— È inutile picchiare, — disse il valletto, — e questo per due ragioni. La prima perchè io sto dalla stessa parte della porta dove tu stai, la seconda perchè di dentro si sta facendo tanto fracasso, che non sentirebbe nessuno. — E davvero si sentiva un gran fracasso di dentro, un guaire e uno starnutire continui, e di tempo in tempo un gran scroscio, come se un piatto o una caldaia andasse in pezzi.

— Per piacere, — domandò Alice, — che ho da fare per entrare?

— Il tuo picchiare avrebbe un significato, — continuò il valletto senza badarle, — se la porta fosse fra noi due. Per esempio se tu fossi dentro, e picchiassi, io potrei farti uscire, capisci.

E parlando continuava a guardare il cielo, il che ad Alice pareva un atto da maleducato. “Ma forse non può farne a meno, — disse fra sè — ha gli occhi quasi sull'orlo della fronte! Potrebbe però rispondere a qualche domanda...” — Come fare per entrare? — disse Alice ad alta voce.

— Io me ne starò qui, — osservò il valletto, — fino a domani...

In quell'istante la porta si aprì, e un gran piatto volò verso la testa del valletto, gli sfiorò il naso e si ruppe in cento pezzi contro un albero più oltre.

—...forse fino a poidomani, — continuò il valletto come se nulla fosse accaduto.

— Come debbo fare per entrare? — gridò Alice più forte.

— Devi entrare? — rispose il valletto. — Si tratta di questo principalmente, sai.

Senza dubbio, ma Alice non voleva sentirlo dire. “È spaventoso, — mormorò fra sè, — il modo con cui discutono queste bestie. Mi farebbero diventar matta!”

Il valletto colse l'occasione per ripetere l'osservazione con qualche variante: — io me ne starò seduto qui per giorni e giorni.

— Ma io che debbo fare? — domandò Alice.

— Quel che ti pare e piace, — rispose il valletto, e si mise a fischiare.

— È inutile discutere con lui, — disse Alice disperata: — è un perfetto imbecille! — Aprì la porta ed entrò.

La porta conduceva di filato a una vasta cucina, da un capo all'altro invasa di fumo: la Duchessa sedeva in mezzo su uno sgabello a tre piedi, cullando un bambino in seno; la cuoca era di fronte al fornello, rimestando in un calderone che pareva pieno di minestra.

 

“Certo, c'è troppo pepe in quella minestra!” — disse Alice a sè stessa, non potendo frenare uno starnuto.

Davvero c'era troppo sentor di pepe in aria.

Anche la Duchessa starnutiva qualche volta; e quanto al bambino non faceva altro che starnutire e strillare senza un istante di riposo. I soli due esseri che non starnutivano nella cucina, erano la cuoca e un grosso gatto, che se ne stava accoccolato sul focolare, ghignando con tutta la bocca, da un orecchio all'altro.

— Per piacere, — domandò Alice un po' timidamente, perchè non era certa che fosse buona creanza di cominciare lei a parlare, — perchè il suo gatto ghigna così?

È un Ghignagatto, — rispose la Duchessa, — ecco perchè. Porco!

Ella pronunciò l'ultima parola con tanta energia, che Alice fece un balzo; ma subito comprese che quel titolo era dato al bambino, e non già a lei. Così si riprese e continuò:

— Non sapevo che i gatti ghignassero a quel modo: anzi non sapevo neppure che i gatti potessero ghignare.

— Tutti possono ghignare, — rispose la Duchessa; — e la maggior parte ghignano.

— Non ne conosco nessuno che sappia farlo, — replicò Alice con molto rispetto, e contenta finalmente di conversare.

Tu non sai molto, — disse la Duchessa; — non c'è da dubitarne!

 

Il tono secco di questa conversazione non piacque ad Alice, che volle cambiar discorso. Mentre cercava un soggetto, la cuoca tolse il calderone della minestra dal fuoco, e tosto si mise a gettare tutto ciò che le stava vicino contro la Duchessa e il bambino... Scagliò prima le molle, la padella, e l'attizzatoio; poi un nembo di casseruole, di piatti e di tondi. La duchessa non se ne dava per intesa, nemmeno quand'era colpita; e il bambino guaiva già tanto, che era impossibile dire se i colpi gli facessero male o no.

 

— Ma badi a quel che fa! — gridò Alice, saltando qua e là atterrita. — Addio naso! — continuò a dire, mentre un grosso tegame sfiorava il naso del bimbo e poco mancò non glielo portasse via.

— Se tutti badassero ai fatti loro, — esclamò la Duchessa con un rauco grido, — il mondo andrebbe molto più presto di quanto non faccia.

 

— Non sarebbe un bene, — disse Alice, lieta di poter sfoggiare la sua dottrina. — Pensi che sarebbe del giorno e della notte! La terra, com'ella sa, ci mette ventiquattro ore a girare intorno al suo asse...

— A proposito di asce! — gridò la Duchessa, — tagliatele la testa!

Alice guardò ansiosamente la cuoca per vedere se ella intendesse obbedire; ma la cuoca era occupata a rimestare la minestra, e, non pareva che avesse ascoltato, perciò andò innanzi dicendo:

Ventiquattro ore, credo; o dodici? Io...

— Oh non mi seccare, — disse la Duchessa. — Ho sempre odiato i numeri! — E si rimise a cullare il bimbo, cantando una certa sua ninnananna, e dandogli una violenta scossa alla fine d'ogni strofa:

 

Vo col bimbo per la corte,

se starnuta dàgli forte: lui

lo sa che infastidisce

e per picca starnutisce.

 

Coro

(al quale si unisce la cuoca)

 

Ahi ahi ahi!!!

 

Mentre la Duchessa cantava il secondo verso, scoteva il bimbo su e giù con molta violenza, e il poverino strillava tanto che Alice appena potè udire le parole della canzoncina:

 

Vo col bimbo per le corte,

se starnuta gli dò forte;

lui se vuole può mangiare

tutto il pepe che gli pare.

 

Coro

 

Ahi, ahi ahi!!!

 

— Tieni, lo potrai cullare un poco se ti piace! — disse la Duchessa ad Alice, buttandole il bimbo in braccio. — Vado a prepararmi per giocare una partita a croquet con la Regina. — E uscì in fretta dalla stanza. La cuoca le scaraventò addosso una padella, e per un pelo non la colse.

Alice afferrò il bimbo, ma con qualche difficoltà, perchè era una creatura stranissima; springava le mani e i piedi in tutti i sensi, “proprio come una stella di mare” pensò Alice. Il poverino quando Alice lo prese, ronfava come una macchina a vapore e continuava a contorcersi e a divincolarsi così che, per qualche istante, ella dubitò di non poterlo neanche reggere.

Appena la fanciulla ebbe trovato la maniera di cullarlo a modo, (e questo consistè nel ridurlo a una specie di nodo, e nell'afferrarlo al piede sinistro e all'orecchio destro, per impedirgli di sciogliersi) lo portò all'aria aperta.

— Se non mi porto via questo bambino, — osservò Alice, — è certo che fra qualche giorno lo ammazzeranno; non sarebbe un assassinio l'abbandonarlo? — Disse le ultime parole a voce alta, e il poverino si mise a grugnire per risponderle (non starnutiva più allora). — Non grugnire, — disse Alice, — non è educazione esprimersi a codesto modo.

Il bambino grugnì di nuovo, e Alice lo guardò ansiosamente in faccia per vedere che avesse. Aveva un naso troppo all'insù, e non c'era dubbio che rassomigliava più a un grugno che a un naso vero e proprio; e poi gli occhi gli stavano diventando così piccoli che non parevano di un bambino: in complesso quell'aspetto non piaceva ad Alice. “Forse singhiozzava”, pensò, e lo guardò di nuovo negli occhi per vedere se ci fossero lagrime.

 

Ma non ce n'erano. — Carino mio, se tu ti trasformi in un porcellino, — disse Alice seriamente, — non voglio aver più nulla a che fare con te. Bada dunque! — Il poverino si rimise a singhiozzare (o a grugnire, chi sa, era difficile dire) e si andò innanzi in silenzio per qualche tempo.

Alice, intanto, cominciava a riflettere: “Che cosa ho da fare di questa creatura quando arrivo a casa?” allorchè quella creatura grugnì di nuovo e con tanta energia, che ella lo guardò in faccia sgomenta. Questa volta non c'era dubbio: era un porcellino vero e proprio, ed ella si convinse che era assurdo portarlo oltre.

 

Così depose la bestiolina in terra, e si sentì sollevata quando la vide trottar via tranquillamente verso il bosco. — Se fosse cresciuto, sarebbe stato un ragazzo troppo brutto; ma diventerà un magnifico porco, credo. — E si ricordò di certi fanciulli che conosceva, i quali avrebbero potuto essere degli ottimi porcellini, e stava per dire: — Se si sapesse il vero modo di trasformarli... — quando sussultò di paura, scorgendo il Ghignagatto, seduto su un ramo d'albero a pochi passi di distanza.

 

Il Ghignagatto si mise soltanto a ghignare quando vide Alice.“Sembra di buon umore, — essa pensò; — ma ha le unghie troppo lunghe, ed ha tanti denti,” perciò si dispose a trattarlo con molto rispetto.

— Ghignagatto, — cominciò a parlargli con un poco di timidezza, perchè non sapeva se quel nome gli piacesse; comunque egli fece un ghigno più grande. “Ecco, ci ha piacere,” pensò Alice e continuò: — Vorresti dirmi per dove debbo andare?

— Dipende molto dal luogo dove vuoi andare, — rispose il Gatto.

— Poco m'importa dove... — disse Alice.

— Allora importa poco sapere per dove devi andare, — soggiunse il Gatto.

— ...purchè giunga in qualche parte, — riprese Alice come per spiegarsi meglio.

— Oh certo vi giungerai! — disse il Gatto, non hai che da camminare.

Alice sentì che quegli aveva ragione e tentò un'altra domanda. — Che razza di gente c'è in questi dintorni?

— Da questa parte, — rispose il Gatto, facendo un cenno con la zampa destra, — abita un Cappellaio; e da questa parte, — indicando con l'altra zampa, — abita una Lepre di Marzo. Visita l'uno o l'altra, sono tutt'e due matti.

— Ma io non voglio andare fra i matti, — osservò Alice.

— Oh non ne puoi fare a meno, — disse il Gatto, — qui siamo tutti matti. Io sono matto, tu sei matta.

Come sai che io sia matta? — domandò Alice.

 

— Tu sei matta, — disse il Gatto, — altrimenti non saresti venuta qui.

Non parve una ragione sufficiente ad Alice, ma pure continuò: — E come sai che tu sei matto?

— Intanto, — disse il Gatto, — un cane non è matto. Lo ammetti?

— Ammettiamolo, — rispose Alice.

— Bene, — continuò il Gatto, — un cane brontola quando è in collera, e agita la coda quando è contento. Ora io brontolo quando sono contento ed agito la coda quando sono triste. Dunque sono matto.

— Io direi far le fusa e non già brontolare, — disse Alice.

— Di' come ti pare, — rispose il Gatto. — Vai oggi dalla Regina a giocare a croquet?

— Sì, che ci andrei, — disse Alice, — ma non sono stata ancora invitata.

— Mi rivedrai da lei, — disse il Gatto, e scomparve.

Alice non se ne sorprese; si stava abituando a veder cose strane. Mentre guardava ancora il posto occupato dal Gatto, eccolo ricomparire di nuovo.

— A proposito, che n'è successo del bambino? — disse il Gatto. —.Avevo dimenticato di domandartelo.

— S'è trasformato in porcellino, — rispose Alice tranquillamente, come se la ricomparsa del Gatto fosse più che naturale.

— Me l'ero figurato, — disse il Gatto, e svanì di nuovo.

Alice aspettò un poco con la speranza di rivederlo, ma non ricomparve più, ed ella pochi istanti dopo prese la via dell'abitazione della Lepre di Marzo. “Di cappellai ne ho veduti tanti, — disse fra sè: — sarà più interessante la Lepre di Marzo. Ma siccome siamo nel mese di maggio, non sarà poi tanto matta... almeno sarà meno matta che in marzo”. Mentre diceva così guardò in su, e vide di nuovo il Gatto, seduto sul ramo d'un albero.

— Hai detto porcellino o porcellana? — domandò il Gatto.

— Ho detto porcellino, — rispose Alice; — ma ti prego di non apparire e scomparire con tanta rapidità: mi fai girare il capo!

— Hai ragione, — disse il Gatto; e questa volta svanì adagio adagio; cominciando con la fine della coda e finendo col ghigno, il quale rimase per qualche tempo sul ramo, dopo che tutto s'era dileguato.

— Curioso! ho veduto spesso un gatto senza ghigno; — osservò Alice, — mai un ghigno senza Gatto. È la cosa più strana che mi sia capitata!

Non s'era allontanata di molto, quando arrivò di fronte alla dimora della Lepre di Marzo: pensò che fosse proprio quella, perchè i comignoli avevano la forma di orecchie, e il tetto era coperto di pelo. La casa era così grande che ella non osò avvicinarsi se non dopo aver sbocconcellato un po' del fungo che aveva nella sinistra, e esser cresciuta quasi sessanta centimetri di altezza: ma questo non la rendeva più coraggiosa. Mentre si avvicinava, diceva fra sè: “E se poi fosse pazza furiosa? Sarebbe meglio che fossi andata dal Cappellaio.”

 

VII. Un tè di matti

 

 

Sotto un albero di rimpetto alla casa c'era una tavola apparecchiata. Vi prendevano il tè la Lepre di Marzo e il Cappellaio. Un Ghiro profondamente addormentato stava fra di loro, ed essi se ne servivano come se fosse stato un guanciale, poggiando su di lui i gomiti, e discorrendogli sulla testa. “Un gran disturbo per il Ghiro, — pensò Alice, — ma siccome dorme, immagino che non se ne importi nè punto, nè poco.”

La tavola era vasta, ma i tre stavano stretti tutti in un angolo: — Non c'è posto! Non c'è posto! — gridarono, vedendo Alice avvicinarsi.

— C'è tanto posto! — disse Alice sdegnata, e si sdraiò in una gran poltrona, a un'estremità della tavola.

— Vuoi un po' di vino? — disse la Lepre di Marzo affabilmente.

Alice osservò la mensa, e vide che non c'era altro che tè. — Non vedo il vino, — ella osservò.

— Non ce n'è, replicò la Lepre di Marzo.

— Ma non è creanza invitare a bere quel che non c'è, — disse Alice in collera.

— Neppure è stata creanza da parte tua sederti qui senza essere invitata, — osservò la Lepre di Marzo.

— Non sapevo che la tavola ti appartenesse, — rispose Alice; — è apparecchiata per più di tre.

— Dovresti farti tagliare i capelli, — disse il Cappellaio. Egli aveva osservato Alice per qualche istante con molta curiosità, e quelle furono le sue prime parole.

—Tu non dovresti fare osservazioni personali, — disse Alice un po' severa; — è sconveniente.

Il Cappellaio spalancò gli occhi; ma quel che rispose fu questo: — Perchè un corvo somiglia a uno scrittoio?

— Ecco, ora staremo allegri! — pensò Alice. —Sono contenta che hanno cominciato a proporre degli indovinelli... credo di poterlo indovinare, — soggiunse ad alta voce.

— Intendi dire che credi che troverai la risposta? — domandò la Lepre di Marzo.

— Appunto, — rispose Alice.

— Ebbene, dicci ciò che intendi, — disse la Lepre di Marzo.

— Ecco, — riprese Alice in fretta; — almeno intendo ciò che dico... è lo stesso, capisci.

— Ma che lo stesso! — disse il Cappellaio.

— Sarebbe come dire che “veggo ciò che mangio” sia lo stesso di “mangio quel che veggo.”

— Sarebbe come dire, — soggiunse la Lepre di Marzo, — che “mi piace ciò che prendo”, sia lo stesso che “prendo ciò che mi piace?”

— Sarebbe come dire, — aggiunse il Ghiro che pareva parlasse nel sonno, — che “respiro quando dormo”, sia lo stesso che “dormo quando respiro?”

— È lo stesso per te, — disse il Cappellaio. E qui la conversazione cadde, e tutti stettero muti per un poco, mentre Alice cercava di ricordarsi tutto ciò che sapeva sui corvi e sugli scrittoi, il che non era molto.

Il Cappellaio fu il primo a rompere il silenzio. — Che giorno del mese abbiamo? — disse, volgendosi ad Alice. Aveva cavato l'orologio dal taschino e lo guardava con un certo timore, scuotendolo di tanto in tanto, e portandoselo all'orecchio.

Alice meditò un po' e rispose: — Oggi ne abbiamo quattro.

 

— Sbaglia di due giorni! — osservò sospirando il Cappellaio. — Te lo avevo detto che il burro avrebbe guastato il congegno! — soggiunse guardando con disgusto la Lepre di Marzo.

— Il burro era ottimo, — rispose umilmente la Lepre di Marzo.

— Sì ma devono esserci entrate anche delle molliche di pane, — borbottò il Cappellaio, — non dovevi metterlo dentro col coltello del pane.

La Lepre di Marzo prese l'orologio e lo guardò malinconicamente: poi lo tuffò nella sua tazza di tè, e l'osservò di nuovo: ma non seppe far altro che ripetere l'osservazione di dianzi: — Il burro era ottimo, sai.

Alice, che l'aveva guardato curiosamente, con la coda dell'occhio, disse:

— Che strano orologio! segna i giorni e non dice le ore.

— Perchè? — esclamò il Cappellaio. — Che forse il tuo orologio segna in che anno siamo?

— No, — si affrettò a rispondere Alice — ma l'orologio segna lo stesso anno per molto tempo.

— Quello che fa il mio, — rispose il Cappellaio.

Alice ebbe un istante di grande confusione. Le pareva che l'osservazione del Cappellaio non avesse alcun senso; e pure egli parlava correttamente. — Non ti comprendo bene! — disse con la maggiore delicatezza possibile.

— Il Ghiro s'è di nuovo addormentato, — disse il Cappellaio, e gli versò sul naso un poco di tè bollente.

Il Ghiro scosse la testa con atto d'impazienza, e senza aprire gli occhi disse: — Già! Già! stavo per dirlo io.

— Credi ancora di aver sciolto l'indovinello? — disse il Cappellaio, volgendosi di nuovo ad Alice.

— No, ci rinunzio, — rispose Alice. — Qual'è la risposta?

— Non la so, — rispose il Cappellaio.

— Neppure io, — rispose la Lepre di Marzo.

Alice sospirò seccata, e disse: — Ma credo potresti fare qualche cosa di meglio che perdere il tempo, proponendo indovinelli senza senso.

— Se tu conoscessi il tempo come lo conosco io, — rispose il Cappellaio, — non diresti che lo perdiamo. Domandaglielo.

— Non comprendo che vuoi dire, — osservò Alice.

— Certo che non lo comprendi! — disse il Cappellaio, scotendo il capo con aria di disprezzo — Scommetto che tu non hai mai parlato col tempo.

— Forse no, — rispose prudentemente Alice; — ma so che debbo battere il tempo quando studio la musica.

— Ahi, adesso si spiega, — disse il Cappellaio. — Il tempo non vuol esser battuto. Se tu fossi in buone relazioni con lui, farebbe dell'orologio ciò che tu vuoi. Per esempio, supponi che siano le nove, l'ora delle lezioni, basterebbe che gli dicessi una parolina all' orecchio, e in un lampo la lancetta andrebbe innanzi! Mezzogiorno, l'ora del desinare!

(“Vorrei che fosse mezzogiorno,” bisbigliò fra sè la Lepre di Marzo).

— Sarebbe magnifico, davvero — disse Alice pensosa: — ma non avrei fame a quell'ora, capisci.

— Da principio, forse, no, — riprese il Cappellaio, — ma potresti fermarlo su le dodici fin quando ti parrebbe e piacerebbe.

— E tu fai così? — domandò Alice.

Il Cappellaio scosse mestamente la testa e rispose: — Io no. Nel marzo scorso abbiamo litigato... proprio quando diventò matta lei... — (e indicò col cucchiaio la Lepre di Marzo...) Fu al gran concerto dato dalla Regina di Cuori... ivi dovetti cantare:

 

Splendi, splendi, pipistrello!

Su pel cielo vai bel  bello!

 

— Conosci tu quest'aria?

— Ho sentito qualche cosa di simile, — disse Alice.

— Senti, è così, — continuò il Cappellaio:

 

Non t'importa d'esser solo

e sul mondo spieghi il volo.

Splendi. splendi...

 

A questo il Ghiro si riscosse, e cominciò a cantare nel sonno:

 

Teco il pane; teco il pane aggiungerò....

 

e via via andò innanzi fino a che gli dovettero dare dei pizzicotti per farlo tacere.

— Ebbene, avevo appena finito di cantare la prima strofa, — disse il Cappellaio, — quando la Regina proruppe infuriata: — Sta assassinando il tempo! Tagliategli la testa!

— Feroce! — esclamò Alice.

— E d'allora, — continuò melanconicamente il Cappellaio, — il tempo non fa più nulla di quel che io voglio! Segna sempre le sei!

Alice ebbe un'idea luminosa e domandò: È per questo forse che vi sono tante tazze apparecchiate?

— Per questo, — rispose il Cappellaio, — è sempre l'ora del tè, e non abbiamo mai tempo di risciacquare le tazze negl'intervalli.

— Così le fate girare a turno, immagino... disse Alice.

— Proprio così, — replicò il Cappellaio: a misura che le tazze hanno servito.

— Ma come fate per cominciare da capo? s'avventurò a chiedere Alice.

— Se cambiassimo discorso? — disse la Lepre di Marzo sbadigliando, — Questo discorso mi annoia tanto. Desidero che la signorina ci racconti una storiella.

— Temo di non saperne nessuna, — rispose Alice con un po' di timore a quella proposta.

— Allora ce la dirà il Ghiro! — gridarono entrambi. — Risvegliati Ghiro! — e gli dettero dei forti pizzicotti dai due lati.

Il Ghiro aprì lentamente gli occhi, e disse con voce debole e roca:

— Io non dormivo! Ho sentito parola per parola ciò che avete detto.

— Raccontaci una storiella! — disse la Lepre di Marzo.

— Per piacere, diccene una! — supplicò Alice.

— E sbrigati! — disse il Cappellaio, — se no ti riaddormenterai prima di finirla.

— C'erano una volta tre sorelle, — cominciò in gran fretta il Ghiro. — Si chiamavano Elsa, Lucia e Tilla; e abitavano in fondo a un pozzo...

— Che cosa mangiavano? — domandò Alice, la quale s'interessava sempre molto al mangiare e al bere.

— Mangiavano teriaca, — rispose il Ghiro dopo averci pensato un poco.

— Impossibile, — osservò gentilmente Alice. — si sarebbero ammalate.

— E infatti erano ammalate, — rispose il Ghiro, — gravemente ammalate.

Alice cercò di immaginarsi quella strana maniera di vivere, ma ne fu più che confusa e continuò: — Ma perchè se ne stavano in fondo a un pozzo?

— Prendi un po' più di tè! — disse la Lepre di Marzo con molta serietà.

— Non ne ho avuto ancora una goccia, — rispose Alice in tono offeso, — così non posso prenderne un po' di più.

— Vuoi dire che non ne puoi prendere meno. — disse il Cappellaio: — è molto più facile prenderne più di nulla che meno di nulla.

— Nessuno ha domandato il tuo parere, — soggiunse Alice.

— Chi è ora che fa delle osservazioni personali? — domandò il Cappellaio con aria di trionfo.

Alice non seppe che rispondere; ma prese una tazza di tè con pane e burro, e volgendosi al Ghiro, gli ripetè la domanda: — Perchè se ne stavano in fondo a un pozzo?

Il Ghiro si prese un minuto o due per riflettere, e rispose: — Era un pozzo di teriaca.

— Ma non s'è sentita mai una cosa simile! interruppe Alice sdegnata. Ma la Lepre di Marzo e il Cappellaio facevano: — St! st! — e il Ghiro continuò burbero: — Se non hai educazione, finisciti da te la storiella.

— No, continua pure! — disse Alice molto umilmente: — Non ti interromperò più. Forse esiste un pozzo così.

— Soltanto uno! — rispose il Ghiro indignato. A ogni modo acconsentì a continuare: — E quelle tre sorelle... imparavano a trarne...

— Che cosa traevano? — domandò Alice, dimenticando che aveva promesso di tacere.

— Teriaca, — rispose il Ghiro, questa volta senza riflettere.

— Mi occorre una tazza pulita, — interruppe il Cappellaio; — moviamoci tutti d'un posto innanzi.

E mentre parlava si mosse, e il Ghiro lo seguì: la Lepre di Marzo occupò il posto del Ghiro, e Alice si sedette di mala voglia al posto della Lepre di Marzo. Il solo Cappellaio s'avvantaggiò dello spostamento: e Alice si trovò peggio di prima, perchè la Lepre di Marzo s'era rovesciato il vaso del latte nel piatto.

Alice, senza voler offender di nuovo il Ghiro disse con molta discrezione: — Non comprendo bene. Di dove traevano la teriaca?

— Tu puoi trarre l'acqua da un pozzo d'acqua? — disse il Cappellaio; — così immagina, potresti trarre teriaca da un pezzo di teriaca... eh! scioccherella!

— Ma esse erano nel pozzo, — disse Alice al Ghiro.

- Sicuro, e ci stavano bene, — disse il Ghiro.

— Imparavano a trarre, — continuò il Ghiro, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi, perchè cadeva di sonno; — e traevano cose d'ogni genere... tutte le cose che cominciano con una T...

— Perchè con una T? — domandò Alice.

— Perchè no? — gridò la Lepre di Marzo.

Alice non disse più sillaba.

Il Ghiro intanto aveva chiusi gli occhi cominciando a sonnecchiare; ma, pizzicato dal Cappellaio, si destò con un grido, e continuò: — Che cominciano con una T. come una trappola, un topo, una topaia, un troppo... già tu dici: “il troppo stroppia”, oh, non hai mai veduto come si tira il troppo stroppia?”

 Veramente, ora che mi domandi, — disse Alice, molto confusa, — non saprei...

— Allora stai zitta, — disse il Cappellaio.

Questo saggio di sgarbatezza sdegnò grandemente Alice, la quale si levò d'un tratto e se ne uscì. Il Ghiro si addormentò immediatamente, e nessuno degli altri due si accorse che Alice se n'era andata, benchè ella si fosse voltata una o due volte, con una mezza speranza d'essere richiamata: l'ultima volta vide che essi cercavano di tuffare il Ghiro nel vaso del tè.

— Non ci tornerò mai più, — disse Alice entrando nel bosco. — È la più stupida gente che io m'abbia mai conosciuta.

Mentre parlava così osservò un albero con un uscio nel tronco. “Curioso, — pensò Alice. — Ma ogni cosa oggi è curiosa. Credo che farò bene ad entrarci subito”. Ed entrò.

Si trovò.di nuovo nella vasta sala, e presso il tavolino di cristallo. — Questa volta saprò far meglio, — disse, e prese la chiavetta d'oro ed aprì la porta che conduceva nel giardino. Poi si mise a sbocconcellare il fungo (ne aveva conservato un pezzetto in tasca), finchè ebbe un trenta centimetri d'altezza o giù di lì: percorse il piccolo corridoio: e poi si trovò finalmente nell'ameno giardino in mezzo alle aiuole fulgide di fiori, e alle freschissime fontane.

 

 

VIII. Il croquet della regina

 

Un gran cespuglio di rose stava presso all'ingresso del giardino. Le rose germogliate erano bianche, ma v'erano lì intorno tre giardinieri occupati a dipingerle rosse. “È strano!” pensò Alice, e s'avvicinò per osservarli, e come fu loro accanto, sentì dire da uno: — Bada, Cinque! non mi schizzare la tua tinta addosso!

— E che vuoi da me? — rispose Cinque in tono burbero. — Sette mi ha urtato il braccio.

Sette lo guardò e disse: — Ma bene! Cinque dà sempre la colpa agli altri!

— Tu faresti meglio a tacere! — disse Cinque. — Proprio ieri la Regina diceva che tu meriteresti di essere decapitato!

— Perchè? — domandò il primo che aveva parlato.

— Questo non ti riguarda, Due! — rispose Sette.

Sì, che gli riguarda! — disse Cinque; — e glielo dirò io... perchè hai portato al cuoco bulbi di tulipani invece di cipolle.

Sette scagliò lontano il pennello, e stava lì lì per dire: — Di tutte le cose le più ingiuste... — quando incontrò gli occhi di Alice e si mangiò il resto della frase. Gli altri similmente si misero a guardarla e le fecero tutti insieme una profonda riverenza.

Volete gentilmente dirmi, — domandò Alice, con molta timidezza, — perchè state dipingendo quelle rose?

Cinque e Sette non risposero, ma diedero uno sguardo a Due. Due disse allora sottovoce: — Perchè questo qui doveva essere un rosaio di rose rosse. Per isbaglio ne abbiamo piantato uno di rose bianche. Se la Regina se ne avvedesse, ci farebbe tagliare le teste a tutti. Così, signorina, facciamo il possibile per rimediare prima ch'essa venga a...

In quell'istante Cinque che guardava attorno pieno d'ansia, gridò: — La Regina! la Regina! — e i tre giardinieri si gettarono immediatamente a faccia a terra. Si sentì un gran scalpiccìo, e Alice si volse curiosa a veder la Regina.

Prima comparvero dieci soldati armati di bastoni: erano della forma dei tre giardinieri, bislunghi e piatti, le mani e i piedi agli angoli: seguivano dieci cortigiani, tutti rilucenti di diamanti; e sfilavano a due a due come i soldati. Venivano quindi i principi reali, divisi a coppie e saltellavano a due a due, tenendosi per mano: erano ornati di cuori.

Poi sfilavano gli invitati, la maggior parte re e regine, e fra loro Alice riconobbe il Coniglio Bianco che discorreva in fretta nervosamente, sorridendo di qualunque cosa gli si dicesse. Egli passò innanzi senza badare ad Alice. Seguiva il fante di cuori, portando la corona reale sopra un cuscino di velluto rosso; e in fondo a tutta questa gran processione venivano Il Re e la Regina Di Cuori.

Alice non sapeva se dovesse prosternarsi, come i tre giardinieri, ma non potè ricordarsi se ci fosse un costume simile nei cortei reali.

“E poi, a che servirebbero i cortei, — riflettè, — se tutti dovessero stare a faccia per terra e nessuno potesse vederli?”

Così rimase in piedi ad aspettare.

Quando il corteo arrivò di fronte ad Alice, tutti si fermarono e la guardarono; e la Regina gridò con cipiglio severo: — Chi è costei? — e si volse al fante di cuori, il quale per tutta risposta sorrise e s'inchinò.

— Imbecille! — disse la Regina, scotendo la testa impaziente; indi volgendosi ad Alice, continuò a dire: — Come ti chiami, fanciulla?

— Maestà, mi chiamo Alice, — rispose la fanciulla con molta garbatezza, ma soggiunse fra sè: “Non è che un mazzo di carte, dopo tutto? Perchè avrei paura?”

— E quelli chi sono? — domandò la Regina indicando i tre giardinieri col viso a terra intorno al rosaio; perchè, comprendete, stando così in quella posizione, il disegno posteriore rassomigliava a quello del resto del mazzo, e la Regina non poteva distinguere se fossero giardinieri, o soldati, o cortigiani, o tre dei suoi stessi figliuoli.

— Come volete che io lo sappia? — rispose Alice, che si meravigliava del suo coraggio. — È cosa che non mi riguarda.

La Regina diventò di porpora per la rabbia e, dopo di averla fissata selvaggiamente come una bestia feroce, gridò: — Tagliatele la testa, subito!...

— Siete matta! — rispose Alice a voce alta e con fermezza; e la Regina tacque.

Il Re mise la mano sul braccio della Regina, e disse timidamente: — Rifletti, cara mia, è una bambina!

La Regina irata gli voltò le spalle e disse al fante: — Voltateli!

Il fante obbedì, e con un piede voltò attentamente i giardinieri.

— Alzatevi! — gridò la Regina, e i tre giardinieri, si levarono immediatamente in piedi, inchinandosi innanzi al Re e alla Regina, ai principi reali, e a tutti gli altri.

— Basta! — strillò la regina. — Mi fate girare la testa. — E guardando il rosaio continuò: — Che facevate qui?

— Con buona grazia della Maestà vostra, — rispose Due umilmente, piegando il ginocchio a terra, tentavamo...

— Ho compreso! — disse la Regina, che aveva già osservato le rose, — Tagliate loro la testa! — E il corteo reale si rimise in moto, lasciando indietro tre soldati, per mozzare la testa agli sventurati giardinieri, che corsero da Alice per esserne protetti.

— Non vi decapiteranno! — disse Alice, e li mise in un grosso vaso da fiori accanto a lei. I tre soldati vagarono qua e là per qualche minuto in cerca di loro, e poi tranquillamente seguirono gli altri.

— Avete loro mozzata la testa? — gridò la Regina.

— Maestà, le loro teste se ne sono andate! — risposero i soldati.

— Bene! — gridò la Regina. — Si gioca il croquet?

I soldati tacevano e guardavano Alice, pensando che la domanda fosse rivolta a lei.

— Sì! — gridò Alice.

Venite qui dunque! — urlò la Regina. E Alice seguì il corteo, curiosa di vedere il seguito.

— Che bel tempo! — disse una timida voce accanto a lei. Ella s'accorse di camminare accanto al Coniglio bianco, che la scrutava in viso con una certa ansia.

— Bene, — rispose Alice: — dov'è la Duchessa?

— St! st! — disse il Coniglio a voce bassa, con gran fretta. Si guardò ansiosamente d'intorno levandosi in punta di piedi, avvicinò la bocca all'orecchio della bambina: — È stata condannata a morte.

— Per qual reato? — domandò Alice.

— Hai detto: “Che peccato?” — chiese il Coniglio.

— Ma no, — rispose Alice: — Ho detto per che reato?

— Ha dato uno schiaffo alla Regina... —cominciò il coniglio.

Alice ruppe in una risata.

— Zitta! — bisbigliò il Coniglio tutto tremante. — Ti potrebbe sentire la Regina! Sai, è arrivata tardi, e la Regina ha detto...

— Ai vostri posti! — gridò la Regina con voce tonante. E gl'invitati si sparpagliarono in tutte le direzioni, l'uno rovesciando l'altro: finalmente, dopo un po', poterono disporsi in un certo ordine, e il giuoco cominciò. Alice pensava che in vita sua non aveva mai veduto un terreno più curioso per giocare il croquet; era tutto a solchi e zolle; le palle erano ricci, i mazzapicchi erano fenicotteri vivi, e gli archi erano soldati vivi, che si dovevano curvare e reggere sulle mani e sui piedi.

La principale difficoltà consisteva in ciò, che Alice non sapeva come maneggiare il suo fenicottero; ma poi riuscì a tenerselo bene avviluppato sotto il braccio, con le gambe penzoloni; ma quando gli allungava il collo e si preparava a picchiare il riccio con la testa, il fenicottero girava il capo e poi si metteva a guardarla in faccia con una espressione di tanto stupore che ella non poteva tenersi dallo scoppiare dalle risa: e dopo che gli aveva fatto abbassare la testa, e si preparava a ricominciare, ecco che il riccio si era svolto, e se n'andava via. Oltre a ciò c'era sempre una zolla o un solco là dove voleva scagliare il riccio, e siccome i soldati incurvati si alzavano e andavan vagando qua e là, Alice si persuase che quel giuoco era veramente difficile.

I giocatori giocavano tutti insieme senza aspettare il loro turno, litigando sempre e picchiandosi a cagion dei ricci; e in breve la Regina diventò furiosa, e andava qua e là pestando i piedi e gridando: — Mozzategli la testa! — oppure: — Mozzatele la testa! — almeno una volta al minuto.

— Alice cominciò a sentirsi un po' a disagio: e vero che non aveva avuto nulla da dire con la Regina; ma poteva succedere da un momento all'altro, e pensò: “Che avverrà di me? Qui c'è la smania di troncar teste. Strano che vi sia ancora qualcuno che abbia il collo a posto!”

E pensava di svignarsela, quando scorse uno strano spettacolo in aria. Prima ne restò sorpresa, ma dopo aver guardato qualche istante, vide un ghigno e disse fra sè: “È Ghignagatto: potrò finalmente parlare con qualcuno.”

— Come va il giuoco? — disse il Gatto, appena ebbe tanto di bocca da poter parlare.

Alice aspettò che apparissero gli occhi, e poi fece un cenno col capo. “È inutile parlargli, — pensò, — aspettiamo che appaiano le orecchie, almeno una.” Tosto apparve tutta la testa, e Alice depose il suo fenicottero, e cominciò a raccontare le vicende del giuoco, lieta che qualcuno le prestasse attenzione. Il Gatto intanto dopo aver messa in mostra la testa, credè bene di non far apparire il resto del corpo.

— Non credo che giochino realmente, — disse Alice lagnandosi. — Litigano con tanto calore che non sentono neanche la loro voce... non hanno regole nel giuoco; e se le hanno, nessuno le osserva... E poi c'è una tal confusione con tutti questi oggetti vivi; che non c'è modo di raccapezzarsi. Per esempio, ecco l'arco che io dovrei attraversare, che scappa via dall'altra estremità del terreno... Proprio avrei dovuto fare croquet col riccio della Regina, ma è fuggito non appena ha visto il mio.

— Ti piace la Regina? — domandò il Gatto a voce bassa.

— Per nulla! — rispose Alice; — essa è tanto... — Ma s'accorse che la Regina le stava vicino in ascolto, e continuò —...abile al giuoco, ch'è inutile finire la partita.

La Regina sorrise e passò oltre.

— Con chi parli? — domandò il Re che s'era avvicinato ad Alice, e osservava la testa del Gatto con grande curiosità.

— Con un mio amico... il Ghignagatto, — disse Alice; — vorrei presentarlo a Vostra Maestà.

— Quel suo sguardo non mi piace, — rispose il Re; — però se vuole, può baciarmi la mano.

— Non ho questo desiderio, — osservò il Gatto.

— Non essere insolente, — disse il Re, — e non mi guardare in quel modo. — E parlando si rifugiò dietro Alice.

— Un gatto può guardare in faccia a un re, — osservò Alice, — l'ho letto in qualche libro, ma non ricordo dove.

— Ma bisogna mandarlo via, — disse il Re risoluto; e chiamò la Regina che passava in quel momento: — Cara mia, vorrei che si mandasse via quel Gatto!

La Regina conosceva un solo modo per sciogliere tutte le difficoltà, grandi o piccole, e senza neppure guardare intorno, gridò: — Tagliategli la testa!

— Andrò io stesso a chiamare il carnefice, — disse il Re, e andò via a precipizio.

Alice pensò che intanto poteva ritornare per vedere il progresso del gioco, mentre udiva da lontano la voce della Regina che s'adirava urlando. Ella aveva sentito già condannare a morte tre giocatori che avevano perso il loro turno. Tutto ciò non le piaceva, perchè il gioco era diventato una tal confusione ch'ella non sapeva più se fosse la sua volta di tirare o no. E si mise in cerca del suo riccio.

Il riccio stava allora combattendo contro un altro riccio; e questa sembrò ad Alice una buona occasione per batterli a croquet l'uno contro l'altro: ma v'era una difficoltà: il suo fenicottero era dall'altro lato del giardino, e Alice lo vide sforzarsi inutilmente di volare su un albero.

Quando le riuscì d'afferrare il fenicottero e a ricondurlo sul terreno, la battaglia era finita e i due ricci s'erano allontanati. “Non importa, — pensò Alice, — tanto tutti gli archi se ne sono andati dall'altro lato del terreno.” E se lo accomodò per benino sotto il braccio per non farselo scappare più, e ritornò dal Gatto per riattaccare discorso con lui.

Ma con sorpresa trovò una gran folla raccolta intorno al Ghignagatto; il Re, la Regina e il carnefice urlavano tutti e tre insieme, e gli altri erano silenziosi e malinconici.

Quando Alice apparve fu chiamata da tutti e tre per risolvere la questione. Essi le ripeterono i loro argomenti; ma siccome parlavano tutti in una volta, le fu difficile intendere che volessero.

Il carnefice sosteneva che non si poteva tagliar la testa dove mancava un corpo da cui staccarla; che non aveva mai avuto da fare con una cosa simile prima, e che non voleva cominciare a farne alla sua età.

L'argomento del Re, era il seguente: che ogni essere che ha una testa può essere decapitato, e che il carnefice non doveva dire sciocchezze.

L'argomento della Regina era questo: che se non si fosse eseguito immediatamente il suo ordine, avrebbe ordinato l'esecuzione di quanti la circondavano. (E quest'ingiunzione aveva dato a tutti quell'aria grave e piena d'ansietà.)

Alice non seppe dir altro che questo: — Il Gatto è della Duchessa: sarebbe meglio interrogarla.

— Ella è in prigione, — disse la Regina al carnefice: — Conducetela qui. — E il carnefice volò come una saetta.

Andato via il carnefice, la testa del Gatto cominciò a dileguarsi, e quando egli tornò con la Duchessa non ce n'era più traccia: il Re e il carnefice corsero qua e là per ritrovarla, mentre il resto della brigata si rimetteva a giocare.

 

                                                                                                                                                                                                                                   continua