Il
re Caldore e la regina Olina erano già oltre il limitare della vecchiezza. La
loro corte componevasi di cavalieri saggi, di monaci, di astrologhi e
d’alchimisti. Essi amavano conversare su le cose della sapienza, apprendere la
dottrina delle stelle, interpretare le Sacre Scritture e conoscere le virtù dei
metalli e delle pietre secondo il Lapidario del vescovo Marbodo. Avevano pieno
di grave maestà il volto, la canizie purissima, dolce la voce. I loro gesti
erano lenti; le loro movenze spiravano pace. Quando su le chinee mansuete
venivano cavalcando pe ’l reame, li uomini accorrevano umili a fare omaggio,
le donne gittavan copia di fiori.
Il loro figliuolo era un principe assai bello e
gagliardo.
La regina diceva al figliuolo: «Figliuolo mio,
noi siamo vecchi omai. Perché non ti scegli una sposa?»
Il principe rimaneva in pensiero, e sospirava
talvolta, dal profondo cuore.
Un giorno, poiché ricorreva la festa cristiana
dell’Ascensione, su le mense tutte sparse di rose i valletti recarono una
fresca giuncata. Il principe, com’era per tagliarla con un coltello d’oro,
si ferì la mano; e una goccia di sangue maculò la bianchezza del latte.
«O madre,» disse il principe, sorridendo, «volentieri
io sceglierei una sposa; ma ben vorrei così la giovine bella: sangue e latte.»
Corse per tutte le mense un mormorio leggero, come
d’un vento tra le fronde; e le damigelle s’invermigliarono.
Soggiunse il principe: «Io la troverò.»
E, il giorno seguente, venne al padre e alla
madre; e disse: «Datemi la vostra santa benedizione.»
Avuta la benedizione, si mise in cammino.
Viaggiò tutto il giorno, senza fermarsi mai; passò
boschi e fiumi. La notte lo prese in mezzo a una pianura sconfinata; ed era
notte senza luna. Egli scorse lontano un punto che brillava come una stella,
nella solitudine; e il cuore gli palpitò forte. Come più egli avanzava, più
quel punto diveniva luminoso. Alla fine, il principe giunse in vicinanza d’un
gran palazzo; e pose il piede in un cerchio di luce.
Pel raggio di sette miglia, in torno, il palazzo
emanava splendore; così che pareva sorgere in luce diurna, mentre le terre
circostanti giacevano nella notte.
Sorgeva il palazzo su la riva destra d’un fiume,
al confine di labirinti floridi abitati da cervi e da paoni. L’artifiziosa
architettura marmorea spandevasi nel cielo candidamente, come un’adunazione di
tabernacoli; quattro scale, ornate di balaustri, scendevano a bagnarsi nel
fiume; e per entro la trasparenza adamantina delle acque si vedevano i gradi
giungere sino al fondo dell’alveo consperso di arene d’oro.
Su l’altra riva una selva, nutrita, allargava
nell’aria fogliami non mai veduti. Dai tronchi prossimi al margine stillavano
in abondanza le gomme liquide e colavano per la corteccia o cadevano su
l’acqua formando ricche masse d’ambra che la corrente traeva. Le marmoree
imagini e le arboree nel comune specchio si abbracciavano, pendule e tremule. La
serenità era perenne.
Il principe ristette, preso dalla meraviglia.
Quindi si fece animo, a piè del palazzo, e gittò una voce.
«Chi chiama?» chiese la bella Vijenda,
affacciandosi al balcone d’una torre alta ed appartata.
«Datemi ricovero, per amore di nostro signore Gesù
Cristo, bella giovinetta. Io sono un povero viandante,» rispose il principe,
supplichevole.
«Andate, andate! Mia madre non è meco.»
«Abbiate misericordia, bella giovinetta. Io muoio
di stanchezza e di fame.»
«Andate andate! Mia madre non è meco.»
«Siate pietosa, per amor della madre, bella
giovinetta.
Mi si piegano i ginocchi, mi fanno sangue i piedi.»
«Andate, andate!»
«O bella giovinetta, chi vi diede il cuore così
duro? Sporgetevi alla ringhiera e guardatemi morire.»
«Dio! Dio!»
Vijenda discese dalla torre, tremando; ed aprì la
porta.
Il principe gittò un grido, in conspetto di tanta
bellezza.
«O madre, o madre, ringraziamo il signore Iddio
nostro; perché ho trovata la mia sposa!»
«Chi siete voi?» chiese Vijenda, a pena vide il
giovine sconosciuto. «Entrate e nascondetevi. Se torna mia madre, vi divora.»
«Io sono figliuolo di re, e vi cerco. Per pietà,
non mi scacciate!»
Chiuse Vijenda la porta, che al tocco della sua
mano scintillò come un diamante a un raggio; e condusse il principe su per le
scale interiori.
II
Le
scale salivano per lunghe spire, in torno un’alta colonna, a simiglianza di
serpi attorcigliati a una verga. La colonna, materiata d’una pietra
soprannaturale, era quella che reggeva tutto l’edifizio e generava la luce. Di
tal natura era la luce, che penetrava e traversava qualunque durezza; e faceva
cerchio preciso in torno per sette miglia. Come la fiamma in una lampada di
cristallo così la colonna nel palazzo turrito.
Giunta alla sua torre, Vijenda disse al principe:
«Entrate, mio signore.»
Quivi la bella dimorava. Quivi, seduta alla guisa
delle Orientali su cuscini di broccato d’argento, dilettavasi a trapuntare
dalmatiche e stole, prendendo riposo dalla sottil fatica per pregare Iddio. I
carbonchi su le pareti rendevano chiarore; dentro un vaso l’aloè ardeva
rendendo odore. Ella, vestita d’una seta di Catura, trapuntava e cantava. Le
sue attitudini erano armoniose come una musica; tutto il suo corpo irradiava
nativamente la luce e la giovinezza, come il corpo di una divinità. Ella
trapuntava e cantava. E la comunione dei raggi, dei profumi, delle attitudini e
della voce formava in torno a lei una sorta d’incantamento.
«Entrate, mio signore.»
Il principe entrò.
«Sedete, mio signore.»
Il principe si assise.
Vijenda si fece al balcone e rimase un istante in
ascolto. Il silenzio era profondo, in quel giorno soprannaturale.
«O bella giovinetta,» chiese il principe, «vorreste
ch’io vi fossi sposo?»
«Ben io vorrei, mio signore. Ma sappiate che mia
madre è la Borea. Se torna mia madre, vi divora.»
«Voi mi salverete, o bella; perché voi siete la
mia sposa.»
Nelli occhi di Vijenda appariva l’inquietudine.
Un mormorio lontano giungeva dalla selva dell’opposta riva. Il mormorio
cresceva, rapidamente. Era come il muggito d’un gran vento.
«Ecco mia madre!» esclamò la bella.
Tutta la selva rimbombava, sul fiume.
«Ecco mia madre!»
Tutta la selva rimbombava, e il palazzo tremava
dalle fondamenta.
«Ecco mia madre! Nascondetevi in quel forziere
d’oro.»
Il principe si nascose nel forziere d’oro.
Il vento batteva forte le mura; batteva, batteva,
per riprendere le forme umane. Alla fine, compiuta la trasmutazione, chiamò di
sotto alla torre:
«Figlia
Vijenda, o fior de le bellezze,
fatti al balcone, spandi le tue trezze!
Spandi le belle trezze, occhio di sole,
perché la madre tua risalir vuole.
Vuol risalire per la dolce scala:
fatti al balcon, le belle trezze cala!
Vuol risalire per la scala d’oro:
figlia Vijenda, getta il tuo tesoro!»
Vijenda
sciolse i suoi lunghi capelli, dall’alto della torre; e la Borea risalì.
Come fu dentro, la Borea fiutò l’aria. In vano
Vijenda gettò nel braciere ardente un pugno d’aloè puro. La Borea disse: «Qui
c’è un cristiano.»
«O madre, come vuoi tu che qui ci sieno
cristiani? Forse ancora ne porti nelle nari l’odore, perché giri tutto il
mondo.»
La Borea non si diè per vinta. Cercò per tutta
la torre; e trovò alla fine il figliuolo del re, nel forziere prezioso.
«Ah, tu sei qui? Preparati a morire.» E metteva
da’ denti un terribile stridore.
«Perdonalo, madre,» pregò Vijenda,
inginocchiandosi. «E un viandante che ha smarrita la via. Chiede ricovero per
questa notte sola.»
La Borea perdonò, per quella notte sola.
III
La
mattina seguente, la Borea, prima di partire, chiamò il figliuolo del re, che
ancora era fra le braccia de’ sogni.
«Alzati e seguimi.»
Il principe si alzò; e la seguì in una grande
stanza tutta quanta di cristallo, dove un mucchio innumerabile di gemme
fiammeggiava come un rogo. Erano più che cento sacca di smeraldi, zaffiri,
carbonchi, crisoprassi, almandini, giacinti e turchesi. E la variazione dei
fuochi era tale che li occhi del principe ne restarono abbarbagliati e la
ragione per un poco ne restò smarrita.
Disse la Borea: «Io ti chiudo qui dentro. Tu
questa sera, al mio ritorno mi farai trovar separate tutte le pietre in sette
cumuli, secondo la loro qualità. Se non, preparati a morire.»
Chiuse; e partì pe’ suoi viaggi volubili su le
terre e su i mari.
Udì il figliuolo del re rimbombare la selva come
la sera innanzi; e, a quel rombo, imaginò i terribili castighi. Il mucchio
delle gemme, a mezzo del pavimento cristallino, ardeva aspettando che ci si
ponesse all’opera. Un silenzio profondo occupava la casa.
«Cristo Gesù, aiutatemi!» pregò il misero
principe.
E, guardando il mucchio che richiedeva almeno il
tempo d’una lunazione ad esser numerato da un uomo solo, ruppe in un gran
pianto.
«O Vijenda! O Sposa Vijenda!»
La giovinetta comparve, di là dalla parete
diafana e sonora. Ella sorrideva. Il sorriso moltiplicavasi nel cristallo, come
un’onda lucida in un lago quieto.
Tre volte ella girò silenziosamente in torno alla
carcere del principe. Quindi parlò.
«Non piangete, o mio sposo. Le pietre m’obediranno.
Io so ben l’arte.»
Le pietre si misero a fiammeggiare più forte e a
vivere come occhi che avessero sguardo.
Ella chiamò i carbonchi. «O carbonchi, che avete
virtù di riconfortare alli uomini gli spiriti e le membra, di fugar per sempre
la tristezza e i sogni vani, io vi comando. Separatevi.»
I carbonchi a quelle parole eruppero dal mucchio,
come le faville da un incendio sotto un vento improvviso.
Ella chiamò gli zaffiri. «O zaffiri, gemme atte
alle dita dei re, potenti a dissetare il sitibondo, a lenire l’ardenza
interiore, e infusi nel latte a sanar le ferite, e a proteggere l’uom casto
contro la paura, contro il tradimento, contro il veleno, io vi comando.
Separatevi.»
Gli zaffiri, uscendo dal mucchio, non più turbati
dalle altre fiamme, rifulsero placidi eguali in disparte, simili ai frammenti
d’un puro cielo.
Ella chiamò gli smeraldi. «O smeraldi, custodi
della castità, che sanate la lebbra, scoprite la menzogna, accrescete la
ricchezza, placate la procella, io vi comando. Separatevi.»
Gli smeraldi spuntarono fuor del mucchio, simili
alle piccole innumerevoli foglie in un tronco ebro di primavera.
Ella ancora chiamò i crisoprassi, li almandini, i
giacinti, le turchesi. Tutte le qualità delle gemme si separarono, innanzi al
principe stupefatto.
IV
Quando
a sera tornò la Borea e vide il miracolo, disse: «Questa non è opera tua, ma
della mia Vijenda.»
E il giorno dopo, prima di partire, condusse il
principe in un’altra vastissima stanza; dov’era un mucchio di piume, gaio e
molle come una messe di fiori.
«Cento specie di uccelli han fornito queste
piume,» disse la Borea. «Fa che al mio ritorno io trovi separate le cento
qualità in cento cumuli diversi. Se non, preparati a morire.»
Ed ella partì, mugolando.
Allora Vijenda per virtù d’un’arte magica aprì
la porta della prigione e fecesi innanzi al figliuolo del re, che piangeva.
«Io non piango per paura della morte, ma perché
tu non sarai più la mia sposa!»
«Io sarò la tua sposa, perché t’amo. Vuoi tu
fuggir meco, mio signore?»
«Voglio.»
«E bene, aspetta.»
Prima di fuggire, Vijenda compose un beveraggio e
abbeverò tutti li utensili della casa, poiché tutti li utensili eran fatati.
Ma obliò di abbeverare un treppiè d’oro che stava in mezzo alla cenere.
«Sei pronta?» chiese, impaziente, il principe.
«Eccomi. Aspetta.»
Ella prese un pettine, una spola e una reliquia
della croce di Nostro Signore Gesù Cristo. Quindi gridò: «Andiamo.»
Per lucidi labirinti di scale, condusse l’amante
a una porta di cedro immarcescibile che, obedendo a una parola mormorata, si
aperse.
Dava quella porta sopra un chiuso. Si levavano
d’intorno, a grande altezza, siepi di rose che fiorivano perpetuamente e
formavano un limite insormontabile. Il terreno era coperto d’erbe molli, tutte
gemmanti di rugiade. Rivoli d’acqua irrigavano la verdura e facevano una
musica sommessa. Quivi i cavalli della Borea pascolavano.
Erano bianchi come i cigni, snelli come li
unicorni, feroci come le sfingi, ardenti come le chimere. I loro occhi lucevano
umidi e neri fra i crini; i loro crini eran così lunghi che le zampe nel
galoppo vi s’implicavano; le loro zampe avean unghie polite come il diaspro,
che davan faville e tuono.
Quando essi udirono il piccolo grido che gittò la
bella, accorsero nitrendo, fremendo, chiedendo di correre, mettendo il soffio
delle loro narici su le mani di lei, guatandola con occhi ove fiammeggiava la
brama delli spazii smisurati.
Vijenda scelse nella torna i due corridori più
veloci. Ella balzò su l’uno, il principe su l’altro. Sentendo il peso, i
cavalli partirono come da un arco saette.
V
Tornò
a sera la Borea e chiamò:
«Figlia
Vijenda, o fior di bellezze,
fatti al balcone, spandi le tue trezze!
Spandi le belle trezze, occhio di sole,
perché la madre tua risalir vuole.
Vuol risalire per la dolce scala:
fatti al balcon, le belle trezze cala!
Vuol risalire per la scala d’oro:
figlia Vijenda, getta il tuo tesoro!»
Chiamò
a lungo ed in vano. Sul balcone della torre non apparve alcuno.
Ma il treppiè d’oro, che non era stato
abbeverato, si fece piano piano presso una finestra e disse: «Non chiamare, non
chiamare; perché la tua Vijenda è fuggita col figliuolo del re.»
Mise un urlo la madre, e senza indugio si diede a
inseguire i fuggitivi.
Corse, corse, corse. Vijenda la sentì in
lontananza.
«Ecco mia madre! Ecco mia madre!»
Ella gittò la spola.
«Io voglio che questa spola divenga una montagna
alta fino alle nuvole, così che né pure il vento la possa varcare.»
La spola divenne una montagna; ma la Borea, dopo
molta fatica, passò.
«Ecco mia madre! Ecco mia madre!»
Vijenda gittò il pettine.
«Io voglio che questo pettine divenga una siepe
di spini così densa che né pure il vento la possa penetrare.»
Il pettine divenne una siepe. La Borea
s’insanguinò tutta, ma passò.
«Ecco mia madre! Ecco mia madre!»
Vijenda gettò la reliquia. La reliquia divenne
una chiesa; Vijenda, una pila d’acqua santa; il figliuolo del re un
crocifisso. I cavalli disparvero.
Giunse la madre alla chiesa ed entrò. Sotto li
archi il silenzio era solenne. Nelle cappelle, d’innanzi alle imagini, le
lampade ardevano dolcemente. Tutta la navata si rispecchiava nella pila
profonda.
Stette in ascolto la madre; ma non udì che il suo
ansare.
Allora s’inginocchiò nel mezzo della chiesa, si
scoperse le mammelle, si sciolse i capelli, ed imprecò: «O figlia, non ti
maledico. Ma che il tuo sposo, a pena abbia dalla madre il primo bacio, possa
scordarsi di te per sette anni.»
Baciò il pavimento e partì.
Vijenda e lo sposo ripresero le forme umane e si
rimisero in cammino.
Dopo molte miglia giunsero in un luogo poco
discosto dalla città; dov’era una fonte di acqua pura all’ombra d’un
salice grandioso.
Disse il principe: «Io non voglio che tu entri in
città senza pompa. Vado a ordinare le cerimonie. Aspettami qui; anzi, perché
nessuno ti scopra, pòniti su questo salice, tra i rami piangenti, a specchio
della fontana.»
«Tu mi abbandoni?» disse Vijenda. «Ma ricordati
l’imprecazione. Se tua madre ti bacerà, io rimarrò qui per sette anni
dimenticata.»
«Non temere, o mia bella. Io non mi lascerò
baciare.»
«Ricòrdati!»
«Io non mi lascerò baciare.»
Tornò alla reggia paterna il principe, e la bella
Vijenda restò sul salice.
Come il principe mise il piede sulla soglia della
reggia, un alto clamore di gioia si propagò d’improvviso per tutti li atrii,
per tutte le stanze, per tutti i giardini. E la regina madre corse in contro al
figliuolo diletto; e, prima ch’egli avesse potuto difendersi dall’impeto,
gli gettò le braccia al collo e gli coperse il volto di baci.
Il figliuolo del re si scordò di Vijenda.
A lungo, a lungo stette Vijenda aspettando, in sul
salice. Quando vide che lo sposo non tornava, disse tra le lacrime: «La madre
l’ha baciato!»
E rimase per sette anni, in sul salice, a
lacrimare.
VI
In
capo ai sette anni, una femminetta venne ad attingere acqua alla fontana, con
una conca d’argilla. Era giorno di primavera; e tutto il salice verdeggiava in
pioggia folta, misto ai capelli di Vijenda abbandonata.
Vide la femminetta riflettersi nello specchio la
bella faccia di Vijenda e, credette quella fosse la propria immagine, esclamò:
«Quanto son bella!»
Rimirò un poco, attonita.
«Tanto son bella e vado per acqua? Maledetta la
padrona che mi manda!»
E gittò la conca, che si ruppe in mille pezzi.
A quell’atto, Vijenda dall’alto dell’albero
rise forte. Udì le risa la feminetta, levò li occhi, ed esclamò: «Ah, siete
voi, bella signora!»
La signora rideva in cima del salice, come il sole
in cima d’una collina. I suoi capelli, divenuti selvaggi, parevano tra il
pianto arboreo raggi d’oro.
«Buona fanciulla,» parlò la figlia del vento,
«rendimi un servigio. Va al figliuolo del re e digli che già da sette anni io
sto su questo salice dimenticata.»
«O bella signora, perché non discendete? Siete
come il sole, ma i vostri capelli sono tutti scomposti. Voglio pettinarvi.
Discendete!»
«Non posso discendere, buona fanciulla; perché i
miei capelli sono intrecciati ne’ rami del salice, come fili d’oro in corde
di seta.»
«O bella signora, voglio pettinarvi. E vergogna per voi essere così
scarmigliata. Discendete!»
«Non posso discendere, buona fanciulla. I
ramoscelli mi legano i polsi e le caviglie.»
«Discendete!»
Vijenda, cui piacque il pensiero d’esser libera
dall’intrico dell’albero, diè un balzo e fu a terra, rotto ogni legame. La
chioma la copriva tutta quanta, sparsa di foglie verdi, come un drappo
tempestato di berilli fini.
«Sedetevi su quella pietra, bella signora,» le
disse la femminetta.
Ella si mise a sedere su la pietra, e l’altra
sul margine della fontana.
«Posate la testa su le mie ginocchia.»
Vijenda posò la testa meravigliosa su le
ginocchia della fanciulla che incominciò a pettinarla. Cadevano, sotto il morso
del pettine, le foglie a una a una.
«Perché, signora, non mi raccontate la vostra
storia, mentre io vi pettino?»
Vijenda prese a raccontar la sua storia,
benignamente. Non si vedeva il suo volto, celato dai capelli; né si vedeva
punto la sua bocca parlante. Ma la parlatura sua soave pareva pullular piano di
tra l’abondanza del biondo, in guisa d’una vena che sorga lucida e trepida a
mezzo di virgulti flessuosi.
Com’ebbe finito il racconto, ella andò per
levare la testa. Ma la fanciulla perfida tolse il lungo spillo d’oro che
Vijenda portava ne’ capelli e le trafisse la tempia delicata.
Vijenda morì, senza un sospiro. Una sola goccia
di sangue sgorgò dalla ferita. Quella goccia vermiglia cadde sopra un fiore; e
il fiore diventò una colomba; e la colomba s’involò subitamente.
La perfida trasse le vesti al cadavere; si coprì
di quelle vesti e gittò il corpo nella vicina peschiera. Quindi salì sul
salice.
Alle femmine che
venivano per attingere acqua parlava: «Andate al figliuolo del re e ditegli che
già da sette anni io sto su questo salice dimenticata.»
VII
Le
femmine andarono a chiamare il figliuolo del re.
«Ah, sciagurato ch’io fui!» gridò il
principe, battendosi la fronte. «Povera sposa mia!»
Adunò tutta la corte; adunò tutte le milizie, i
fanti e i cavalieri; ordinò una pompa di non mai veduta magnificenza. Il corteo
regale doveva passare sotto ghirlande di fiori, sovra tappeti di fiori. I
palafreni portavano briglie ricamate di perle ed ampie gualdrappe stellanti, i
cui lembi venivan sorretti da nani vestiti di verde, con trombe d’avorio sul
dorso. Cento damigelle e cento damigelli facevano un coro melodioso. Quaranta
chinee bianche eran cariche di tesori sovrammirabili per l’adornamento della
principessa Sangue-e-latte. Tutto il popolo seguiva, con clamori di gioia.
Quando il corteo giunse al salice della fontana,
il figliuolo del re si gittò innanzi. Ma poi che vide la femminetta nelle vesti
di Vijenda, stupefatto esclamò: «Dio! Come sei diversa!»
E rimase in confusione grande.
«Ah, son diversa?» rispose quella con la voce
dura. «Il sole mi ha riarsa, la pioggia mi ha bagnata fino alle midolle, il
gelo mi ha assiderata, per sette anni!»
Il principe si sentiva dal rimorso stringere il
cuore.
«Per sette anni! Il sole m’ha annerita, la
pioggia m’ha afflosciata, il gelo m’ha intisichita, per sette anni!»
Il principe le tese le braccia. «Povera sposa
mia!»
VIII
E
il ritorno fu trionfale, sotto nuvoli di rose, al suono degli strumenti, fra le
alte canzoni.
Ma diceva il popolo, guardando la nuova
principessa: «Questa è dunque la famosa Sangue-e-latte? Questa è dunque la
bella delle belle? Questa è la fidanzata che vien da lontano?»
I poeti della corte molto s’affaticavano a
trovar rime di lode, ma i loro inni eran senza ardore. Le damigelle ridevano
d’un crudel riso, guardando le mani della falsa Vijenda.
Era pronto il convito nuziale. I principi, i
duchi, i marchesi, i conti, i baroni i più gravi signori del reame, sedevano a
mensa. Su vasellami d’argento i servi portavano fumidi paoni con tutte le
piume occhiuse. I coppieri versavano ruscelli di vino da urne di alabastro in
coppe d’agata. I musici e i danzatori suonavano e danzavano per rallegrare i
cuori.
La regina madre si chinò verso il figliuolo,
dolcemente; e gli chiese: «Ricordi figliuol mio, quella goccia di sangue che
cadde sulla giuncata e ti mise nell’animo il desiderio d’una sposa
Sangue-e-latte?»
A pena nominata la goccia di sangue, entrò per un
balcone una colomba nivea che discese sulla mensa e prese a fare un gemito roco
e soave.
«Uccidete quella colomba!» gridò la falsa
principessa, alzandosi, pallida e sbigottita.
Il figlio del re trasse la spada e uccise la
colomba a volo.
Ma dalla morte della colomba sorse una vita umana:
sorse la forma di Vijenda, della bella Sangue-e-latte; e illuminò tutto il
convito, come un’aurora.
Presi dalla meraviglia, li astanti tacevano.
«Ecco la tua sposa!» cantò la figlia della
Borea, tendendo le braccia al principe. «Ecco la sposa che morì per te e per
te rivive.»
Disse il principe, correndole tra le braccia: «Ecco
il tuo sposo, o Regina!»
E la figlia della Borea baciò la bocca al
figliuolo del re. E per sempre fu di lui.
A torno, le grida e le salutazioni si
moltiplicarono; piovvero fiori; corsero fiumi di vino.
La femmina perfida fu arsa, innanzi ai balconi
della reggia; e le vampe fecero riscintillare i vasellami e le coppe del
convito.
Il Natale di Martin
Leone Tolstoj
In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo. Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore. "Non ho più desiderio di vivere." gli confessò "Non ho più speranza". Il vegliardo rispose: "La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi". Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno. E così accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: "Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi". Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi così? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò. All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma sentì distintamente queste parole: "Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò". L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro. Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin uscì sulla soglia e gli fece un cenno. "Entra" disse "vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo". "Che Dio ti benedica!" rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde. "Non è niente" gli disse Martin. "Siediti e prendi un po' di tè". Riempì due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempì di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra. "Stai aspettando qualcuno?" gli chiese il visitatore. "Ieri sera" rispose Martin "stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: 'Guarda in strada domani, perché io verrò?'." Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. "Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo". Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa. "Mangia, mia cara, e riscaldati" le disse. Mangiando, la donna gli disse chi era: "Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle". Martin andò a prendere un vecchio mantello. "Ecco." disse. "È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo." La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. "Che il Signore ti benedica". "Prendi" disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l'accompagnò alla porta. Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po', vide una donna che vendeva mele da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente. Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. "Lascialo andare, nonnina" disse Martin. "Perdonalo, per amor di Cristo". La vecchia lasciò il ragazzo. "Chiedi perdono alla nonnina" gli ingiunse allora Martin. Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: "Te la pagherò io, nonnina". "Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato" disse la vecchia. "Oh, nonnina" fece Martin "se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato". "Sarà anche vero" disse la vecchia "ma stanno diventando terribilmente viziati". Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. "Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada". La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme. Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale. Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si aprì invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio: "Martin, non mi riconosci?". "Chi sei?" chiese Martin. "Sono io" disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola. "Sono io" disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero. "Sono io" ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono. Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: 'Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste'. In fondo alla pagina lesse: 'Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l'avete fatto a me'. Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.
AGENTE BABBO NATALE MISSIONE SPECIALE
Stefano Benni
PROLOGO
Se volete sapere con precisione dove inizia la nostra storia, cercate sulla carta geografica la Groenlandia. Nella costa Est, proprio di fronte alle isole Ellesmere c'è un paese chiamato Thule. A pochi chilometri da Thule c'è un monte spazzato da venti gelidi, su cui resistono solo pochi abeti contorti e tenaci. Alle pendici di questo monte c'è una grotta, detta la grotta degli Orchi Rossi. Narra la leggenda che nelle notti d'inverno, specialmente nelle imminenze del Santo Natale, dalle profondità di questa grotta vengano rumori e risate, che il sottosuolo tremi come per un sabba sotterraneo e che dall'entrata della grotta, all'improvviso, decollino astronavi fiammeggianti che si perdono nel cielo artico. Leggende, come dicevo: tutti conoscono il rumore che il vento produce mulinando nelle viscere delle grotte, e tutti sanno che la Groenlandia è l'isola dei geyser sibilanti. Ecco spiegati i rumori. In quanto alle "astronavi fiammeggianti", chi ha avuto la fortuna di assistere a quel magico spettacolo che è un'aurora boreale, ne conosce bene i fenomeni: fantasmi di luce, riverberi accecanti che saettano da una parte all'altra del cielo. Eppure, passando da quelle parti, la curiosità animalesca mi spinse a dare un'occhiata. Mi presento: mi chiamo Selma, e sono una volpe artica.
LA GROTTA DEGLI ORCHI ROSSI
Era una notte di dicembre, molto vicina a Natale. Il vento spazzava la difesa gelata attorno al monte sollevando nuvole di nevischio come una gigantesca scopa. Pur avendo regolarmente cambiato al Grande Supermarket della Natura il mio vecchio pelo primaverile con un nuovo pelo bianco assai caldo, e pur indossando un maglione di pura lana norvegese, avevo freddo. Mi infilai quindi con piacere nella grotta, dove almeno ero al riparo dalle ruvide carezze del vento. E qui ebbi la prima sorpresa. Vidi nella neve molte orme di umani. E, cosa del tutto nuova per me, che sono abilissima nel riconoscere e catalogare le orme (se no avrei già lasciato tutte le zampe nelle tagliole!), esse erano tutte uguali, di uomini con lo stesso numero di scarpa, il quarantasei, e dello stesso tipo di calzatura, uno stivalone di renna cucito a mano. Inoltre appartenevano a persone più o meno dello stesso peso: omoni di centotrenta e più chili. Fu quindi con una certa cautela che mi incamminai in un lungo corridoio di stalattiti, lussuoso e abbagliante come la hall di un grande albergo (non ne ho mai visto uno, ma immagino sia così). E mentre mi avvicinavo alla fine del corridoio, là dove balenava una luce rossastra, sentii chiaramente i rumori, e non erano né il soffio dei geyser né il mulinare del vento. Erano voci umane, battere di pietre e martelli e... cori! Sì, sentii distintamente le parole di una canzone intonata da dieci vocioni orcheschi. Su bambini, su bambini il sacco è pronto già nella notte di nascosto vi verremo a visitar..... Ed ecco, nella fucina infernale, li vidi. Erano più di duecento, alti quasi due metri, con grandi pance e braccia muscolose. Il fuoco arrossava i loro visi mentre a petto nudo, sudati, martellavano e forgiavano come titani di Efesto (ho fatto il Classico). Alcuni spingevano carrelli, altri azionavano mantici, altri tenevano in mano corpicini ai quali staccavano gambe e teste, li colpivano col martello, li inchiodavano ai tavolacci. Tutti avevano una folta barba bianca, baffoni e capelli candidi, e in testa un cappello rosso a cono. Allora capii: avevo scoperto il punto più segreto della terra, il covo dei Babbo Natale, la Grande Azienda ove si costruiscono e si smistano i giocattoli per i bambini di tutto il mondo. E qui il mio compito di narratrice si esaurisce: la volpe Selma rubò un pezzo di salsiccia e se la svignò dalla grotta.
AGENTE ULF MISSIONE SEGRETA
Ulf Claus Gunvunssunsson era uno dei Babbinatali più vecchi ed esperti. Aveva trecentosei anni e aveva portato giocattoli a migliaia di bambini, tra cui alcuni famosi come Mozart, Hoffmann, Lamarck, la regina Vittoria, Coppi, il cancelliere Bismarck, Pasteur, Aragon, Roosevelt, Rubick, Bob Dylan, Chinaglia, Walt Disney, Satana Manson e Cossiga. Per via dell'età era stato spostato da Consegnatore Volante a Controllore di Qualità del settore giocattoli in plastica. Dopo anni e anni di voli notturni era infatti pieno di reumatismi e la sua stazza era tale che non riusciva più a scendere attraverso i camini. Attualmente stava controllando una partita di Mostri Bavosi per i bambini austriaci, quando sentì la voce dell'altoparlante. - Il Babbo Ulf Gunvunssunsson è desiderato dal presidente. Ulf lasciò il bancone, si allacciò il colletto della tuta rossa e rispose al saluto di auguri dei colleghi incrociando le dita. Essere ricevuti dal presidente, il Mammasantissima Natale, era un onore che capitava di rado, ma poteva significare solo due cose: o una promozione, o la retrocessione a un lavoro umile, come collaudatore di trottole o cuoco di pop-corn. Fu quindi con una certa ansia che Babbo Natale Ulf salì la scala a chiocciola che portava alla Grotta Suprema. Cercava di ricordarsi se negli ultimi tempi avesse commesso qualche errore o gli fosse scappata qualche frase irriguardosa. Si ricordò che il mese prima, dopo una bella bevuta, aveva discusso coi colleghi su una cantante italiana che interpretava il novantasette per cento delle sigle di cartoni animati del suo paese. "Ma che rompipalle, questa Cristina Semolina" aveva detto "ma chi ha dietro, il Vaticano?". Che Mammasantissima Natale lo avesse saputo? Ma le paure di Ulf si dissolsero non appena il presidente gli venne intorno sorridendo, e lo abbracciò. In fondo non erano passati che centocinquanta anni da quando facevano insieme le consegne. - Ti ricordi Ulf, quando capitammo in quella riunione con Lenin e ci spararono scambiandoci per la polizia zarista? - Certo, capo: e quando per sbaglio portammo i due bambolotti neri alla famiglia Goebbels? Risero abbondantemente e bevvero sei litri di kirsh e acquavite di lingam, bevande preferite dei Babbi Natali. Poi, all'improvviso, il Mammasantissima si fece serio, e posò la mano sulla spalla di Ulf. - Vecchio amico - disse - ho bisogno di te. Di te e della tua discrezione. - Una grana? Ancora cocaina dentro gli orsacchiotti? - Peggio - disse il Mammasantissima indicando un grosso pacco coperto da un telo - Una consegna non fatta. Non capisco come sia potuto accadere. - Succede - lo rincuorò Ulf - Certo nella nostra categoria non consegnare puntualmente un regalo natalizio è un errore gravissimo: ma avremo sbagliato sì e no dieci volte in cento anni, e un piccolo ritardo non scandalizzerà nessuno. - Questo non è un piccolo ritardo - sospirò il presidente. Tolse il telo dal pacco e apparve uno scatolone infiocchettato con la scritta: Italia, 1983. - Per tutte le Palle del Grande Albero di Natale - disse Babbo Ulf - Dieci anni di ritardo! - Sì. Il massimo ritardo che si ricordi nella storia della nostra azienda, è di due anni e stavolta questi dieci anni sono un autentico scandalo. Se lo sapessero quelli della Dhl, o quel maledetto Spielberg, sarebbe la rovina del nostro buon nome. Capisci ora perché ti ho chiamato? - Credo di sì - disse Ulf ingollando due sorsi di kirsh - dovrò consegnare quel pacco. - Certo, ma di nascosto e facendo finta di niente. Partirai stanotte stessa. - D'accordo. Chi è il destinatario? - Ecco un altro problema - disse il Mammasantissima - l'indirizzo è quasi completamente cancellato dalla maledetta umidità di queste grotte. Sappiamo solo che il dono era destinato a qualcuno molto potente in Italia in quegli anni. Leggi questo dossier durante il viaggio, trova qualcuno e scaricagli il regalo giù dal camino. L'onore della categoria è nelle tue mani - disse il Mammasantissima con gli occhi lucidi. - Fidati di me, capo - disse Ulf infilandosi il dossier in tasca e allontanatosi con aria decisa. - Ehm... Ulf - lo bloccò la voce del Mammasantissima. - Cosa c'è ancora? - Prima di partire fatti una sauna. Sei così grasso che non passeresti neanche attraverso il reattore di una centrale nucleare.
IL GARAGE DELLE SLITTE
Babbo Natale Ulf, col permesso di partenza firmato e timbrato, si presentò al Parco Slitte. Non c'era più nessuno che conosceva. C'era un garagista giovane di duecento anni, addirittura con la barba grigia. - Vorrei la mia slitta e le mie dodici renne - disse Ulf - la slitta si chiama Pegasus BN 1765, e le renne si chiamano Wilma, Wotan, Wilhelmina, Wittgestein, Wapiti, Whiskyagogo, Winona, Wilbur... - Momento, momento, che targa ha detto? - lo interruppe il garagista consultando un registro. - Pegasus BN 1765. - Come pensavo. Vede, il parco veicoli è stato rinnovato, e le slitte fino al numero di targa duemila sono state sostituite. E anche le sue renne sono in pensione. Abbiamo però dei nuovi modelli. - Uhm - mugugnò Ulf, mentre il garagista lo portava in un hangar dove erano allineate centinaia di slitte, di un tipo che il vecchio Babbo Natale non aveva mai visto. - Molto meglio di quelle dei suoi tempi - trillò il garagista - Le slitte di legno si imbarcavano per l'umidità, si ghiacciavano, sbandavano col vento. Guardi questo modello, la Nightfly 405. Otto cilindri, carrozzeria in vetroresina, alettoni stabilizzanti, pattini con sospensioni, fari bicolori, bocchettoni antigelo, altimetro, loran, quattrocento chilometri orari a una quota di seimila metri, autonomia sedicimila chilometri, sedili ribaltabili,... - E le renne? - Eccole qui. Finte, di lattice, aerodinamiche, indistruttibili, con sei movimenti diversi, sembrano vere. Non mangiano, non cagano, non si ribellano e da lontano nessuno si accorge della differenza. - Voglio una slitta di legno e renne vere - protestò Babbo Ulf - non ne voglio sapere di questa robaccia. E poi cos'è quella scritta "Lego" sulla fiancata? - E' lo sponsor. - Mi rifiuto! - gridò Ulf - Non volerò mai su quell'aggeggio! - Allora resterà a terra - disse freddamente il garagista. - Comunicazione per il reparto slitte - tuonò una voce dall'altoparlante - qua parla il Mammasantissima. Verrà da voi tra breve un Consegnatore di nome Ulf. E' un gran rompicoglioni ma la sua è una missione speciale. Deve essere accontentato in tutto! - Visto? - disse Ulf soddisfatto. - Al suo servizio - disse il garagista, ossequioso - vado subito a prenderle la slitta. E per la muta, che ne direbbe di dodici bellissimi caribù canadesi nuovi di zecca? - No - disse Ulf - voglio le mie vecchie renne.
VERSO I CIELI D'ITALIA
Così, alla mezzanotte del ventiquattro dicembre, la Pegasus si innalzò zigzagando nel cielo groenlandese con direzione Sud. Le renne non erano più abituate a volare e il decollo fu molto faticoso. Wilhelmina incastrò le sue corna con quelle di Wupperthal, Wilma inciampò e restò appesa a testa in giù mentre Wotan, sbilanciato, le scalciava in pancia. Ma Ulf non si perse d'animo, e con l'esperienza bicentenaria di astropilota, rimise le renne in fila con quattro decisi strattoni di redini. - Wotan, più a destra. E tu, Walkrieg, più energia! - Wotan fa il furbo, si appoggia - si lamentò Wapiti. - Io? Sei tu che non sai più volare - disse Wotan. - Ho mal di schiena, andate piano - mugolò Wanda. - Quando si mangia? - chiese Waldemar.
L'ALBERGO DELL'EMIRO
Erano le quattro di notte quando Babbo Ulf arrivò sull'Italia. Durante il viaggio aveva letto il dossier sugli anni Ottanta e si era fatto un'idea su chi era stato potente in quel fosco periodo. Si diresse quindi senza esitazione verso la capitale del paese, e precisamente verso un leggendario albergo, una reggia a sette stellette ove aveva vissuto un potentissimo emiro di quei tempi. Lì sperava di poter consegnare il pacco. Atterrò con qualche difficoltà sul tetto dell'albergo, perché era tutto disseminato di antenne, alcune a forma rotonda mai viste da Ulf, e c'erano telecamere e cannoni, che sembravano far parte di qualche sistema difensivo in disuso. Babbo Ulf scaricò il pacco dalla slitta con ogni cautela. Era molto pesante e dall'interno proveniva uno strano rumore, come di un orologio, e un ronzio misterioso. Certo quel dono doveva essere stato molto ambito e prezioso, tanti anni prima. Mentre le vecchie renne, stremate dalla fatica, si rifocillavano con panini al muschio e tisane di lichene, Babbo Ulf si scolò mezza fiasca di kirsh e si infilò risolutamente, pacco in spalla, dentro il camino. Ebbe qualche problema all'inizio, poi a spallate e ancate riuscì a passare e piombò pesantemente nella stanza. Gli si presentò uno spettacolo desolante: calcinacci, sporcizia, cattivo odore. Tutto parlava di un fasto passato, di feste e baccanali, di un immenso antico potere. Ma ahimè, erano rimaste solo macerie. Il grande letto a baldacchino era roso dai topi e qua e là erano sparse vecchie giarrettiere, fruste e vibratori tricuspidati. Sulla tavola da banchetti, lunga decine di metri, restava solo qualche piatto rotto e una tovaglia consunta. Ai muri, scritte oscene e le macchie bianche dei quadri portati via. In fondo alla sala spalancava le fauci una cassaforte di dimensioni colossali. Un vero altoforno, che doveva aver contenuto chissà quali cifre e tesori. Ora era vuota e polverosa, e i ragni vi tessevano le loro trame di tele. - C'è nessuno qui? - scandì Ulf nel silenzio tombale. A quelle parole da sotto il tavolo sbucò un uomo scheletrico ed occhialuto. Gli occhi febbrili e i gesti concitati portavano il marchio inconfondibile della follia. Tra le mani, stringeva una fotografia ingiallita. - Cosa cerca, di che procura è? - strillò l'uomo - abbiamo già detto tutto, non c'è più niente qui, abbiamo restituito tutto, anche lui non c'è più, se volete recapitargli un altro avviso vi do' l'indirizzo ma non c'è, è partito, la vostra malvagità l'ha fatto fuggire! Babbo Ulf capì che con il termine "lui" il pazzo si riferiva all'uomo della fotografia. Fece un gesto rassicurante con la mano e disse: - Non sono di nessuna procura. Devo solo recapitare un pacco dono. C'è un lieve... ehm... ritardo di dieci anni, ma penso che lei comprenderà e non renderà pubblica la cosa... - No, basta! - urlò l'uomo - non so chi la manda, ma non ne prendiamo più. Vada via lei e i suoi soldi. Siamo già abbastanza compromessi. - Ma il mio presidente... - Porti via quel pacco e non si faccia più vedere - urlò l'uomo, estraendo una pistola. Babbo Natale Ulf risalì il camino assai più velocemente di come era sceso. Ancora col fiatone, svegliò a calci le renne e ripartì a tutta birra. Non era cominciata bene. Ma aveva una missione da compiere, e per Wotan, l'avrebbe portata a termine.
LA STANZA NERA
Il secondo obbiettivo di Babbo Ulf era un vecchio palazzo ove un uomo molto astuto, con fama di negromante, aveva regnato più o meno in quegli anni. Questa volta fu molto più facile passare per il camino, ma la stanza ove Ulf sbucò non era meno sinistra della precedente. Un salone di marmo nero, con crocefissi alle pareti e un tavolo ovale al centro. Sui muri, fori di proiettile, e bossoli sparsi sul pavimento. C'era stato certamente un regolamento di conti, là dentro. Ai lati della sala c'erano vasche di acido dall'odore nauseabondo. Babbonatale ci fece cadere dentro un pezzetto di legno che si dissolse in pochi istanti. - Ma che razza di posto è questo? - disse, sedendosi sul pacco. - Non c'è nessuno qui - disse una voce nasale proveniente dal soffitto. - Come non c'è nessuno?... Senta lei, io dovrei consegnare un pacco dono. - Lo consegni in America, alla solita pizzeria. Siamo momentaneamente chiusi. Appena ci riorganizzeremo e riprenderemo la nostra attività le comunicheremo i nostri nuovi recapiti. Non lo dica a nessuno che ci ha visto... - Ma io non vedo un bel niente... e le ripeto, ho un pacco per voi! - Se è un cadavere lo metta pure nell'acido. - Ma che cadavere - disse Ulf esasperato - Sono giocattoli. Giocattoli di Natale! - Questo è un nastro registrato - proseguì monotona la voce - ha trenta secondi per lasciare un messaggio che verrà registrato e poi usato per ricattarla. Noi non la conosciamo, lei non ci conosce. Quanto prima riprenderemo l'attività e le comunicheremo... - Ma andate a farvi benedire - disse Babbo Natale spazientito, voltando le spalle. - L'abbiamo fatto ma non è servito - rispose la voce misteriosa. Certo, sembrava proprio un nastro registrato, pensò Ulf mentre risaliva la cappa del camino. Eppure, per un attimo, gli parve di vedere un'ombra nera, come un gigantesco pipistrello, pendere dal soffitto a testa in giù.
LA CAPITALE MORALE
Albeggiava. Babbo Natale, sdraiato su Wanda, la più paffuta delle renne, cercò di fare il punto della situazione. - Per qualche motivo, nessuno in Italia vuole sentire parlare di quegli anni. Hanno tutti un gran paura. Sarà più difficile di quel che credevo. Ma forse ho sbagliato obbiettivo. - Questa non è più la capitale del paese. Là nel nord c'è la capitale morale, una città fredda e operosa, governata da uomini probi... - Amsterdam? - disse Whiskyagogo. - No. Altro è il suo nome. Là noi consegneremo il pacco! Giunsero all'operosa città in meno di due ore di volo. Era già mattina e tutti erano desti e intenti a timbrar cappuccini e archiviar brioches. Interminabili file di macchine si dirigevano lentissimamente verso i gangli industriali, i fumi delle ciminiere oscuravano il cielo. Schivando gli aerei fitti come mosche, Babbo Ulf guidò le renne fino a un vecchio cascinale in periferia. Qua tutto era come ai vecchi tempi, pensò Ulf. Il tetto coi coppi un po' smossi, il gallo segnavento, un bel camino in muratura, gatti peripatetici sulle grondaie. Un buon odore di polenta usciva dal camino. Babbonatale piombò dentro e schivò il paiolo con una abilissima capriola. Quando si rialzò in piedi, aveva un fucile con baionetta puntato sul naso. Un uomo occhialuto, stralunato gli gridava con foga da ossesso insulti incomprensibili. Babbo Ulf parlava trecento lingue, compresi i dialetti eschimesi e amazzonici, ma non aveva mai sentito suoni gutturali di quel tipo. Poco alla volta, mentre l'uomo esauriva l'impeto, gli sembrò di riconoscere in quella lingua un longobardo pidginizzato con termini latini, parole inglesi manageriali e politichese tardoscelbiano. - Cosa ci fai qui provocatore, chi ti manda? - disse più o meno l'uomo. - Porto un pacco dono - rispose Ulf. - Non ci casco - disse l'occhialuto - me lo molli qui e poi tra un'ora entra la finanza e ci trova dentro eroina cocaina o soldi, non ci incastri, siamo pirla solo quando ci serve, barbone comunista! - Non sono comunista. - E allora il vestito rosso? - E' il mio abito da lavoro. Tutti lo usiamo, lassù nel profondo nord. - Lassù nel profondo nord? - disse l'uomo, improvvisamente placato - Molto nel nord? - Certo, in Groenlandia. Nel posto più a nord che c'è. - Vuole dire - disse l'uomo spalancando gli occhi - più a nord di Sondrio? - Molto di più. - Ehi barbone - disse l'occhialuto dandogli una vigorosa stretta di mano - ma allora sei dei nostri. Ehi ragazzi, venite qua, c'è uno che abita a nord di Sondrio. Cosa posso fare per te nonno? - Te l'ho detto, accetta questo pacco dono. E' del 1983. - Non posso, siamo accerchiati. E poi in quegli anni imperava in Italia la vecchia mafia partitocraticodemoplutogiudaica, e noi siamo il nuovo. - Ma per Wotan - disse Babbo Ulf, nuovamente deluso - ma non c'eravate anche voi in quegli anni? Non vi accorgevate di cosa stava succedendo? - No - disse l'occhialuto - io dovevo tenere dietro all'orto. Lui andava avanti e indietro da Lodi. Lui non stava bene. Il nostro ideologo sgozzava gatti a pagamento... - E qualcuno magari stava in Ordine Nuovo... - Eccolo lì il provocatore che si è smascherato - urlò l'occhialuto, sparando un colpo che sibilò vicino all'orecchio di Babbo Natale - ecco lì la carogna traditrice della sua latitudine, il terrone artico, il marocchino eschimese! Babbonatale neanche rispose. Si diede a una terza precipitosa fuga, e spronò le renne nel cielo nebbioso, finché dovette rallentare, intrappolato in una nuvola di smog. Poco dopo, a un miglio di distanza nel cielo, sentì il rumore di un aereo...
IL CAVALIER CAPITONI
L'aereo era rosso e nero, tutto tappezzato di scritte di sponsor. Avvicinandosi si poteva vedere, attraverso il finestrino, un interno lussuoso con moquette, lampadari, quadri uno sull'altro, vasche da idromassaggio, alani di marmo, televisori incrostati di conchiglie. Ovunque il simbolo dell'anguilla incappucciata, il marchio del cavalier Capitoni, uno degli uomini più potenti dell'Italia anni 80. - Una consegna in volo - gridò Ulf alle renne - l'ho sempre sognata ma non ci sono mai riuscito! Forza, belle, abbordate quell'aereo! Non fu facile. Il jet andava veloce ma le renne, spronate nell'orgoglio, iniziarono a vorticare le zampe, alcune ritrassero addirittura le corna per essere più areodinamiche, e dopo una titanica pedalata raggiunsero l'obbiettivo. Babbo Ulf picchiò con le nocche sul finestrino. Vedendolo, il cavaliere, un uomo calvo con i capelli disegnati col pennarello, iniziò a gridare: - Un cosacco! Su una slitta a cavalli! Sono arrivati fin quassù! Aiuto. Subito apparvero due o tre gorilla armati di mitra. Ma anche i gorilla sono stati bambini e uno di essi disse: - Ma no cavalier Capitoni, non vede che è Babbo Natale? - E io dovrei credere che esiste Babbo Natale? - Se la gente deve credere che lei è un imprenditore democratico e onesto che si è fatto da solo senza ruffianare i partiti, può credere anche a Babbo Natale - rispose il gorilla. Poco dopo, precipitava negli spazi celesti. - Vuole rallentare o no? - gridò Babbo Natale, aggrappato a un'ala. - Non posso pagare - disse Capitoni - e comunque non ricevo i creditori a seimila metri di altezza. - Devo consegnare dei giocattoli... - Per i miei magazzini? Bene. Però l'avviso che posso pagarla solo con degli spot. O preferisce biglietti omaggio. O la collezione completa delle sigle di Cristina Semolina? Centoventi cassette più un puffo tostapane... A quel nome Babbo Ulf si sentì quasi mancare. Ma tenne duro e gridò: - E' un pacco pregiato, del 1983... - Non pago i debiti del mese scorso, si figuri quelli di dieci anni fa. In quei tempi ero solo un modesto riciclatore piduista. Mi lasci fare il mio partito in pace. Babbo Ulf capì che neanche quello era il suo uomo. L'aereo si allontanò nella nuvola di smog.
LA GRANDE FESTA
Fu così che, ancora una volta deluso, Babbo Ulf atterrò con la slitta su un prato ricco di rucola, e mentre le renne brucavano come falciatrici, si mise a riflettere se non fosse il caso di arrendersi. Ma gli venne vicino la vecchia e saggia renna Wittgenstein, bianca come la neve, e così parlò: - O mio depresso auriga. Io credo che cotesto pacco da consegnare ricordi agli italici un periodo orribile della loro storia, dai cui mostri si sono in parte liberati, ma di cui nessuno vuol sentirsi responsabile. Anzi tutti ne vorrebbero uscire nuovi e redenti. Basta guardare! Sui teleschermi, il tempo lasciato sembra inversamente proporzionale al talento e all'intelligenza del parlante. Gli stessi giornalisti che un volta esaltavano il Gran Palluto ora lo sbeffeggiano. Coloro che con deferenza ospitarono Belzebù sui loro giornali ora fingono di non conoscerlo. Comici e scribi solo ora si accorgono con orrore di quanto fascistone fosse il Cavaliere lor padrone. C'era un regime, ma niuno se n'era accorto, e chi allora sosteneva ciò veniva bollato come estremista e bombarolo. Mi dia ascolto, nessuno vorrà più quel pacco. Bisognerebbe farci i conti per davvero, e nessuno... - Zitto - disse Babbo Ulf. Da una villetta vicina sentiva venire un gaio rumore di canti, balli e frizzantini stappati. Babbo Ulf accostò il nasone alla finestra e vide un raduno di persone festanti. Al centro c'era un uomo baffuto, dall'aspetto simile a una foca groenlandese, col calice levato mezzo a una folla plaudente. Al muro era appeso uno striscione: "Viva i sindaci!". I sindaci stavano fianco a fianco, sommersi da manciate di coriandoli. Erano cinque: tre intelligenti, uno ricco, e uno bello. E tutto intorno a festeggiare c'erano seri funzionari e allegri fans, gente che si era fatta un culo così per anni e gente che s'era impegnata due ore prima delle elezioni, militanti severi e capitonisti riciclati, zoccolo duro e mocassino flessibile, onesti e quasi, agorofili e narcocatodici, gente che c'era quando le cose andavano male e gente che era arrivata quando le cose si erano messe bene, gente che avrebbe lottato fino all'ultimo e gente che se la sarebbe svignata alla prima crepa. Ma la speranza forse avrebbe reso tutti migliori, e poi squadra che vince non si cambia. - Ci attendono tempi duri - disse la foca - ma ci siamo conquistati il regalo di questa fiducia, e dobbiamo esserne degni! In quel momento dal camino piombò giù il pacco dono, sollevando una nuvola di cenere. Subito tutti si precipitarono alla porta per vedere chi fosse il mandante, ma non videro nulla, solo strane orme di zoccoli.
FINALINO
Non so se quei signori saranno contenti del pacco - disse Wynona a Babbo Ulf, mentre sotto di loro apparivano maestose le Alpi. - L'onore dei Babbinatali è salvo - disse Ulf - E poi, come ha detto il signore baffuto, i regali bisogna meritarseli! E ridendo soddisfatto, spronò le renne e valicò il Cervino, tuffandosi nel tramonto con una spettacolare virata.
LA PICCOLA FIAMMIFERAIA
Hans Christian Andersen
Era l'ultimo giorno dell'anno: faceva molto freddo e cominciava a nevicare. Una povera bambina camminava per la strada con la testa e i piedi nudi. Quando era uscita di casa, aveva ai piedi le pantofole che, però, non aveva potuto tenere per molto tempo, essendo troppo grandi per lei e già troppo usate dalla madre negli anni precedenti. Le pantofole erano così sformate che la bambina le aveva perse attraversando di corsa una strada: una era caduta in un canaletto di scolo dell'acqua, l'altra era stata portata via da un monello. La bambina camminava con i piedi lividi dal freddo. Teneva nel suo vecchio grembiule un gran numero di fiammiferi che non era riuscita a vendere a nessuno perché le strade erano deserte. Per la piccola venditrice era stata una brutta giornata e le sue tasche erano vuote. La bambina aveva molta fame e molto freddo. Sui suoi lunghi capelli biondi cadevano i fiocchi di neve mentre tutte le finestre erano illuminate e i profumi degli arrosti si diffondevano nella strada; era l'ultimo giorno dell'anno e lei non pensava ad altro! Si sedette in un angolo, fra due case. Il freddo l'assaliva sempre più. Non osava ritornarsene a casa senza un soldo, perché il padre l'avrebbe picchiata. Per riscaldarsi le dita congelate, prese un fiammifero dalla scatola e crac! Lo strofinò contro il muro. Si accese una fiamma calda e brillante. Si accese una luce bizzarra, alla bambina sembrò di vedere una stufa di rame luccicante nella quale bruciavano alcuni ceppi. Avvicinò i suoi piedini al fuoco... ma la fiamma si spense e la stufa scomparve. La bambina accese un secondo fiammifero: questa volta la luce fu così intensa che poté immaginare nella casa vicina una tavola ricoperta da una bianca tovaglia sulla quale erano sistemati piatti deliziosi, decorati graziosamente. Un'oca arrosto le strizzò l'occhio e subito si diresse verso di lei. La bambina le tese le mani... ma la visione scomparve quando si spense il fiammifero. Giunse così la notte. "Ancora uno!" disse la bambina. Crac! Appena acceso, s'immaginò di essere vicina ad un albero di Natale. Era ancora più bello di quello che aveva visto l'anno prima nella vetrina di un negozio. Mille candeline brillavano sui suoi rami, illuminando giocattoli meravigliosi. Volle afferrarli... il fiammifero si spense... le fiammelle sembrarono salire in cielo... ma in realtà erano le stelle. Una di loro cadde, tracciando una lunga scia nella notte. La bambina pensò allora alla nonna, che amava tanto, ma che era morta. La vecchia nonna le aveva detto spesso: Quando cade una stella, c' è un'anima che sale in cielo". La bambina prese un'altro fiammifero e lo strofinò sul muro: nella luce le sembrò di vedere la nonna con un lungo grembiule sulla gonna e uno scialle frangiato sulle spalle. Le sorrise con dolcezza. - Nonna! - gridò la bambina tendendole le braccia, - portami con te! So che quando il fiammifero si spegnerà anche tu sparirai come la stufa di rame, l'oca arrostita e il bell'albero di Natale. La bambina allora accese rapidamente i fiammiferi di un'altra scatoletta, uno dopo l'altro, perché voleva continuare a vedere la nonna. I fiammiferi diffusero una luce più intensa di quella del giorno: "Vieni!" disse la nonna, prendendo la bambina fra le braccia e volarono via insieme nel gran bagliore. Erano così leggere che arrivarono velocemente in Paradiso; là dove non fa freddo e non si soffre la fame! Al mattino del primo giorno dell'anno nuovo, i primi passanti scoprirono il corpicino senza vita della bambina. Pensarono che la piccola avesse voluto riscaldarsi con la debole fiamma dei fiammiferi le cui scatole erano per terra. Non potevano sapere che la nonna era venuta a cercarla per portarla in cielo con lei. Nessuno di loro era degno di conoscere un simile segreto!
Ce n'é troppo di Natale
Dino Buzzati
Nel paradiso degli animali
-Ti ricordi - chiese, nel paradiso degli animali, l'anima del somarello all'anima del bue - per caso ti ricordi quella notte, tanti anni fa, quando ci siamo trovati in una specie di capanna, e là, proprio nella mangiatoia? -Lasciami pensare... Ma sì, - confermò il bue - nella mangiatoia c'era un bambino appena nato. Come lo potrei dimenticare? Era un bambino così bello. -Da allora, se non sbaglio - fece l'asino - sai, da allora, quanti anni sono passati? -Figurati, con la memoria da bue che ho! -Quasi duemila. -Caspita! -E, a proposito, lo sai chi era quel bambino? -Come faccio a saperlo? Era gente di passaggio. Chi era? L'asinello sussurrò qualche cosa in un orecchio al bue. -Ma no! - fece costui sbalordito - Sul serio? -La pura verità. Lo giuro! Pensa che da allora, gli uomini, ogni anno, fanno gran festa per l'anniversario della nascita. E per loro non ci sono giornate più belle. Tu li vedessi. È il tempo della serenità, della dolcezza, del riposo dell'animo, della pace, delle gioie familiari, del volersi bene. Perfino gli assassini diventano buoni come agnelli. Lo chiamano Natale. Anzi, amico, mi viene un'idea. Già che siamo in argomento, vuoi che ti conduca a vederli? -Chi? -Gli uomini che festeggiano il Natale. -Dove? -Giù, sulla Terra, no?
Sulla Terra
Partirono. Lievi, lievi, planarono dal cielo sulla Terra, puntando verso una miriade di lumi: era una grandissima città. Ed eccoli, il somarello e il bue, invisibili, aggirarsi per le vie del centro. Trattandosi di spiriti, le automobili, gli autobus e i tram gli passavano attraverso senza danno, e alla loro volta, le due bestie passavano disinvoltamente attraverso i muri. Così potevano vedere tutto a loro agio. Era uno spettacolo impressionante, i mille lumi delle vetrine, i festoni, le ghirlande, gli abeti e lo sterminato ingorgo di automobili che tentavano affannosamente di andare avanti e il formicolio vertiginoso della gente che andava e veniva, entrava ed usciva, si accalcava nei negozi, si caricava di pacchi e pacchétti, tutti con un'espressione ansiosa e frenetica, come se fossero inseguiti. A quella vista il somarello sembrava divertito. Il bue, invece, si guardava intorno con spavento. -Senti, amico asinello, tu mi hai detto che mi portavi a vedere il Natale. Guarda che ti devi essere sbagliato. Te lo dico io: qui stanno facendo la guerra. -Ma non vedi come sono tutti contenti? -Contenti? A me sembrano dei pazzi. -Perché tu non sei pratico degli uomini moderni, tutto qui. Per divertirsi, per trovare la gioia, per sentirsi felici, hanno bisogno di rovinarsi i nervi. Il bue, valendosi della sua natura di puro spirito, fece una svolazzatina e si fermò a curiosare a una finestra del settimo piano. E l'asinello, dietro.
Auguri e regali
Videro una stanza ammobiliata riccamente e nella stanza, seduta a un tavolo, una signora preoccupata. Alla sua sinistra, sul tavolo, c'era un cumulo, alto circa mezzo metro, di carte e cartoncini d'ogni colore, alla sua destra una pila di cartoncini bianchi. E la signora, sveltissima, prendeva uno dei cartoncini colorati, lo esaminava un istante, poi consultava dei grossi volumi, subito scriveva qualcosa su uno dei cartoncini bianchi, lo infilava in una busta, scriveva qualcosa sulla busta, chiudeva la busta, quindi prendeva dal mucchio di sinistra un altro cartoncino colorato e rifaceva la manovra. Le sue mani andavano così veloci che era quasi impossibile vederle. -Ma cosa sta facendo? - chiese il bue, - perché si sta massacrando così? -Non si massacra. Sta solo rispondendo ai biglietti d'auguri. -Auguri? E a che cosa servono? -Niente. Assolutamente zero. Ma, chissà come, gli uomini adesso ne hanno una mania. Si affacciarono, più in là, a un'altra finestra. E anche qui c'era gente che scriveva biglietti, la fronte bagnata di sudore. Dovunque le due bestie guardassero, ecco uomini e donne che facevano pacchi, e preparavano buste, e correvano al telefono, e si spostavano da una stanza all'altra portando spaghi, nastri, carte. Dovunque arrivassero, era il medesimo spettacolo. Andare e venire, comprare e impacchettare, spedire e ricevere, imballare e sballare, chiamare e rispondere. E tutti guardavano continuamente l'orologio, tutti correvano, tutti ansimavano col terrore di non fare in tempo.
Una grande nostalgia
Per le strade, nei negozi, negli uffici, nelle fabbriche, uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi l'un l'altro, come automi, delle monotone formule. "Buon Natale, auguri, auguri, felici feste, grazie, auguri, auguri, auguri". Era un brusio che riempiva la città. -Ma ci credono? - chiese il bue. - Lo dicono sul serio? Vogliono veramente così bene al prossimo? L'asinello tacque. -Mi avevi detto - osservò il bue - che era la festa della serenità, della pace, del riposo dell'animo. -Già - rispose l'asinello - Una volta era così. Ma, cosa vuoi, da qualche anno all'avvicinarsi del Natale, gli uomini vengono presi da grande agitazione e non capiscono più niente. Ascoltali del resto. Il bue ascoltò stupito: "Buon Natale, auguri lei, grazie altrettanto, felici feste, grazie, auguri, auguri". Era un brusio che riempiva la città. -E se ci ritirassimo un po' in disparte? - suggerì il bovino. - Ho ormai la testa che è un pallone. Comincio a sentire la nostalgia di quella che tu chiami atmosfera natalizia.. -Be', in fondo anch'io - disse il somarello. Sgusciarono in mezzo alle automobili, si allontanarono un poco dal centro, dalle luci, dal frastuono, dalla frenesia.
Quella notte a Betlemme
-Dimmi, tu che sei pratico - chiese il bue, ancora poco persuaso - ma sei proprio sicuro che non siano tutti pazzi? - No, no, è semplicemente il Natale. - Ce n'è troppo di Natale, allora. Ma ti ricordi quella notte, a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino? Era freddo, anche lì, eppure c'era una pace, una soddisfazione. Come era diverso! - E' vero. E quelle zampogne lontane, che si sentivano appena appena. - E sul tetto come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano. Uccelli! Testone che non sei altro. Erano angeli! - E quei tre ricchi signori che portavano regali, li ricordi? Come erano educati, come parlavano piano, che persone distinte. Te li immagini, se capitassero in mezzo a questa baraonda? - E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora. Le stelle di solito hanno vita. -Ho idea di no - disse il bue, scettico. - C'è poca aria di stelle, qui. Alzarono i musi a guardare, e infatti non si vedeva niente. Sulla città c'era un soffitto di caligine.
LA BOTTEGA DELLA BEFANA
Gianni Rodari
Era la mattina dell'Epifania. Per tutta la notte la Befana e Teresa, la sua aiutante, erano state in giro per i tetti e per i camini a portare i doni ai clienti. I loro vestiti erano ancora coperti di neve e di ghiaccioli. "Accendi la stufa" disse la Befana "così ci asciugheremo. E riponi la scopa: per un annetto buono non ci servirà più". Teresa rimise la scopa nel solito angolo, borbottando: "Sarà bello volare con la scopa. Ma adesso che c'è fior di aeroplani e di razzi non ne vedo proprio l'utilità. Intanto il raffreddore me lo sono preso e me lo tengo". "Preparami una buona camomilla" ordinò la Befana, inforcando gli occhiali sedendosi nella vecchia poltrona di pelle nera davanti alla scrivania. "Dunque, vediamo un po'. Affari magrucci, quest'anno, e soldi pochini. I doni, si sa, tutti li vogliono belli, ma quando si tratta di pagare, allora è un altro discorso. Promettono, e fanno segnare sui libretto come se la Befana fosse un pizzicagnolo, e poi chi s'è visto, s'e visto... Comunque, i giocattoli che avevo in negozio li ho dati via tutti, e oggi bisognerà portarne su degli altri dal magazzino". Forse sarà bene spiegare che la bottega della Befana restava sempre aperta tutto l'anno, e le sue vetrine erano sempre illuminate, così i bambini avevano tutto il tempo di innamorarsi di questo o di quel giocattolo, e i genitori avevano il tempo di fare i loro calcoli per poterlo ordinare. Inoltre, e per fortuna, tutti i giorni ci sono compleanni, e si sa che i bambini considerano il loro compleanno un'occasione molto indicata per ricevere regali. Or a sappiamo che cosa fa la Befana da un sei gennaio all'altro: se ne sta nel suo negozietto e aspetta. Se ne sta dietro alle vetrine a spiare la gente, e soprattutto le facce dei bambini. Lei capisce subito se un giocattolo nuovo ha successo, e se non piace lo toglie dalla vetrina e lo rimpiazza con un altro. Per i giocattoli di moda ha un fiuto speciale: da qualche anno la sua vetrina va assomigliando a una stazione spaziale. Ma vi sono giocattoli che non tramontano: la Befana sa, per esempio, che quando le bambine andranno sulla Luna non mancheranno di portarsi lassù la loro vecchia bambola.
LA STORIA DELL'ABETE
Hans Christian Andersen
L'abete nella foresta
Nella grande foresta viveva un tempo, insieme a tanti altri compagni, un giovane abete. Durante l'inverno la neve lo ricopriva avvolgendolo amorosamente col suo candido mantello; nell'estate i raggi caldi e vivificanti del sole lo accarezzavano, mentre gli uccelli, che facevano il nido tra le sue fronde, cantavano per lui canzoni tristi e allegre di terre lontane. Malgrado tutto questo il giovane abete non era felice: gli uccelli gli parlavano dei loro viaggi, descrivendogli con poetica fantasia le meraviglie degli altri paesi; e il povero abete li ascoltava con vivo interesse e anche con un po' d'invidia. Quando poi quelli se ne andavano verso luoghi più caldi, egli s'intristiva e ripensava ai loro racconti, maledicendo la sua sorte che lo condannava a star radicato in quella foresta per l'eternità.
L'abete in città
Ma un giorno la foresta, sempre tanto silenziosa, risuonò di voci umane e di colpi sordi, e molte piante caddero sotto l'ascia dei boscaiuoli. Anche il nostro abete fu abbattuto e fu condotto in una grande città: egli non stava più in sé dalla contentezza e sognava chi sa quali avventure. 'Fu messo in un grosso vaso e disposto al centro di un grande salone. Alcuni uomini gli misero addosso piccoli oggetti luccicanti, candeline multicolori, giocattoli e dolci d'ogni specie e poi dicevano ammirati: - Che albero stupendo! E l'abete pieno d'orgoglio ergeva la sua chioma ingioiellata e si sentiva fremere di gioia. Scese la sera: il salone si illuminò splendidamente: le porte furono spalancate e una frotta di bambini chiassosi e saltellanti irruppero nella stanza e, dopo aver ammirato l'albero, lo saccheggiarono in meno di un minuto. Poi i bimbi se ne andarono, le candeline e gli oggetti luccicanti furono tolti dai rami che cominciavano a diventare secchi, le luci furono spente, e l'abete rimase La mattina seguente alcuni uomini vennero a prenderlo e lo portarono in un solaio dove lo lasciarono insieme con gli oggetti più disparati e inutili.
L'abete in soffitta
Con quanto nostalgico rimpianto l'abete ripensò ai bei giorni trascorsi nella grande foresta, alla volta azzurra che immensa gli serviva da tetto, alle carezze del sole, ai canti degli uccelli, all'orgogliosa gioia di sfidare il vento del nord che non riusciva a piegare la sua superba chioma. Oh, perché soltanto ora capiva l'importanza di tutti questi beni? Trascorse così in quell'abbandono e in quel silenzio parecchi mesi, interrotto, di quando in quando, soltanto dallo scricchiolio del legno e dal rosicchiare dei topi. Finalmente un giorno la porta della soffitta si aprì; entrarono delle persone che, afferrato l'abete ormai diventato secco, lo tagliarono a pezzi poi lo portarono al piano inferiore dove lo buttarono senza preavviso nel camino acceso. Allora fiamme livide si alzarono da ogni parte e avvolsero l'albero chiudendolo in un cerchio di fuoco. Egli tentò di protestare con deboli crepitii: invano. Le lingue di fuoco lo afferrarono nelle loro spire lo arsero fino al midollo; e ben presto dell'orgoglioso abitante della grande foresta non rimase più che un mucchio di cenere calda.