La principessa Splendore (fiaba olandese)
La fama della sua bellezza aveva superato i confini del regno, e non passava giorno che da qualche parte del mondo non arrivasse qualche pretendente alla sua mano. Ma, dopo pochi giorni di permanenza in quella Corte cosi fragorosa e abbagliante, se ne fuggivano via storditi e spaventati. Un giorno però arrivò alla Corte il principe Discreto. Veniva dalla terra d’Olanda, dove il cielo, le acque, le campagne, il mare, tutto ha colori delicati e tenuissimi; dove tutti i suoni sono fievoli, ovattati, soffocati; e il sole stesso brilla con moderazione. Questo principe (i suoi occhi erano azzurri come il fiore del lino e la sua voce scendeva soave al cuore) senti subito un vivo affetto per la bella Splendore: fu si anche lui stordito dalle troppe luci e dai troppi suoni, anzi forse ne soffri più degli altri, venendo da un ambiente tanto diverso; ma, anziché fuggire spaventato, si senti avvinto maggiormente alla principessa da un sentimento di gentile pietà: oh, che cosa avrebbe dato per insegnare la grazia del sorriso a quella povera creatura esasperata, che sapeva solo piangere o ridere, che non conosceva la gioia dei toni blandamente degradanti, dei tocchi leggieri, dei passaggi sottili, dei rumori attutiti, delle modulazioni vellutate!
Il primo giorno che aveva visto
Splendore, le aveva regalato un fiore, niente altro che un fiore. Era un
gesto gentile e
pudico,
di cui la principessa purtroppo non poteva capire tutto il valore. — E’ un fiore del mio paese — aveva sussurrato. Era un grappolo di piccoli fiori simili a campanelli, di color ambra verdognola; e dai sottili filamenti che uscivano fuori dallo stelo si capiva che doveva trattarsi di una pianta rampicante. Splendore aveva riso rumorosamente prendendo quel fiore, e aveva condotto l’ospite a visitare i suoi giardini, tutti pieni di colori sgargianti, di fragranze intense, snervanti. Uccelli con piume variopinte svolazzavano tra i rami degli alberi, nel fulgore squillante di un sole sfacciato. Tanto poco la fanciulla apprezzava il languido fiore olandese, che a un certo punto le cadde di mano, ed ella neppure se ne accorse. Passarono i giorni, le settimane. Un bel mattino, il principe (sempre più fisso nella sua idea d’insegnare a Splendore il sorriso) aggirandosi solo soletto pel giardino, si accorse con commozione che il ramoscello della pianta rampicante che aveva regalato alla principessina, e che questa aveva lasciato cadere al suolo, si era abbarbicato tenacemente al terriccio della aiuola nella quale era caduto, e adesso aveva preso a germogliare. Discreto ne fu intenerito, e da quel giorno curò con particolare amore la pianticella che si ostinava a crescere anche in terra d’esilio: le diede a sostegno un arbusto di cedro, e dopo qualche tempo, piccoli grappoli di fiori con le corolle di color ambrato dondolarono dolcemente ai soffi degli zeffiri. E una sera, verso il crepuscolo, Discreto volle condurre Splendore nel luogo dove prosperava la pianta delicata.
Mentre i due giovani erano lì,
muti, a contemplare quei fiori, ecco che a un tratto giunse al loro
orecchio un canto flebile, ma soavissimo. Erano trilli tenui, delicati,
vellutati, pieni più di dolcezza che di forza. Guardarono, e videro,
sulla cima dell’alberello che serviva di sostegno alla pianta, un
uccellino dalle penne grigie che
La principessa Splendore sorrideva per la prima volta in vita sua. Discreto era luminoso di gioia.
— Questa pianta e questo
uccellino sono entrambi del mio paese — disse il principe. — La pianta
si chiama comunemente «la gioia del pellegrino », perché cresce vicino
alle fresche sorgenti e par invitare i viandanti a una sosta: è la
pianta del luppolo. E l’uccellino è l’usignuolo, certo venuto sin
quaggiù dalla lontana Olanda, richiamato dal profumo tenuissimo di
questa pianta. — Altezza, — sussurrò Splendore, che per la prima volta in vita sua parlava con voce sommessa — come vorrei sentir questo canto per tutta la notte! Discreto prese allora una mano della bella fanciulla e le disse: — Se voi, Splendore, consentite a esser mia sposa e principessa ereditaria del Paese delle Acque, udrete cantar tutte le notti l’usignuolo e vedrete distese interminabili di questi fiori del luppolo. Volete? La principessa non rispose. Lo guardò con occhi velati da lagrime di tenerezza, e capiva che quel silenzio diceva più di quel che avrebbero detto mille parole. I due giovani quella sera tornarono fidanzati alla reggia. E qualche tempo dopo ebbero luogo le nozze.
*** Le figlie delle Nevi (fiaba svizzera)
Che cosa non era stato tentato per liberare la valle dal mostro? I giovani piu' ardimentosi erano partiti, armati di tutto punto, per uccidere il drago dentro la sua tana: i disgraziati non avevano più fatto ritorno. Santi eremiti avevano tentato gli esorcismi e le preghiere. Ma tutto era stato vano fin allora.
Un giorno, giunse nella valle un
menestrello straniero, che, accompagnandosi all'arpa, cantava melodiose
canzoni. Si chiamava Singo e fu ospitato nella piú ricca fattoria del
villaggio, abitata dal pastore Bacalp. Singo conquistò coi suoi canti il
cuore di quei rudi alpigiani, che nelle dolci melodie ritrovavano la
pacata bellezza delle loro montagne. Passò l'inverno, giunse la primavera con la notte terribile del volo: e il menestrello divise coi suoi ospiti le ansie di quelle tragiche ore. Egli si era affezionato in modo particolare alle due piccole figlioline gemelle del pastore, Singeli e Sceneli. Si baloccava con esse, le accompagnava nelle loro corse sui monti, le cullava la sera coi suoi canti; e ben presto, alla scuola del loro affettuoso maestro, anche le due bimbette divennero cantatrici abilissime. Passarono gli anni, e le due bimbe divennero due stupende giovinette, assai diverse dalle altre ragazze della valle. Singo le aveva trasformate. I loro modi erano gentili, le loro menti aperte e raffinate, il loro cuore generosissimo. E queste doti facevano risaltare anche di piú la loro delicata bellezza. I valligiani le chiamavano « le Figlie delle Nevi », tanto era bianco il colorito della loro pelle. Singo aveva insegnato loro anche l'arte di guarire i mali con le erbe alpine, e perciò tutti in paese e nei paesi vicini ricorrevano a loro quando erano malati, e benedicevano le brave fanciulle e il loro maestro quando poi guarivano. Ma, un brutto giorno, Singo chiamò in disparte il pastore e gli disse
- Amico mio, tu mi hai ospitato
per tanti anni nella tua casa e puoi immaginare se te ne sono grato. Ho
cercato di ricompensarti come potevo, educando al bene le tue belle
figliuole. Spero che sarai contento di me. Da quel giorno il povero pastore visse in grande angoscia. Ripensava alle parole di Singo, e una tremenda lotta si dibatteva nel suo cuore tra l'amore per le figlie e l'amore per i suoi simili e per la sua terra. Quando si avvicinò la notte di Scrik, chiamò le due ragazze e ripeté loro le ultime parole del menestrello. - Fate voi quel che volete : io vi lascio libere nella scelta. - E perché - risposero le fanciulle - non dovremmo compiere il nostro destino? Lasciateci andare a liberar la valle dal mostro. Se questo ci sarà concesso, che valore può avere la nostra vita? Ben presto la notizia si sparse per tutta la valle, mentre i segni premonitori del flagello facevano prevedere vicina la terribile notte. Tutti i pastori vollero accompagnare le due fanciulle votate al sacrificio che, abbigliate di veli bianchi come se andassero nozze, salirono verso la caverna del mostro Giunte al luogo designato per l'incontro fatale col drago, i pastori, muti e commossi, salutarono le Figlie delle Nevi. Verso la mezzanotte, scoppiò un violento temporale. Tra i tuoni e i lampi, si senti distintamente il batter d'ali del drago e il sibilo lungo che usciva dalla sua bocca di fuoco. Poi un urlo nuovo e terribile si diffuse per l'aria e tra tanto fragore, giungevano a tratti i dolci tocchi di un'arpa e un canto appassionato soavissimo. Erano certo le due angeliche fanciulle che cantavano con la loro arte piú pura.
I valligiani attesero l'alba
pregando. E appena apparì il primo chiarore, uscirono ansiosi dalle loro
case, salirono sul luogo dove il giorno innanzi avevano lasciato le due
fanciulle. Di esse non c'era piú nessuna traccia. Ma un pastore accennò
col dito la cima del monte dove era la grotta del drago. Tutti
guardarono, e un grido di stupore usci dalle loro bocche. Sulla cima
nera della montagna apparivano adesso due macchie candide che prima non
c'erano, che non c'erano mai state. - Le due gemelle! - gridarono. E il gran foro che segnava l'ingresso della grotta era scomparso. Il drago da allora non apparve piú e la valle fu liberata per sempre dal terrore. E nelle calde notti primaverili, in cui soffia il Fhon, penetra nel fondo delle anime umane un desiderio infinito di bontà: è l'eco del canto delle due sorelle che si fonde col mormorio del vento.
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