4. COLUI CHE HA RAGGIUNTO
IL DOMINIO
- Eh! Che vi dicevo? L'avevo
indovinata quando dicevo che Buck vale due diavoli.
Così parlò François la
mattina dopo quando si accorse che Spitz mancava e Buck era coperto di ferite.
Lo portò vicino al fuoco e a quella luce mostrò le sue piaghe.
- Quello Spitz combatte come
un demonio, - disse Perrault osservando le ferite aperte.
- E Buck come due demoni, -
rispose François. - Ed ora andremo tranquilli. Non più Spitz non più confusioni,
questo è certo.
Mentre Perrault levava il
campo e caricava la slitta, il conducente attaccava i cani. Buck trotterellò al
posto che Spitz avrebbe occupato come guida; ma François senza badare a lui,
portò Sol-leks in quell'ambita posizione. A suo parere Sol-leks era la miglior
guida che gli restava. Buck si scagliò furioso contro Sol- leks respingendolo e
prendendo il suo posto.
- Eh, eh? - gridò François
battendosi allegramente la coscia.
Guardate Buck! Ha ammazzato
Spitz e adesso vorrebbe mettersi al suo posto.
- Via di qua, piccioncino, -
gridò. Ma Buck non si mosse.
Allora afferrò Buck per la
pelle del collo, e sebbene il cane mugolasse minacciosamente, lo mise da parte
per far posto a Sol- leks. Il vecchio cane non ne era affatto contento e mostrò
chiaramente di aver paura di Buck; François era ostinato, ma appena ebbe voltato
le spalle, Buck scacciò nuovamente Sol-lecks, che se ne andò molto volentieri.
Questo fece infuriare
François. - Adesso ci penso io, perbacco!- gridò avvicinandosi a lui con un
randello in mano.
Buck si ricordò dell'uomo
dalla maglia rossa e indietreggiò lentamente; non tentò più di aggredire
Sol-leks quando questi fu riportato ancora una volta al posto di guida, ma si
mise a girare ringhiando di rabbia e di dolore fuori del raggio di azione del
randello. Frattanto teneva d'occhio il bastone per scansarlo se mai François
glielo avesse scagliato; perché in fatto di bastoni era diventato prudente.
Il conducente terminò il suo
lavoro e quando fu pronto chiamò Buck per metterlo al suo antico posto davanti a
Dave. Buck indietreggiò di due o tre passi. François si fece avanti verso di
lui, ed egli indietreggiò ancora. Dopo che la cosa si fu ripetuta qualche volta,
François gettò a terra il bastone pensando che Buck ne avesse paura ma Buck era
in aperta rivolta. Voleva non già evitare il bastone, ma avere il posto di
comando. Gli apparteneva per diritto; se l'era guadagnato e non si sarebbe
accontentato di qualche cosa di meno.
Perrault venne a dare una
mano. Insieme lo rincorsero per quasi un'ora. Gli lanciarono dei bastoni, ma lui
li schivò. Maledissero lui, i suoi padri, le sue madri e tutta la sua razza a
venire fino alla più remota generazione, nonché ogni pelo del suo corpo e ogni
goccia di sangue delle sue vene; ed egli rispose a quelle maledizioni con
ringhiate, sempre tenendosi fuori della loro portata. Non cercò di scappare ma
indietreggiava sempre più intorno all'accampamento, facendo capire chiaramente
che se fosse stato esaudito il suo desiderio sarebbe tornato al lavoro e sarebbe
stato buono.
François si mise a sedere
grattandosi la testa. Perrault guardava l'orologio e bestemmiava. Il tempo
passava e loro dovevano essere in cammino da un'ora. François si grattò ancora
la testa. Poi si scosse e sorrise stupidamente al corriere, che scrollò le
spalle come per dire che dovevano considerarsi vinti. Allora François si
avvicinò a Sol-leks e chiamò Buck. Buck rise al modo dei cani, ma si tenne
lontano. François sciolse Sol-leks e lo rimise al suo antico posto. La muta era
già attaccata alla slitta in una fila continua pronta a partire; per Buck non vi
era altro posto libero che quello di guida. François lo chiamò ancora una volta
e ancora una volta Buck rise e restò ancora lontano. - Getta giù il bastone, -
disse Perrault.
François obbedì e allora
Buck arrivò trotterellando con un riso di trionfo, e si mise al suo posto di
guida. Le sue cinghie furono allacciate, la slitta si mosse, e si spinsero lungo
la pista del fiume mentre i due uomini correvano dietro di loro.
Per quanto il conducente
avesse valutato molto Buck con i suoi due diavoli, dovette accorgersi, prima che
il giorno finisse, che valeva di più. Di colpo Buck prese su di sé tutti i
doveri del suo dominio, e dove si richiedeva giudizio, rapida concezione e
rapida azione, si mostrò superiore perfino a Spitz, di cui François non aveva
mai visto l'eguale.
Soprattutto eccelleva nello
stabilire la legge e nel costringere i suoi compagni a rispettarla. Dave e
Sol-leks non fecero caso al cambiamento di guida. Non era affar loro. Il loro
lavoro consisteva nel tirare, e nel tirare validamente lungo la pista.
Finché non erano colpiti
direttamente, non badavano a quello che avveniva. Per quel che li riguardava
anche quel bonaccione di Billee poteva fare da guida, purché sapesse mantenere
l'ordine. Il resto della muta, però, durante gli ultimi giorni di Spitz era
divenuto molto indisciplinato, e grande fu la sua sorpresa ora che Buck si diede
a riportarlo nell'ordine.
Pike, che tirava dietro Buck
e che non metteva mai contro il pettorale un'oncia più del proprio peso, fu
subito e ripetutamente punito per la sua pigrizia; e prima che quel primo giorno
terminasse egli tirava più che non avesse mai fatto in tutta la sua vita. La
prima notte nell'accampamento, l'immusonito Joe fu punito severamente, cosa che
Spitz non era mai riuscito a fare.
Buck lo abbatté in grazia
del proprio maggior peso e lo morsicò finché smise di ringhiare e cominciò a
mugolare chiedendo pietà.
Il tono generale del tiro si
rialzò immediatamente. Ritornò la solidarietà di un tempo, e di nuovo i cani
corsero come un sol cane lungo la pista. Alle Rapide della Pista furono aggiunti
al tiro altri due eschimesi, Teek e Koona; e la celerità con cui Buck li
addestrò tolse il fiato a François.
- Non è mai esistito un cane
come Buck! - esclamò.- Proprio mai!
Vale un migliaio di dollari,
perbacco, eh? che ne dite Perrault?
Perrault accennò di sì. Era
già avanti col suo record e si avvantaggiava ogni giorno. La pista era in ottime
condizioni, dura e ben battuta, e non vi era neve fresca con cui lottare. Non
faceva troppo freddo. La temperatura scese a trentotto sotto zero e rimase
stazionaria per tutto il viaggio. Gli uomini correvano o si facevano trascinare
a turno e i cani erano tenuti al galoppo con rare fermate.
Il Fiume delle Trenta Miglia
era abbastanza coperto di ghiaccio, e in un sol giorno percorsero il cammino
compiuto in dieci giorni nel viaggio di andata. In una sola tappa percorsero le
sessanta miglia dallo sbocco del lago Le Barge alle rapide del Cavallo Bianco.
Attraverso Marsh, Tagish e Bennet (settanta miglia di laghi) volarono così in
fretta che l'uomo a cui toccava correre a turno si faceva trascinare dietro la
slitta aggrappandosi all'estremità di una fune.
Nell'ultima notte della
seconda settimana raggiunsero il Passo Bianco e scesero lungo la ripida costa
marina avendo ai loro piedi le luci di Skaguay e delle navi.
Fu una corsa da record. Per
due settimane avevano percorso in media quaranta miglia al giorno. Perrault e
François si pavoneggiarono per tre giorni in sù e in giù per la via principale
di Skaguay, tempestati da un diluvio di inviti a bere, mentre la muta era
continuamente al centro di una folla rispettosa di conducenti e di mediatori.
Poi tre o quattro furfanti dell'Ovest tentarono di mettere a sacco la città e
furono sforacchiati come peparole per la pena che si erano data, e l'interesse
del pubblico si volse ai nuovi idoli. Infine vennero ordini governativi.
François chiamò a sé Buck,
gli gettò le braccia al collo e pianse su di lui. E questo fu l'ultimo contatto
con François e Perrault:
al pari di altri uomini,
essi scomparvero per sempre dalla sua vita.
Uno scozzese di mezzo sangue
prese in consegna Buck e i suoi compagni, e insieme con una dozzina di altri
tiri si rimise sulla dura pista per Dawson. Adesso non era più la leggera corsa
da record, ma la pesante fatica di ogni giorno, con un greve carico da
trascinare, perché questa era la slitta postale che portava le notizie del mondo
agli uomini che cercavano oro sotto l'ombra del polo.
Buck non amava quel lavoro,
ma lo eseguiva coscienziosamente, riponendo in esso il proprio orgoglio come
facevano Dave e Sol- leks, e badando che i suoi compagni, animati o no da quello
stesso orgoglio, facessero bene la loro parte. Era una vita monotona che si
svolgeva con regolarità meccanica. Ogni giorno era eguale al precedente. Ogni
mattina, a una certa ora, arrivavano i cucinieri, si accendevano i fuochi e si
faceva colazione. Poi, mentre alcuni levavano il campo, altri attaccavano i
cani; ed erano già in viaggio circa un'ora prima che si diradassero le tenebre
dinanzi alle primi luci del giorno. Al calare della notte si piantava il campo.
Alcuni rizzavano le tende, altri tagliavano legna da ardere e rami di pino per
farne giacigli, altri ancora portavano acqua o ghiaccio per i cucinieri. Anche i
cani erano nutriti, ed era questo, per loro, l'unico avvenimento della giornata,
sebbene fosse piacevole, dopo aver mangiato il pesce, andare attorno
bighellonando per un'oretta insieme agli altri cani, un centinaio o più. Fra di
loro vi erano dei forti lottatori, ma tre battaglie con i più fieri diedero a
Buck il primato, cosicché quando arruffava il pelo e mostrava i denti, gli altri
si facevano da parte.
Più di tutto, forse, gli
piaceva stare accanto al fuoco accovacciato sulle zampe posteriori e con quelle
anteriori stese avanti, la testa alta e lo sguardo assorto sulle fiamme. A volte
pensava alla grande casa del giudice Miller nella vallata di Santa Chiara
baciata dal sole, e alla grande vasca di cemento, e a Ysabel, la messicana senza
pelo, e a Toots, il cagnolino giapponese; ma più spesso ricordava l'uomo dalla
maglia rossa, la morte di Curly, la gran lotta con Spitz e le buone cose che
aveva mangiato o desiderava mangiare.
Non soffriva di nostalgia.
La Terra del Sole svaniva nella lontananza, e quei ricordi non avevano più
potere su di lui. Molto più potenti erano i ricordi ereditari che gli facevano
apparire familiari cose che non aveva mai viste. Gli istinti (che erano solo
reminiscenze dei suoi antenati, divenute abitudini) indeboliti negli ultimi
tempi, si risvegliavano in lui e divenivano nuovamente vivi.
A volte, quando se ne stava
così accovacciato con lo sguardo assorto nelle fiamme, gli sembrava che esse
appartenessero a un altro fuoco, e accanto a questo fuoco vedeva un uomo assai
diverso dal cuciniere mezzo-sangue che gli stava davanti. Era uomo corto di
gambe e dalle braccia lunghe, con muscoli fibrosi e nocchiuti piuttosto che
tondeggianti. I suoi capelli erano lunghi e arruffati, e la fronte sfuggiva
sotto di essi. Pronunciava strani suoni e sembrava temere le tenebre entro le
quali stava continuamente spiando, mentre la sua mano che pendeva fino a metà
gamba tra il ginocchio e il piede, stringeva un bastone alla cui estremità era
legata una pesante pietra. Era quasi completamente nudo; una pelle lacera e
bruciacchiata gli scendeva giù dalle reni, e il suo corpo era villoso: in alcuni
punti, anzi, sul petto e sulle spalle e sulla parte esteriore delle braccia e
delle cosce, coperto da una vera pelliccia. Non si teneva eretto, ma con il
tronco inclinato in avanti dai fianchi in sù; e le ginocchia erano un po'
piegate. Vi era nel suo corpo una particolare agilità, una elasticità quasi
felina e la vigile attenzione di un essere abituato a vivere nel continuo timore
di cose visibili e invisibili. Altre volte quell'uomo villoso si rannicchiava
accanto al fuoco con la testa fra le gambe e dormiva. Allora i suoi gomiti
poggiavano sulle ginocchia, e le mani si univano sul capo come per proteggerlo
dalla pioggia con le braccia pelose. E al di là di quel fuoco, nell'oscurità
tutt'attorno, Buck vedeva tanti carboni ardenti, riuniti a due a due, sempre a
due a due, e sapeva che erano gli occhi di grandi bestie da preda. E poteva
udire il rumore dei loro corpi fra i cespugli e le loro grida nella notte.
Sognando così sulle rive
dell'Yukon, con i pigri occhi assorti sul fuoco, quei suoni e quei sospiri di un
altro mondo gli facevano ergere il pelo sulla schiena, sulle spalle e sul collo,
finché dava un gemito basso e soffocato o un fioco mugolio, e il cuoco
mezzo-sangue gli gridava: - Ehi, Buck, svegliati! - Ed ecco che l'altro mondo
svaniva, e gli tornava negli occhi il mondo reale; allora si alzava, sbadigliava
e si stirava come se avesse dormito.
Era un viaggio duro, con la
slitta postale dietro di sé; e il rude lavoro logorava i cani. Quando arrivarono
a Dawson erano in cattive condizioni di salute e avrebbero avuto bisogno di
almeno dieci giorni di riposo. Ma dopo due giorni scesero ancora lungo le rive
del Yukon giù dalle Baracche, carichi di lettere per il mondo lontano. I cani
erano stanchi, i conducenti di cattivo umore, e per colmo di misura ogni giorno
nevicava. Questo significava strada molle, maggiore attrito dei pattini e
maggiore fatica per i cani; i conducenti tuttavia furono molto umani durante il
viaggio e fecero per gli animali il meglio che poterono.
Ogni notte per prima cosa si
occupavano dei cani, che mangiavano prima dei conducenti. Nessun uomo avrebbe
mai pensato a ficcarsi nel suo sacco di pelo prima di avere esaminato
attentamente le zampe dei suoi cani. Ma le loro forze venivano meno. Dall'inizio
dell'inverno avevano percorso milleottocento miglia trascinando slitte per tutta
questa distanza; e milleottocento miglia pesano anche sul cane più resistente.
Buck resisteva, incitando i compagni al lavoro e mantenendo la disciplina
sebbene fosse anche lui molto stanco. Billee piangeva e mugolava regolarmente
ogni notte, dormendo. Joe era più immusonito che mai e Sol-leks era
inavvicinabile sia dalla parte dell'occhio cieco sia dall'altra.
Ma più di tutti soffriva
Dave. Qualcosa in lui andava male.
Divenne cupo e irritabile.
Si scavava subito la sua buca non appena veniva piantato il campo, e il
conducente andava là a portargli il cibo. Appena liberato dal finimento e
buttatosi giù, non si alzava fino al mattino. A volte, lungo la pista, se era
scosso da una fermata improvvisa o dallo strappo di una partenza, guaiva di
dolore. Il conducente lo esaminò, ma non trovò nulla.
Tutti i conducenti
s'interessarono di lui: ne parlavano durante i pasti e fino alla loro ultima
pipata prima di andare a letto; e una notte tennero consulto. Fu tirato fuori
dalla sua tana, portato vicino al fuoco e premuto e palpato tanto che gridò più
volte. C'era dentro qualche cosa che non andava. Ma non trovarono nessun osso
rotto né altro male.
Prima che giungessero a
Cassiar Bar, era diventato così debole che più volte cadde sotto le tirelle. Lo
scozzese mezzo-sangue fece fermare e lo staccò dalla muta mettendo al suo posto
Sol-leks, che veniva dopo di lui. Voleva far riposare Dave lasciandolo correre
liberamente dietro la slitta. Ammalato com'era, Dave si addolorò di essere messo
fuori e mugolò di scontento mentre gli toglievano i finimenti, piagnucolando poi
disperato quando vide Sol-leks al posto che aveva occupato per tanto tempo.
Perché era in lui l'orgoglio del tiro e della pista e, malato a morte, non
poteva sopportare che un altro cane facesse il suo lavoro.
Quando la slitta si mosse,
egli corse sulla neve soffice a fianco del tiro, attaccando Sol-leks a morsi,
gettandoglisi addosso e cercando di rovesciarlo nella neve dall'altra parte e di
mettersi egli stesso nei tiranti tra lui e la slitta. Nel frattempo mugliava e
guaiva di dolore e di angoscia. Il mezzo-sangue cercò di allontanarlo a
frustate; ma egli non badava ai colpi di frusta e l'uomo non si sentiva il cuore
di colpire più forte. Dave si rifiutò di correre tranquillamente sulla pista
dietro la slitta dove la strada era più agevole, ma continuò a trascinarsi di
fianco ad essa sulla neve soffice, dove era più difficile correre, finché fu
esausto. Allora cadde e giacque là dov'era caduto, ululando lugubremente mentre
la lunga fila delle slitte gli passava accanto.
Con l'ultimo residuo delle
sue forze poté trascinarsi dietro di esse fino alla prima fermata, e allora
superò tutte le file delle slitte fino a raggiungere la propria, fermandosi
vicino a Sol- leks. Il conducente si fermò un momento per farsi accendere la
pipa dall'uomo che veniva dietro. Poi si volse e mise in moto i cani. Essi si
spinsero avanti senza dover esercitare alcuna fatica, poi volsero la testa
perplessi e si fermarono pieni di meraviglia. Anche il conducente era sorpreso:
la slitta non si era mossa. Chiamò i compagni a vedere quello che era successo.
Dave aveva tagliato coi denti tutti e due i tiranti di Solleks e stava proprio
davanti alla slitta al suo posto.
Supplicava con gli occhi che
lo lasciassero lì. Il conducente era perplesso. I suoi compagni raccontavano
come un cane possa morire di crepacuore se tolto da un lavoro che tuttavia lo
uccide, e ricordavano casi a loro noti, in cui i cani, troppo vecchi per
lavorare o feriti, erano morti per essere stati tolti dalle tirelle.
Consideravano dunque un atto di pietà, poiché Dave doveva morire ad ogni modo,
lasciarlo morire tra le tirelle, a cuor leggero e contento. Così fu nuovamente
attaccato ed egli tirò baldamente come un tempo, sebbene più di una volta
urlasse involontariamente per il dolore della sua ferita interna.
Parecchie volte cadde e fu
trascinato dalle tirelle e una volta la slitta gli andò addosso, cosi che in
seguito zoppicò da una delle gambe posteriori.
Tuttavia tenne duro finché
si giunse al campo; e il conducente gli fece una cuccia accanto al fuoco. Al
mattino era troppo debole per viaggiare. Al momento di attaccare cercò di
trascinarsi dietro il conducente. Con sforzi convulsi, riuscì a mettersi in
piedi, barcollò e cadde. Allora si trascinò lentamente, come un verme, verso il
luogo dove si stavano bardando i suoi compagni. Metteva avanti le zampe
anteriori e trascinava il corpo procedendo a balzi, poi spingeva ancora avanti
le zampe e faceva un nuovo balzo di pochi pollici. Infine le forze lo
abbandonarono, e i compagni lo videro anelante nella neve, sforzandosi tuttavia
di raggiungerli. Lo poterono sentire ululare di angoscia finché scomparvero
dietro una fila d'alberi sulla riva del fiume.
Qui il traino si fermò. Lo
scozzese mezzo sangue rifece lentamente i propri passi fino al campo che avevano
lasciato. Gli uomini cessarono di parlare. Risuonò un colpo di rivoltella.
L'uomo tornò indietro in fretta. Le fruste schioccarono lungo la pista; ma Buck
sapeva e tutti i cani sapevano ciò che era avvenuto dietro gli alberi del fiume.
5. LA FATICA DEL TIRO E
DELLA PISTA
Trenta giorni dopo aver
lasciato Dawson, la posta di Acqua Salata, con Buck e i suoi compagni in testa,
arrivò a Skaguay. Erano in condizioni pietose, esausti e abbattuti. Le
centoquaranta libbre di Buck erano ridotte a centoquindici. I suoi compagni,
sebbene meno pesanti, avevano perso relativamente di più. Pike, sempre pronto a
simulare malattie e che nella sua vita di imbrogli aveva spesso, e con successo,
fatto finta di aver una zampa malata, adesso zoppicava sul serio. Anche Sol-leks
zoppicava, e Dub soffriva per uno strappo a una spalla.
Tutti avevano acuti dolori
ai piedi. Erano incapaci di saltare e di correre, le loro zampe battevano
pesantemente sulla pista facendo traballare il corpo e raddoppiando la fatica
del viaggio giornaliero. Non si trattava altro che di stanchezza, ma di una
stanchezza mortale. Non quella che segue ad uno sforzo breve ed eccessivo dalla
quale ci si rimette in poche ore; ma la prostrazione che si accumula lentamente
durante uno sforzo prolungato per mesi. Non vi erano più possibilità di
ricupero, riserve di forze a cui fare appello. Tutto era stato consumato, fino
all'ultima briciola. Ogni muscolo, ogni fibra, ogni cellula erano stanchi,
mortalmente stanchi. E a ragione. In meno di cinque mesi avevano percorso
duemilacinquecento miglia, e durante le ultime milleottocento avevano avuto solo
cinque giorni di riposo.
Quando arrivarono a Skaguay
apparivano ridotti agli estremi.
Potevano appena tenere tese
le tirelle, e nelle discese badavano solo a non restare davanti alla slitta.
- Avanti, poveri piedi
malati, - li incoraggiava il conducente mentre andavano barcollando per la via
principale di Skaguay. - Siamo alla fine. Adesso avrete un lungo riposo. Eh ?
Certo, un riposo maledettamente lungo.
I conducenti attendevano
fiduciosi una lunga sosta. Anche loro avevano percorso milleduecento miglia con
due giorni di riposo, e secondo il buon senso e la giustizia comune meritavano
un periodo di ozio. Ma tanti erano gli uomini convenuti nel Klondike, e tante le
fidanzate, le mogli, le parentele rimaste nel mondo, che il mucchio della posta
assumeva le dimensioni di una montagna; inoltre vi erano dei dispacci ufficiali.
Nuove mute di cani della baia di Hudson dovevano prendere il posto di quelli
ormai inabili alla pista. Questi dovevano essere messi da parte e, poiché i cani
contano poco di fronte ai dollari, dovevano essere venduti.
Trascorsero tre giorni
durante i quali Buck e i suoi compagni capirono quanto fossero realmente stanchi
e indeboliti. Poi, la mattina del quarto, vennero due uomini degli Stati Uniti e
li comprarono con i finimenti e tutto, per poco o nulla. Gli uomini si
chiamavano tra loro Hal e Charles. Charles era di mezza età, pallido, con due
occhi deboli e acquosi e un paio di baffi fieramente e baldamente rivolti
all'insù, che contrastavano con il labbro cadente nascosto dietro di essi. Hal
era un giovanotto di diciannove o vent'anni, con una grossa rivoltella Colt e un
coltello da caccia infilato alla cintura irta di cartucce. Questa cintura era la
cosa più notevole in lui: denotava la sua mentalità infantile, un'infantilità
assoluta e ineffabile. Tutti e due erano evidentemente fuori posto; perché mai
tipi simili si fossero avventurati nel Nord, fa parte di quel mistero delle cose
che supera il nostro intelletto.
Buck udì contrattare e vide
il denaro passare dalla mano degli uomini in quelle della gente governativa, e
comprese che lo scozzese mezzosangue e i conducenti della valigia postale
stavano per passare dalla sua vita sulle tracce di Perrault e François e degli
altri che erano scomparsi prima di loro. Quando fu condotto con i suoi compagni
al campo dei suoi nuovi padroni, Buck vide un insieme disordinato e sudicio; la
tenda era tirata a metà, i piatti non erano lavati, tutto era fuori di posto;
inoltre vide una donna. La chiamavano Mercedes. Era moglie di Charles e sorella
di Hal: una simpatica famiglia.
Buck li osservò pieno di
apprensione mentre smontavano la tenda e caricavano la slitta. Facevano grandi
sforzi, ma senza metodo e senza risparmio di energie. La tenda fu arrotolata in
un goffo pacco grande tre volte quello che avrebbe dovuto essere. I piatti di
metallo furono riposti senza essere lavati. Mercedes era sempre tra i piedi
degli uomini e non faceva che chiacchierare rimproverando o dando consigli.
Quando misero un sacco di abiti sul davanti della slitta, suggerì di metterlo
sulla parte posteriore, e quando questo fu fatto e il sacco fu coperto da altri
due fagotti, scoprì altri oggetti che non potevano essere messi altrove che in
quel sacco, ed essi scaricarono nuovamente.
Tre uomini vennero da una
tenda vicina e si misero a guardare sogghignando e ammiccando fra loro.
- Avete un bel carico, -
disse uno di loro; - non tocca a me dirvi quello che dovete fare, ma se fossi in
voi non mi porterei dietro la tenda.
- Sognate! - esclamò
Mercedes alzando le braccia con un grazioso gesto di smarrimento. - Come potrei
fare senza una tenda?
- E' primavera e il freddo
ormai è passato, - rispose l'uomo.
Ella scosse risolutamente la
testa, e Charles e Hal misero le ultime cose su quel mastodontico carico.
- Credete che marcerà? -
domandò uno degli uomini.
- Perché no? - rispose
Charles con una certa rudezza.
- Bene, bene, - si affrettò
a dire l'uomo bonariamente, - era solo una domanda. Mi sembrava un po' troppo
pesante.
Charles gli voltò le spalle
e attaccò i cani come meglio poté, ossia non proprio nel modo migliore.
- Naturalmente i cani non
potranno tirare avanti per tutta la giornata con tutto quel po' po' di roba
dietro, - affermò un altro.
- Certo, - disse Hal con
gelida cortesia, afferrando il timone con una mano e agitando con l'altra la sua
frusta.- Mush, - gridò. - Mush, avanti!
I cani fecero forza contro i
pettorali, tirarono energicamente per pochi istanti e poi cedettero. Erano
incapaci di muovere la slitta.
- Maledetti poltroni, ve la
faccio vedere io, - gridò accingendosi a frustarli.
Mercedes intervenne
piagnucolando: - Oh, Hal, non lo fare. - E intanto afferrava la frusta e gliela
strappava dalle mani. - Poverini! Devi promettermi di non esser cattivo con loro
per tutto il viaggio, altrimenti non mi muovo.
- Te ne intendi proprio, di
cani, tu, - le rispose il fratello sghignazzando. - Ti prego di lasciarmi in
pace. Sono dei poltroni, ti dico, e bisogna frustarli per ottenere qualche cosa
da loro.
Così bisogna fare. Domandalo
a chi vuoi: domandalo a uno di questi.
Mercedes volse loro uno
sguardo implorante, con impressa sul volto grazioso un'indicibile ripugnanza
alla vista del dolore.
- Sono deboli come l'acqua,
se volete saperlo, - rispose uno degli uomini. - Magri come prugne secche, ecco
il fatto. Hanno bisogno di riposo.
- Accidenti al riposo, -
disse Hal con le sue labbra imberbi; e Mercedes emise un "oh" di pena a quella
bestemmia.
Ma era una donna molto
legata alla famiglia e scattò in difesa del fratello. - Non badare a quest'uomo,
- disse risoluta. - Tu sei il conducente dei nostri cani e devi fare quello che
credi meglio.
La frusta di Hal cadde
ancora sui cani. Essi si gettarono di nuovo contro i pettorali puntando le zampe
contro la neve indurita, si abbassarono ventre terra impegnandosi con tutte le
forze. Ma la slitta rimaneva ferma come se fosse ancorata. Dopo due sforzi si
fermarono ansanti. La frusta fischiava selvaggiamente e Mercedes intervenne
ancora. Cadde in ginocchio davanti a Buck, con le lacrime agli occhi e lo
abbracciò.
- Poverini, poverini, -
piagnucolava piena di tenerezza, - perché non tirate? Non vi frusterebbero.
Buck non provava molta
simpatia per lei, ma si sentiva troppo miserabile per resisterle e la sopportò
come una parte del triste lavoro di quel giorno. Uno degli astanti, che aveva
stretto i denti fino allora per non pronunciare parole dure, disse infine:
- Non che mi curi di quel
che vi succederà, ma per amor dei cani vi devo dire che potreste aiutarli un bel
po' liberando la slitta.
I pattini si sono gelati e
hanno fatto blocco. Gettatevi con tutto il peso contro il timone spingendo a
destra e a sinistra, e libererete la slitta.
Fu fatto un terzo tentativo,
e questa volta, seguendo il consiglio, Hal liberò i pattini gelati nella neve.
La slitta sovraccarica avanzò a fatica; Buck e i suoi compagni spingevano
disperatamente sotto una pioggia di colpi. Un'ottantina di iarde più avanti il
sentiero voltava e scendeva ripidamente sulla via principale. Sarebbe stato
necessario un uomo esperto per impedire a quella slitta così carica di
rovesciarsi, e Hal non lo era. Nel fare la voltata la slitta si capovolse
lasciando sfuggire metà del suo contenuto attraverso le cinghie allentate. I
cani non si fermarono. La slitta, alleggerita, trascinata su di un fianco,
sobbalzava dietro di loro. Erano furiosi per il cattivo trattamento ricevuto e
per quel carico assurdo. Buck schiumava di rabbia. Si gettò a corsa pazza,
mentre la muta seguiva il suo capo. Hal gridava: - Uha! Uha! - Loro non gli
badarono. Hal inciampò e fu rovesciato; la slitta capovolta gli passò sopra, e i
cani si precipitarono sulla strada, divertendo tutta Skaguay e spargendo il
resto del carico lungo la via principale.
Dei cittadini di buon cuore
fermarono i cani e raccolsero la roba disseminata dappertutto. Inoltre diedero
consigli. Metà carico e doppio numero di cani se volevano arrivare a Dawson,
ecco quello che dicevano. Hal, la sorella e il cognato ascoltarono di
malavoglia, piantarono la tenda ed esaminarono il loro equipaggiamento. Fu
tratto fuori dello scatolame che fece ridere gli uomini, perché lo scatolame
sulla Pista Lunga è roba che non se l'è mai sognata nessuno.
- Queste coperte vanno bene
per un albergo, - disse ridendo uno che li aiutava. - La metà di tutto questo è
anche troppa, sbarazzatevene. Gettate via quella tenda e tutti quei piatti; chi
potrebbe lavarli? Buon Dio, credete di viaggiare in pullman?
Così continuò l'inesorabile
eliminazione del superfluo. Mercedes pianse quando i sacchi degli abiti furono
gettati a terra e ne fu tolto il contenuto pezzo per pezzo. Pianse per l'insieme
e pianse su ogni particolare che veniva scaricato. Si puntava le mani sulle
ginocchia, dondolandosi avanti e indietro piena di angoscia.
Affermava che non si sarebbe
mossa di un pollice nemmeno per una dozzina di Charles, si appellava a tutti e a
tutto, e infine asciugandosi gli occhi cominciò a gettar via anche oggetti
assolutamente necessari. E nel suo zelo, quando ebbe finito con la roba propria,
attaccò quella dei due uomini, avventandosi su di essa come un ciclone.
Fatto questo,
l'equipaggiamento, sebbene ridotto a metà, costituiva ancora un mucchio
formidabile. Charles e Hal uscirono verso sera e comprarono sei cani forestieri.
Questi, uniti ai sei della prima muta e a Tek e a Koona, gli eschimesi comprati
alle Rapide della Pista, nel viaggio record, portarono a quattordici il numero
nel tiro. Ma i cani forestieri, sebbene allenati fin dal loro sbarco, valevano
poco. Tre erano cani da punta dal pelo corto, uno era un Terranova, e gli altri
due, bastardi di razza indefinibile. Questi nuovi venuti sembravano ignorare
tutto. Buck e i suoi compagni li guardarono con disgusto, e sebbene riuscisse a
insegnar loro molto in fretta quale era il loro posto e che cosa non dovevano
fare, Buck non riuscì a fargli capire quello che dovevano fare. Sopportavano mal
volentieri i tiranti e la pista, e, ad eccezione dei due bastardi, erano
smarriti e abbattuti dallo strano ambiente selvaggio in cui erano capitati e dai
cattivi trattamenti ricevuti. I due bastardi non avevano un'ombra di spirito; le
uniche cose che si potessero abbattere in loro erano le ossa.
Con quei nuovi venuti
affranti e disperati, e col vecchio tiro logorato da duemilacinquecento miglia
di lavoro continuo, le prospettive non erano affatto brillanti. Tuttavia i due
uomini erano tranquillissimi e addirittura orgogliosi. Con quattordici cani
facevano veramente le cose in grande stile. Avevano visto altre slitte partire
sul Passo per Dawson, o venire da Dawson, ma non ne avevano mai vista una di
quattordici cani. Nella natura stessa dei viaggi artici c'era una ragione per
cui quattordici cani non dovessero tirare una slitta, e questa era data dal
fatto che una slitta non poteva portare cibo per quattordici cani. Ma Charles e
Hal non lo sapevano. Essi avevano preparato il loro viaggio sulla carta: tanto
per cane, tanti cani, tanti giorni, come dovevasi dimostrare. Mercedes li
osservava al disopra delle loro spalle e approvava: era tutto così semplice!
Il giorno seguente, a
mattino avanzato, Buck guidò il lungo tiro lungo la strada. In tutto ciò non vi
era nulla che li animasse, nessuno slancio, nessun impeto in lui né nei suoi
compagni.
Partivano stanchi morti. Per
quattro volte aveva percorso la distanza tra Acqua Salata e Dawson. E il sapere
che, esausto com'era, doveva percorrere ancora una volta la pista, lo colmava di
amarezza. Non poteva mettere il cuore in quel lavoro, e così pure gli altri
cani. I forestieri erano timidi e atterriti, gli altri non avevano fiducia nei
loro padroni. Buck sentiva vagamente che non si poteva far conto su quei due
uomini e quella donna. Non sapevano fare niente, e col passar dei giorni fu
chiaro che non avrebbero mai imparato.
Erano maldestri in tutto,
senza ordine né disciplina. Dedicavano metà della notte a piantare un
accampamento scombinato e metà del mattino a toglierlo e a caricare la slitta in
un modo così goffo, che per tutto il resto del giorno dovevano fermarsi
continuamente per rimettere in sesto il carico. In certi giorni non riuscivano a
fare neppure dieci miglia, e a volte non partivano nemmeno. Mai furono capaci di
percorrere più della metà della distanza considerata come base nel computo del
cibo necessario ai cani.
Era inevitabile che in breve
sarebbero venuti a trovarsi privi di nutrimento per un tiro, ed essi,
distribuendo il nutrimento con eccessiva abbondanza, affrettarono l'arrivo del
giorno in cui esso sarebbe venuto a mancare. I cani forestieri, la cui
digestione non era stata allenata da una fame cronica a ricavare il massimo dal
poco, avevano un appetito vorace. Inoltre, quando gli eschimesi esausti
cominciarono a tirare debolmente, Hal decise che la razione consueta era troppo
scarsa. E la raddoppiò. A completare l'opera, Mercedes non essendo riuscita, con
le lacrime dei suoi begli occhi e i tremiti della sua graziosa gola, a
persuaderlo ad aumentare ancora la razione, andò a rubare il pesce nei sacchi e
lo diede loro di nascosto. Ma Buck e gli eschimesi non avevano bisogno di cibo,
bensì di riposo; e, sebbene viaggiassero lentamente, il pesante carico li
esauriva.
Poi venne la penuria. Hal un
giorno dovette riconoscere che il cibo per i cani si era ridotto alla metà
mentre la distanza era stata coperta solo per un quarto, e inoltre che né per
amore né per denaro vi era modo di procurarsi altro cibo. Di conseguenza ridusse
la razione normale e in egual tempo tentò di aumentare il percorso giornaliero.
La sorella e il cognato lo aiutavano, ma erano ostacolati dalla pesantezza del
carico e dalla loro incompetenza. Era semplice dar meno cibo ai cani, ma
impossibile farli camminare più spediti, mentre la loro stessa incapacità di
mettersi in viaggio più presto al mattino impediva loro di aumentare le ore di
viaggio. Non solo non sapevano disciplinare i cani, ma neppure disciplinare se
stessi.
Il primo ad andarsene fu Dub.
Era un povero ladro ingenuo, sempre colto sul fatto e sempre punito, ma era
stato un fedele lavoratore. La sua spalla ferita priva di cure e di riposo, andò
di male in peggio, e alla fine Hal lo spacciò con la sua grossa rivoltella.
Nella contrada si dice che un cane forestiero muore di fame con la razione di un
eschimese, e i sei forestieri alle dipendenze di Buck non potevano fare altro
che morire con la metà della razione di un eschimese. Dapprima se ne andò il
Terranova, seguito dai tre cani di punta dal pelo corto; i due bastardi, più
tenacemente attaccati alla vita, se ne andarono per ultimi.
Frattanto, tutta l'allegria
e la gentilezza del Sud avevano abbandonato quelle tre persone. Il viaggio
artico, spogliato del suo splendore e del suo romanticismo, divenne una realtà
troppo cruda per lo spirito di quegli uomini e di quella donna. Mercedes smise
di piagnucolare sui cani, troppo occupata com'era a piangere su di sé e a
litigare col marito e col fratello. Il litigio era l'unica cosa a cui non si
stancavano mai di applicarsi. La loro irritabilità sorgeva dalla loro stessa
condizione disgraziata, aumentava con essa, si raddoppiava con essa e la
superava. La meravigliosa pazienza della pista, propria degli uomini che
lavoravano e soffrono duramente e tuttavia rimangono cortesi nelle parole e
bonari, era ignota ai due uomini ed alla donna. Di quella pazienza essi non ne
possedevano nemmeno un briciolo. Le sofferenze li indurivano; i loro muscoli, le
loro ossa, perfino il loro cuore erano dolenti, e per questo divennero aspri nel
parlare, parole aspre affioravano per prime sulle loro labbra al mattino ed
erano le ultime alla sera.
Charles e Hal litigavano
ogni volta che Mercedes ne offriva loro l'occasione.
La convinzione prediletta di
ognuno di loro era di lavorare più di quanto gli spettasse e nessuno trascurava
di esprimerla alla prima occasione. A volte Mercedes prendeva le parti del
marito, a volte quelle del fratello. E il risultato era una bellissima e
interminabile lite familiare. Cominciavano magari a disputare su chi dovesse
spaccare qualche pezzo di legna per il fuoco (litigio che riguardava solo
Charles e Hal) e poco dopo era trascinato nella controversia tutto il resto
della famiglia, padri, madri, zii, cugini, gente distante mille miglia e taluni
addirittura morti. Che le opinioni di Hal sull'arte o sul tipo di commedie
scritte dal fratello di sua madre avessero qualche cosa a che fare con lo
spaccare un po' di legna per il fuoco, superava ogni comprensione; tuttavia la
disputa si svolgeva con tutta facilità in questo senso come in quello dei
pregiudizi politici di Charles.
E in che cosa la lingua
loquace della sorella di Charles avesse rapporti con la necessità di accendere
un fuoco sul Yukon, avrebbe potuto dirlo solo Mercedes, che dava la stura alle
sue numerose opinioni su questo tema, estendendosi magari ad alcune altre
spiacevoli caratteristiche proprie della famiglia del marito.
Frattanto il fuoco restava
spento, il campo era lasciato a mezzo e i cani rimanevano senza cibo.
Mercedes nutriva un
risentimento particolare: il risentimento del sesso. Graziosa e delicata, per
tutta la vita era stata trattata con molto riguardo. Ma il modo con cui la
trattavano adesso il marito e il fratello era tutto fuorché cavalleresco. Si era
abituata a non sapersi cavare d'impaccio, ed essi se ne lagnarono.
Ostacolata in quella che era
la più essenziale prerogativa del suo sesso, ella rese loro insopportabile la
vita.
Non si curò più dei cani, e,
stanca e abbattuta com'era, volle essere trascinata sulla slitta. Sebbene fosse
graziosa e delicata, pesava centoventi libbre: una notevole ultima briciola
aggiunta al carico trascinato da animali deboli e affamati. Si fece condurre
così per intere giornate finché i cani caddero fra le tirelle e la slitta si
fermò. Charles e Hal la pregarono di scendere e di andare a piedi, la
supplicarono, la scongiurarono, e lei piangeva e importunava il Cielo
raccontando la loro brutalità. Una volta la trassero giù dalla slitta a furia,
ma non lo fecero più. Ella lasciò ciondolare inerti le gambe come un bambino
viziato e si sedette sulla pista. Loro tirarono avanti, ma lei non si mosse.
Dopo aver proseguito per tre
miglia, scaricarono la slitta, tornarono indietro e la caricarono di peso.
All'estremo della miseria, divennero insensibili alle sofferenze degli animali.
La teoria di Hal, da lui messa in pratica sugli altri, era che bisognava
diventare duri. Aveva cominciato col predicarla alla sorella e al cognato; non
essendo riuscito con loro, cominciò a istillarla ai cani a colpi di bastone.
Alle Cinque Dita non vi fu più cibo per i cani, e una vecchia indiana sdentata
barattò con loro poche libbre di pelle di cavallo gelata per la rivoltella Colt
che faceva compagnia al grande coltello da caccia infilato alla cintura di Hal.
Un ben povero surrogato di cibo era quella pelle tolta sei mesi prima ai cavalli
morti di fame dei mandriani.
Gelata com'era, sembrava
fatta di strisce di ferro galvanizzato, e quando un cane riusciva a cacciarsela
nello stomaco, si discioglieva in sottili fibre coriacee, incapaci di nutrire, e
in una massa di corti peli irritanti e indigesti.
In mezzo a queste pene, Buck
barcollava alla testa del tiro come in un incubo. Tirava quando poteva; e quando
non poteva più tirare si abbatteva e rimaneva a terra finché i colpi di frusta o
di bastone non lo costringevano a rimettersi in piedi. La sua bella pelliccia
aveva perso la sua compatta lucentezza: pendeva floscia e sudicia, macchiata di
sangue rappreso là dove il bastone di Hal lo aveva ferito. I suoi muscoli si
erano ridotti a cordoni nocchiuti, il grasso era scomparso dalle sue carni, così
che ogni costola, ogni osso apparivano chiaramente sotto la pelle cascante che
si raggrinzava in vuote pieghe. Era cosa da spezzare il cuore, ma il cuore di
Buck era infrangibile. L'uomo dalla maglia rossa ne aveva avuto la prova.
Nelle stesse condizioni di
Buck erano i suoi compagni, ridotti a scheletri ambulanti. Erano sette in tutto,
compreso lui. Nel colmo delle loro sofferenze, erano divenuti insensibili al
morso della frusta e ai colpi del bastone. Il dolore delle percosse era sordo e
lontano, così come sordo e lontano era tutto ciò che i loro occhi vedevano e le
loro orecchie ascoltavano. Non erano vili per la metà o per un quarto: erano
semplicemente dei sacchi d'ossa in cui poche scintille di vita palpitavano
debolmente. Ad ogni sosta, cadevano giù tra le tirelle come morti e la scintilla
si offuscava, impallidiva e sembrava spegnersi. Quando il bastone o la frusta
cadevano su di loro, quella scintilla si ravvivava debolmente, ed essi si
rialzavano a stento e proseguivano barcollando.
Venne il giorno in cui il
bonaccione Billee cadde e non poté rialzarsi. Hal aveva ceduto la rivoltella;
prese dunque l'ascia e colpì Billee alla testa mentre era ancora fra le tirelle.
Poi trasse fuori il corpo dai finimenti e lo trascinò da parte. Buck vide e
anche i suoi compagni videro, e compresero che la stessa sorte era loro molto
vicina. Il giorno dopo toccò a Koona, e rimasero solo in cinque: Joe, troppo
estenuato per essere malvagio; Pike, sciancato e zoppicante, consapevole solo
per metà e non abbastanza per fingere ancora; Sol-leks, il monocolo, sempre
fedele alla fatica del tiro e della pista e dolente di avere ormai così poche
forze per spingere avanti; Tek, che quell'inverno aveva viaggiato meno degli
altri e che adesso era picchiato di più perché era più fresco; e Buck ancora
alla guida del tiro, ma non più capace di far rispettare la disciplina, quasi
sempre cieco di stanchezza, che seguiva la pista guidato dal suo fioco bagliore
e dall'oscura sensazione di averla sotto le zampe.
Era un bellissimo tempo
primaverile ma né gli uomini né i cani se ne accorgevano. Ogni giorno il sole si
alzava più presto e tramontava più tardi. L'alba sorgeva alle tre del mattino e
il crepuscolo durava fino alle nove di sera. L'intera giornata era un bagliore
di sole. Il silenzio spettrale dell'inverno cedeva al grande mormorio
primaverile della vita che si destava. Quel mormorio sorgeva da tutta la terra,
pieno di gioia di vivere.
Veniva dagli esseri che
tornavano alla vita e ancora si muovevano dopo essere stati come morti e
immobili durante i lunghi mesi di gelo. La linfa saliva nel tronco dei pini. I
salici e i pioppi tremuli lasciavano esplodere le giovani gemme. I cespugli e le
viti si coprivano di nuovo verde. Di notte i grilli cantavano, e durante il
giorno esseri striscianti o rampicanti di ogni genere uscivano al sole. Le
pernici e i picchi frullavano e becchettavano nella foresta. Gli scoiattoli
chiacchieravano, gli uccelli cantavano e risuonava sulle loro teste lo strido
delle anitre selvatiche che venivano dal Sud in sagaci stormi disposti a cuneo
fendendo l'aria.
Dai fianchi scoscesi di ogni
colle veniva il sussurro di acque scorrenti, la musica d'invisibili sorgive.
Tutto usciva dal gelo e si dispiegava sbocciando. Lo Yukon si sforzava di
rompere il ghiaccio che lo opprimeva. Lo corrodeva dal di sotto, mentre il sole
lo consumava in superficie. Si formavano cavità, si aprivano fessure che subito
si allargavano mentre sottili lembi di ghiaccio cadevano attraverso di esse nel
fiume. In mezzo a questo erompere, a questo fendersi, a questo fremere di vita
nel risveglio sotto il sole ardente e nel dolce respiro delle brezze, come
viandanti avviati alla morte barcollavano i due uomini, la donna e i cani
eschimesi.
I cani erano ormai sfiniti,
Mercedes piangeva abbandonata sulla slitta, Hal bestemmiava senza costrutto, e
lo sguardo acquoso di Charles vagava ansiosamente quando giunsero barcollando al
campo di John Thornton, alle foci del Fiume Bianco. Appena fermi, i cani caddero
come colpiti a morte; Mercedes si asciugò gli occhi guardando John Thornton, e
Charles si sedette per riposare su di un tronco. Si sedette lentamente e a
fatica perché era irrigidito.
Hal parlò. John Thornton
stava dando gli ultimi tocchi a un manico di scure che aveva fatto con un ramo
di betulla. Lavorava e ascoltava rispondendo a monosillabi, e, quando ne era
richiesto, dando brevi consigli. Conosceva quei tipi ed esprimeva il proprio
parere con la certezza che non sarebbe stato seguito.
- Ci hanno già detto che il
fondo sta cedendo e che la miglior cosa per noi sarebbe di fermarci, - disse Hal
rispondendo all'esortazione di Thornton di non avventurarsi oltre sul ghiaccio
rotto. - Ci hanno detto che non avremmo potuto fare il Fiume Bianco, ed eccoci
qua. - Quest'ultima frase fu pronunciata con un ghigno trionfante.
- E vi hanno detto il vero,
- rispose John Thornton. - Il fondo può spezzarsi da un momento all'altro. Solo
dei matti, con la cieca fortuna dei matti, potrebbero riuscirvi. Vi dico chiaro
che non arrischierei la mia carcassa su quel ghiaccio per tutto l'oro
dell'Alaska.
- Sarà perché non sei matto,
- disse Hal. - Tuttavia noi andremo a Dawson. - Prese la frusta. - Sù, Buck! Hi!
In piedi! Mush.
Thornton continuò il suo
lavoro. Sapeva che era inutile intromettersi tra un pazzo e la sua pazzia; due o
tre matti di più o di meno non avrebbero modificato l'ordine delle cose.
Ma la muta non si alzò al
comando. Era entrata da un pezzo in quello stato in cui solo le percosse
potevano farla muovere. La frusta sibilò qua e là senza misericordia. John
Thornton strinse le labbra. Sol-leks fu il primo a rialzarsi penosamente. Teek
lo seguì. Poi si alzò Joe guaendo di dolore. Pike fece penosi sforzi:
cadde due volte quando si
era già per metà rialzato e alla terza ci riuscì. Buck non fece alcuno sforzo e
rimase tranquillo là dov'era caduto. La frusta si abbatté ripetutamente su di
lui, ma egli non gemette e non si mosse. Più volte Thornton sussultò come se
volesse parlare, ma poi mutò idea. I suoi occhi si inumidirono e, mentre la
frusta continuava ad abbattersi, si alzò e si mise a passeggiare senza scopo in
sù e in giù.
Era la prima volta che Buck
veniva meno, ed era questa una ragione sufficiente per far divenire furibondo
Hal. Lasciò la frusta per prendere il solito bastone. Buck si rifiutò di
muoversi sotto la pioggia dei più dolorosi colpi che adesso cadevano su di lui.
Al pari dei suoi compagni egli aveva appena la forza di alzarsi, ma diversamente
da loro, aveva deciso di restare a terra. Aveva la vaga sensazione di una
condanna imminente. Lo aveva sentito nell'intimo mentre tirava lungo la riva, e
quella sensazione non lo aveva più lasciato. Sembrava che il ghiaccio sottile e
screpolato che si era sentito sotto i piedi per tutto il giorno, gli facesse
intuire il disastro vicino, là su quel ghiaccio dove il suo padrone avrebbe
voluto spingerlo. Si rifiutò di muoversi.
Aveva sofferto tanto ed era
ormai così stremato, che i colpi non gli facevano molto male. E, poiché
continuavano a cadere su di lui, la scintilla di vita nel suo intimo vacillò e
si abbassò:
quasi si spense. Si sentiva
stranamente intorpidito. Aveva l'impressione di essere percosso come attraverso
una grande distanza. Le ultime sensazioni di dolore lo abbandonarono. Non sentì
più nulla sebbene molto debolmente potesse udire i colpi del bastone sul suo
corpo. Ma non era più il suo corpo, tanto sembrava lontano. E allora, d'un
tratto, senza preavviso, con un grido inarticolato, simile a quello di un
animale, John Thornton si scagliò sull'uomo che impugnava il bastone. Hal fu
spinto indietro come colpito da un albero abbattuto. Mercedes diede uno strido,
Charles guardava smarrito asciugandosi gli occhi acquosi, ma non si alzò, tanto
era irrigidito.
John Thornton era chino su
Buck tentando di dominarsi, troppo preso dal furore per poter parlare.
- Se batti ancora questo
cane, ti ammazzo, - riuscì finalmente a dire con voce soffocata.
- Il cane è mio, - rispose
Hal asciugandosi il sangue che gli usciva dalla bocca e tornando verso di lui. -
Togliti dai piedi o ti faccio fuori. Vado a Dawson. - Thornton stava tra lui e
Buck e non mostrava alcuna intenzione di levarsi di mezzo. Hal trasse il suo
lungo coltello da caccia. Mercedes strillava, piangeva, rideva abbandonandosi a
un confuso attacco di isterismo. Thornton colpì le dita di Hal con il manico
della scure facendogli cadere il coltello, e gliele colpì ancora mentre tentava
di raccoglierlo.
Poi si chinò, lo raccolse
egli stesso, e con due colpi recise le tirelle di Buck.
Hal non aveva più voglia di
combattere. Inoltre la sorella gli teneva ferme le mani, o meglio le braccia.
Buck era troppo vicino alla morte per poter ancora tirare la slitta. Pochi
minuti dopo essi se ne andavano lungo il fiume. Buck li udì allontanarsi e alzò
la testa per vedere. Pike guidava, Sol-leks era il cane di slitta e tra loro
stavano Joe e Teek. Zoppicavano e barcollavano.
Mercedes si faceva
trascinare sulla slitta carica. Hal era al timone e Charles veniva dietro
incespicando. Mentre Buck li guardava, Thornton s'inginocchiò vicino a lui, e
con le sue rozze e affettuose mani cercò se vi fossero ossa rotte. Quando fu
sicuro che non vi era niente altro se non molte contusioni e un terribile stato
d'inedia, la slitta si era allontanata di un quarto di miglia. Il cane e l'uomo
la guardavano strisciare sul ghiaccio.
Improvvisamente videro
sprofondare la parte posteriore e il timone, con Hal aggrappato, ergersi
nell'aria. Giunse alle loro orecchie l'urlo di Mercedes. Videro Charles voltarsi
e fare un passo per tornare indietro, poi un'intera lastra di ghiaccio cedette,
e i cani e gli uomini scomparvero. Rimase solo una buca aperta. La pista aveva
ceduto. John Thornton e Buck si guardarono.
- Poveri diavoli, - disse
John Thornton. E Buck gli leccò la mano.
6. PER L'AMORE DI UN UOMO
Il dicembre precedente,
quando John Thornton aveva avuto i piedi congelati, i suoi compagni lo avevano
sistemato con cura e lo avevano lasciato perché si ristabilisse, risalendo poi
il fiume per prendere una partita di tronchi da portare a Dawson lungo il fiume.
Quando salvò Buck zoppicava ancora un poco, ma con l'inoltrarsi della nuova
stagione anche questo leggero inconveniente scomparve. E là, sdraiato sulla riva
del fiume, nei lunghi giorni di primavera, osservando il fluire delle acque,
ascoltando pigramente il canto degli uccelli e il mormorio della natura, Buck a
poco a poco recuperò le forze.
Un buon riposo viene molto a
proposito quando uno ha viaggiato per tremila miglia. E bisogna confessare che
Buck divenne pigro, mentre le sue ferite rimarginavano, i suoi muscoli tornavano
a farsi turgidi e la carne copriva nuovamente le sue ossa. A dire il vero, tutti
loro stavano tranquillamente in ozio: Buck, John Thornton e Skeet e Nig,
aspettando il carico di tronchi che doveva portarli a Dawson. Skeet era una
piccola setter irlandese, che fece presto amicizia con Buck: mezzo morto
com'era, egli non poteva respingere i suoi approcci. Essa aveva quelle facoltà
risanatrici che alcuni cani posseggono; e come una gatta lava i suoi gattini
così ella lavava e puliva le ferite di Buck. Ogni mattina, quando lui aveva
finito la colazione, Skeet veniva regolarmente ad adempiere al compito che si
era prefisso, finché egli cominciò a desiderare le sue cure non meno di quelle
di Thornton. Nig, egualmente amichevole, sebbene meno espansivo, era un grande
cane nero, mezzo alano e mezzo segugio, con gli occhi ridenti e una bonarietà
senza limiti.
Con molta sorpresa di Buck,
questi cani non apparivano affatto gelosi di lui. Sembravano condividere la
bontà e la generosità di John Thornton. Via via che Buck riprendeva le forze,
essi lo invitarono a buffi giochi di ogni sorta, ai quali lo stesso Thornton non
poteva fare a meno di unirsi; e in questo modo Buck durante la sua convalescenza
giunse a un nuovo periodo della sua vita facendo il chiasso. Per la prima volta
conobbe l'amore, l'amore schietto e appassionato. Non ne aveva avuto esperienza
nella casa del giudice Miller, laggiù, nella valle di Santa Clara baciata dal
sole. Con i figli del giudice, andando a caccia o a passeggio, era stato un
compagno di lavoro; per i nipoti del giudice una specie di solenne guardiano; e
per il giudice stesso un dignitoso e serio amico, ma l'amore, febbre ardente,
adorazione, follia, lo aveva fatto sorgere in lui solo John Thornton.
Quell'uomo gli aveva salvato
la vita, e questo era qualche cosa; ma inoltre era il padrone ideale. Gli altri
provvedevano al benessere dei loro cani per un senso di dovere e di pratica
utilità; lui invece lo faceva come se fossero stati suoi figli, perché non
poteva fare altrimenti. E andava anche oltre. Non dimenticava mai di dar loro un
saluto benevolo, di rivolgergli una buona parola, e si divertiva non meno di
loro a sedersi in mezzo ai suoi cani facendo con loro lunghe conversazioni ("a
chiacchierare" diceva).
Aveva un modo particolare di
prendere tra le mani il muso di Buck o di posare su quella di Buck la propria
testa scuotendolo avanti e indietro, dicendogli affettuosamente parolacce che
per Buck erano parole d'amore.
Buck non conosceva gioia più
grande di quel rude abbraccio e del suono di quelle ingiurie mormorate, e ad
ogni scossone gli sembrava che il cuore gli balzasse fuori dal petto tanta era
la sua estasi. E quando, lasciato libero, balzava in piedi con la bocca ridente,
gli occhi parlanti, la gola vibrante di suoni inarticolati, e rimaneva così
immobile, John Thornton esclamava con riverenza: "Dio mio, non ti manca che la
parola!".
Buck aveva un modo per
esprimere il suo amore che sembrava un'aggressione violenta. Spesso afferrava
tra i denti la mano di Thornton e stringeva così forte che l'impronta rimaneva
per parecchio tempo nella carne. E come Buck interpretava le parolacce come
parole d'amore, così l'uomo considerava quel finto morso come una carezza.
Tuttavia l'amore di Buck si
esprimeva in genere come adorazione.
Sebbene divenisse folle di
gioia quando Thornton lo toccava o gli parlava, non cercava mai queste
espressioni di affetto.
Diversamente da Skeet, che
era solita spingere il naso sotto la mano di Thornton e continuava a dare
piccole spinte finché l'accarezzasse, o da Nig, che avanzava solennemente e
appoggiava la grande testa sulle ginocchia di Thornton, Buck si accontentava di
adorare a distanza. Stava sdraiato per ore, vigile e attento, ai piedi di
Thornton, guardandolo in volto, contemplandolo, studiandolo, seguendo col più
vivo interesse ogni sua fuggevole espressione, ogni movimento, ogni mutamento
delle sue fattezze. O se, per caso, era lontano da lui, al suo fianco o alle sue
spalle, contemplava il profilo dell'uomo e i movimenti casuali del suo corpo. E
spesso, tanta era la comunione in cui vivevano, la forza dello sguardo di Buck
costringeva John Thornton a volgere la testa, e allora l'uomo contraccambiava lo
sguardo senza parlare, col cuore che gli scintillava negli occhi, così come
scintillava il cuore negli occhi di Buck.
Per molto tempo dopo essere
stato salvato, Buck mal sopportò che Thornton s'allontanasse dalla sua vista. Da
quando lasciava la tenda a quando vi rientrava, Buck seguiva i suoi passi. Il
continuo mutamento di padrone da quando era giunto nel Nord, aveva fatto sorgere
in lui il timore che nessun padrone fosse duraturo.
Ed egli paventava che
Thornton uscisse dalla sua vita come Perrault e François e il mezzo-sangue
scozzese. Perfino di notte, in sogno, era ossessionato da questa paura; e allora
balzava dal sonno e scivolava nel freddo fino all'apertura della tenda, restando
lì ad ascoltare il suono del respiro del suo padrone.
Ma nonostante questo grande
amore per John Thornton, che sembrava rivelare l'influenza della mite civiltà,
I'impeto del primitivo che il Nord aveva risvegliato in lui rimaneva vivo e
attivo. Egli possedeva la fedeltà e la devozione, creature del fuoco e del
tetto; e tuttavia manteneva la sua selvatichezza e la sua astuzia.
Era una creatura della
foresta, venuta dalla foresta per sedersi davanti al fuoco di John Thornton,
piuttosto che un cane del mite Sud segnato dalle impronte di generazioni civili.
Per il suo grande amore non avrebbe mai rubato nulla a quell'uomo, ma per
qualsiasi altro uomo, in un altro accampamento, non avrebbe esitato un attimo; e
l'astuzia con cui sapeva rubare gli permetteva di evitare di lasciarsi cogliere.
Aveva il muso e il corpo segnati dai denti di molti cani, e sapeva combattere
ancor più fieramente che mai, e con maggiore accortezza. Skeet e Nig erano
troppo bonari per azzuffarsi con loro, e inoltre appartenevano a John Thornton;
ma i cani stranieri, di qualsiasi razza e valore, dovevano riconoscere subito il
dominio di Buck o trovarsi a combattere per la vita con un terribile avversario.
Buck era senza pietà. Aveva
conosciuto bene la legge del bastone e della zanna, e mai trascurava un
vantaggio o si ritraeva davanti ad un nemico che aveva avviato sulla strada
della morte. Aveva preso lezione da Spitz, e dai principali cani combattenti
della polizia e della posta, e sapeva che non c'era via di mezzo.
Doveva dominare o essere
dominato; e mostrare pietà sarebbe stato debolezza. La pietà non esisteva nella
vita dei primordi. Veniva considerata come paura, e questo malinteso significava
morte.
Uccidere o essere ucciso,
mangiare o essere mangiato, era questa la legge; e a questo comandamento che
sorgeva dalle profondità del tempo egli prestava obbedienza.
Era più vecchio dei giorni
che aveva vissuto, dei respiri che aveva respirato. Riuniva il passato al
presente, e l'eternità dietro di lui palpitava in lui in un ritmo potente
insieme al quale egli oscillava al pari delle maree e delle stagioni. Sedeva
presso il fuoco di John Thornton: cane dal petto largo, dalle bianche zanne, dal
lungo pelo; ma dietro di lui vi erano le ombre di cani di ogni specie, metà lupi
e lupi selvaggi, che lo incalzavano e lo sollecitavano assaporando il cibo che
lui mangiava, assetati dell'acqua che beveva, fiutando con lui il vento,
ascoltando con lui e sussurrandogli i suoni della vita selvaggia nella foresta,
suggerendogli i movimenti, dirigendo le sue azioni, sdraiandosi al suo fianco a
dormire quando si accovacciava, sognando con lui e su di lui divenendo essi
stessi l'oggetto dei suoi sogni.
Cosi imperioso era il
richiamo di quelle ombre, che di giorno in giorno il genere umano e le sue
pretese s'allontanavano da lui.
Nel profondo della foresta
risuonava un invito, e ogni volta che egli l'udiva, misteriosamente vibrante e
lusinghiero, si sentiva costretto a volgere il dorso al fuoco e alla terra
battuta intorno ad esso per immergersi nella foresta, sempre avanti, non sapeva
dove né perché; né si domandava il dove o il perché, tanto imperiosamente
risuonava il richiamo nel profondo della foresta.
Ma ogni volta che
raggiungeva la soffice terra intatta e la verde ombra, l'amore per John Thornton
lo faceva tornare ancora al fuoco. Solo Thornton lo tratteneva. Il resto
dell'umanità era meno che nulla. Viaggiatori casuali potevano lodarlo o
accarezzarlo; ma egli rimaneva freddo, e se incontrava qualcuno troppo espansivo
si alzava e se ne andava.
Quando i compagni di
Thornton, Hans e Pete, arrivarono con il legname tanto atteso, Buck si rifiutò
di occuparsi di loro finché non comprese che erano amici di Thornton; allora li
tollerò in un certo modo passivo, accettandone i favori come se facesse loro
l'onore di accettarli. Essi erano dello stesso tipo di Thornton, semplici e
generosi; vivevano vicino alla terra, pensavano in modo elementare e vedevano
chiaro. E prima che il carico fosse giunto nel grande vortice presso la segheria
di Dawson, essi avevano capito Buck e i suoi modi, e non insistevano per
ottenere con lui quell'intimità che avevano con Skeet e con Nig.
L'amore per Thorton sembrava
crescere sempre più. Era lui l'unico uomo che potesse mettere un fardello sul
dorso di Buck nei viaggi estivi. Nulla era troppo difficile per Buck quando
Thornton comandava. Un giorno, dopo essersi riforniti con la vendita del legname
trasportato, avevano lasciato Dawson per le sorgenti del Tanana, gli uomini e i
cani se ne stavano seduti sul ciglio di una roccia che cadeva a picco su di un
letto di roccia nuda trecento piedi più sotto. John Thornton era seduto presso
il margine, e Buck era dietro di lui. Thornton fu preso da un capriccio
insensato e richiamò l'attenzione di Hans e di Pete sull'esperimento che voleva
fare. - Salta, Buck! - comandò stendendo il braccio oltre il precipizio. Un
attimo dopo stava lottando con Buck sull'estremo ciglio mentre Hans e Pete li
traevano indietro al sicuro.
- E' strano, - disse Pete
quando tutto fu passato ed ebbero ripreso a parlare. Thornton scosse il capo. -
No, è splendido ed è anche terribile. Sapete, a volte mi fa paura.
- Non mi piacerebbe affatto
di essere l'uomo che ti mette le mani addosso quando lui ti è vicino, - concluse
Pete accennando a Buck.
- Perbacco! - aggiunse Hans.
- Nemmeno a me.
A Circle City, prima che
l'anno finisse, le previsioni di Pete si avverarono. Burton il Nero, un tipaccio
facinoroso, aveva attaccato lite con un "piedipiatti" del bar e Thornton
intervenne bonariamente. Buck come soleva, se ne stava sdraiato in un angolo,
con la testa sulle zampe, seguendo ogni atto del suo padrone.
Burton colpì improvvisamente
con un diretto e Thornton girò su se stesso riuscendo a tenersi in piedi solo
aggrappandosi al parapetto del bar.
Quelli che stavano a
guardare udirono qualche cosa che non era né un ringhio né un latrato, ma
piuttosto un ruggito, e videro il corpo di Buck balzare in aria saltando dal
pavimento alla gola di Burton. L'uomo si salvò alzando istintivamente un
braccio, ma fu rovesciato a terra con Buck sopra. Buck staccò i denti dalla
carne del braccio e cercò ancora la gola. Questa volta l'uomo riuscì a
difendersi solo in parte ed ebbe la gola squarciata. Allora tutti si
rovesciarono su Buck e riuscirono a cacciarlo via; ma, mentre un chirurgo
cercava di stagnare il sangue, Buck andava in su e in giù mugolando
furiosamente, tentando di gettarsi nel folto e trattenuto solamente da una siepe
di bastoni minacciosi. Un "consiglio di minatori" chiamato sul posto, sentenziò
che il cane era stato provocato e Buck fu assolto, ma ormai la sua reputazione
era fatta, e da quel giorno il suo nome fu conosciuto in tutti i campi
dell'Alaska.
Più tardi, verso la fine di
quell'anno, Buck salvò la vita a Thornton in un modo molto diverso. I tre soci
facevano scendere per una brutta successione di rapide del Quaranta Miglia una
di quelle lunghe e strette imbarcazioni che si spingono con una pertica. Hans e
Pete camminavano lungo la riva, trattenendo la barca con una sottile fune di
manila che avvolgevano di albero in albero, mentre Thornton era
sull'imbarcazione e l'aiutava a scendere per la corrente con una pertica,
gridando ordini a quelli che erano a terra. Buck, sulla riva, pieno di ansia,
precedeva di poco la barca con gli occhi fissi sul suo padrone.
In un punto particolarmente
pericoloso dove una lingua di rocce nude si spingeva nel fiume, Hans sciolse la
fune e, mentre Thornton guidava la barca nel mezzo della corrente, corse lungo
la riva tenendo in mano l'estremità della corda per arrestare l'imbarcazione non
appena fosse girata al largo dalle rocce. Fatto questo, la barca filò
velocemente lungo una corrente rapida come la gora di un mulino, quando Hans la
arrestò con la fune, ma troppo bruscamente. La barca si rovesciò e fu spinta
capovolta contro la riva, mentre Thornton fu sbalzato fuori e trascinato dalla
corrente verso il peggior punto delle rapide: un tratto di acque furiose nel
quale nessun nuotatore avrebbe potuto salvarsi.
Buck si gettò subito nel
fiume, e dopo un trecento iarde raggiunse Thorton in mezzo a un turbine di acque
impazzite. Quando lo sentì aggrapparsi alla sua coda, Buck si diresse verso la
sponda nuotando con tutta la sua splendida forza, ma l'avanzata verso la riva
era molto lenta mentre quella nel senso della corrente terribilmente veloce. Dal
basso veniva il fatale ruggito, là dove la corrente selvaggia si faceva ancor
più selvaggia, spezzata in brandelli spumosi dalle rocce che sporgevano
dall'acqua come i denti di un enorme pettine. La forza dell'acqua nel punto in
cui cominciava l'ultimo pendio era terribile, e Thornton comprese che era
impossibile giungere a riva. Passò furiosamente sopra una roccia, batté contro
una seconda, colpì una terza con terribile violenza. Con entrambe le mani si
aggrappò all'estremità scivolosa lasciando Buck e gridò sul rumore delle acque
sconvolte:
- Va', Buck, va'!
Buck non riusciva a
dirigersi e fu travolto dalla corrente mentre lottava disperatamente senza
riuscire a risalirvi. Quando udì ripetersi il comando di Thornton balzò in parte
sù dalle acque ergendo la testa come per l'ultimo sguardo e poi si volse
obbediente verso la riva. Nuotava gagliardamente e fu tratto in secco da Pete e
Hans proprio nel tratto in cui sarebbe stato impossibile nuotare e la
distruzione era imminente.
Essi compresero che un uomo
avrebbe potuto restare aggrappato a una roccia scivolosa combattendo contro
quella furiosa corrente solo per pochi minuti, e corsero più in fretta che
poterono lungo la riva fino a un punto molto più a monte di quello in cui
Thornton era in pericolo. Legarono al collo e alle spalle di Buck la corda con
cui trattenevano la barca, badando che non lo strozzasse né gli impedisse di
nuotare, e lo gettarono nel fiume.
Egli lottò vigorosamente, ma
non riuscì ad andare abbastanza dritto nella corrente. Si accorse dell'errore
troppo tardi, quando Thornton gli fu di fronte alla distanza di poche bracciate,
mentre egli era irrimediabilmente trascinato via.
Hans lo trattenne con la
corda, come se fosse stato una barca. La corda, lo arrestò nel punto più
impetuoso della corrente. Buck fu sommerso e rimase sott'acqua finché il corpo
fu sbattuto contro la riva e tirato fuori. Era mezzo annegato, e Hans e Pete si
gettarono su di lui facendogli entrare l'aria e uscire l'acqua. Si rialzò
barcollando e subito ricadde. Giunse a loro il debole suono della voce di
Thornton, e sebbene non potessero udire le sue parole, compresero che era agli
estremi. La voce del padrone fu per Buck come una scossa elettrica. Balzò in
piedi e risalì correndo la riva precedendo gli uomini fino al punto da cui si
era slanciato la volta precedente.
Gli fu attaccata nuovamente
la corda e fu lanciato; e di nuovo si mise a lottare contro le acque, ma questa
volta ben dritto contro la corrente. Aveva sbagliato una volta, ma non sarebbe
caduto in errore una seconda. Hans faceva scorrere la fune senza permetterle di
allentarsi, e Pete stava attento che non si imbrogliasse. Buck avanzò fino a che
non si trovò perpendicolarmente a Thornton; allora si volse e piombò su di lui
con la velocità di un diretto.
Thornton lo vide venire e
quando Buck lo colpì come un montone che carica, sospinto dalla corrente, alzò
le braccia e le strinse attorno al suo collo irsuto. Hans fissò la corda a un
tronco, e Buck e Thornton vennero travolti sotto le acque. Strangolati,
soffocati, I'uno sull'altro, trascinati sul fondo roccioso, sbattuti contro
scogli e tronchi, furono spinti fino alla riva.
Thornton tornò in sé a
pancia in giù su di un tronco d'albero, violentemente massaggiato da Hans e da
Pete. Il suo primo sguardo fu per Buck sul cui corpo immobile e apparentemente
senza vita Nig ululava mentre Skeet gli leccava il muso umido e gli occhi
chiusi.
Thornton era tutto contuso,
ma appena Buck fu rianimato esaminò accuratamente il suo corpo e gli trovò tre
costole rotte.
- Questo decide della
situazione, - disse. - Mettiamo il campo qui. - E si accamparono là finché le
costole di Buck si rinsaldarono ed egli poté riprendere il viaggio.
Quell'inverno, a Dawson,
Buck compì un'altra impresa, non altrettanto eroica, forse, ma tale da porre il
suo nome di parecchie tacche più sù sul palo della fama in Alaska. Questa
prodezza fu particolarmente utile per i tre uomini perché fornì loro
l'equipaggiamento di cui avevano bisogno; essi poterono così compiere una
spedizione a lungo desiderata nel vergine Est, dove non erano ancora apparsi i
minatori. La cosa nacque da una conversazione nell'Eldorado Saloon, dove i
minatori vantavano i meriti dei loro cani favoriti. Buck, conosciuto come era,
veniva preso di mira da quegli uomini che cercavano di esaltare i loro favoriti,
e Thornton lo difendeva strenuamente. Dopo una mezz'ora, un uomo affermò che il
suo cane poteva smuovere una slitta carica di cinquecento libbre e tirarla; un
secondo vantò seicento libbre per il suo cane; un terzo settecento.
- Poh! - disse John Thornton.
- Buck può smuovere mille libbre.
- E liberarle dal ghiaccio?
E trascinarle per cento iarde? - domandò Matthewson, un re della miniera, lo
stesso che aveva vantato settecento libbre.
- E liberarle, e trascinarle
per cento iarde, - disse freddamente John Thornton.
- Bene, - disse Matthewson
lentamente e decisamente in modo che tutti potessero sentire, - ho mille dollari
che dicono che non ce la fa. Eccoli qui. - E così dicendo gettò sul banco un
sacchetto di polvere d'oro grande come una salsiccia.
Nessuno aprì bocca. Qualcuno
aveva risposto "vedo" al bluff di Thornton, seppure era un bluff. Egli sentì
un'onda di sangue caldo salirgli al volto. La lingua lo aveva tradito: in realtà
non sapeva se Buck poteva muovere mille libbre, mezza tonnellata!
L'enormità della cosa lo
sbigottì. Aveva molta fiducia nella forza di Buck e spesso lo aveva pensato
capace di trascinare un tale carico; ma mai come adesso aveva affrontato questa
possibilità, con gli occhi di una dozzina di uomini fissi su di lui aspettando
in silenzio. Inoltre non aveva mille dollari né li avevano Hans e Pete.
- Ho qui fuori una slitta
che aspetta con venti sacchi di farina da cinquanta libbre, - riprese Matthewson
con rude decisione; - puoi dunque approfittarne.
Thornton non rispose. Non
sapeva che dire e volgeva lo sguardo da faccia a faccia con l'aria assente di
chi ha perduto la facoltà di pensare e cerca in qualche parte qualche cosa che
gli rischiari le idee. La faccia di Jim O'Brien, un altro re della miniera e
antico camerata si presentò al suo sguardo. Fu per lui un suggerimento che parve
spingerlo a quello che mai si sarebbe sognato di fare.
- Puoi prestarmi mille
dollari? - domandò quasi sussurrando.
- Sicuro, - rispose O'Brien
gettando un grosso sacchetto accanto a quello di Matthewson. - Sebbene creda
assai poco, caro John, che il tuo cane possa fare il colpo.
L'Eldorado rovesciò nella
strada i suoi clienti che andavano a vedere la prova. I tavoli rimasero deserti,
e quelli che scommettevano e quelli che tenevano banco uscirono a vedere la
conclusione della sfida e a puntare. Alcune centinaia di uomini impellicciati e
con le mani coperte da mezzi guanti si raccolsero intorno alla slitta
tenendosene un po' discosti. La slitta di Matthewson, carica di mille libbre di
farina, era rimasta ferma per un paio di ore e, nel freddo intenso di oltre
quaranta sotto zero, i pattini avevano fatto blocco, gelando, con la neve
battuta. Si scommetteva a due contro uno che Buck non avrebbe smosso la slitta.
Sorse una discussione sulla parola "liberare":
O'Brien sosteneva che
Thornton doveva avere il diritto di liberare i pattini battendoli e lasciando
poi a Buck di "liberare" la slitta dalla sua immobilità. Matthewson insisteva
che l'espressione significava liberare i pattini dalla gelata morsa della neve.
La maggioranza di coloro che erano stati testimoni della scommessa decise in suo
favore. E allora le scommesse giunsero a tre contro uno a svantaggio di Buck.
Nessuno scommetteva per lui,
nessuno lo credeva capace di tanto.
Thornton era stato
trascinato nella scommessa pieno di dubbi; e adesso che vedeva la slitta
concreta e solida davanti a sé, con il suo regolare tiro di dieci cani
accovacciati nella neve, l'impresa gli sembrò ancora più impossibile. Matthewson
raggiava giubilante.
- Tre contro uno! -
proclamò. - Metto altri mille dollari a tre contro uno. Che ne dici, Thornton?
Thornton aveva il dubbio
impresso sul volto, ma il suo spirito combattivo era stato eccitato: quello
spirito di lotta che aleggia sulle scommesse, non vuol riconoscere
l'impossibile, ed è sordo a tutto eccetto che al richiamo a combattere. Chiamò
Hans e Pete. I loro sacchi erano flosci e i tre soci poterono mettere insieme
solo duecento dollari. In quel momento di magra questa somma era tutto il loro
capitale, tuttavia l'arrischiarono senza esitare contro i seicento dollari di
Matthewson.
I dieci cani furono staccati
e Buck con i propri finimenti fu messo alla slitta. Era stato preso dal contagio
dell'eccitazione e sentiva in qualche modo che doveva compiere qualche cosa di
grande per John Thornton. Davanti al suo splendido aspetto si udirono mormorii
di ammirazione.
Era in perfette condizioni,
senza un briciolo di carne superflua:
le sue centocinquanta libbre
erano altrettante libbre di energia e di fierezza. La sua pelliccia aveva
riflessi di seta. Lungo il collo e sulle spalle la sua criniera, sebbene in
riposo, era a metà sollevata e sembrava ergersi ogni momento come se l'eccesso
del suo vigore rendesse ogni crine vivo e attivo. Il largo petto e le forti
gambe anteriori erano proporzionate al resto del corpo; i muscoli apparivano
sotto la pelle in fasci compatti. Gli uomini palparono quei muscoli e
dichiararono che erano duri come acciaio, le scommesse scesero a due contro uno.
- Signore Iddio, Signore
Iddio! - balbettò un membro della più recente dinastia, un re delle Skookum
Benches. - Vi offro ottocento dollari per lui, signore, prima della prova,
signore; ottocento dollari così com'è.
Thornton scosse il capo e si
avvicinò a Buck. - Devi star lontano da lui, - protestò Matthewson. - Gioco
libero e spazio.
La folla si fece silenziosa;
si potevano udire solo le voci dei giocatori che offrivano invano a due contro
uno. Tutti riconoscevano che Buck era un magnifico animale, ma venti sacchi di
farina da cinquanta libbre apparivano loro troppo pesanti per indurli ad
allentare i cordoni della borsa.
Thornton s'inginocchiò al
fianco di Buck. Gli prese la testa fra le mani e rimase con la gota appoggiata
alla sua. Non lo scosse scherzosamente come era solito, né gli mormorò
affettuose maledizioni; ma gli sussurrò all'orecchio - Se mi vuoi bene, Buck, se
mi vuoi bene! ... - Sussurrava così. Buck diede un guaito di zelo represso.
La folla guardava
curiosamente. La faccenda diveniva misteriosa, sembrava quasi un rito magico.
Quando Thornton si rialzò, Buck gli afferrò fra i denti la mano coperta dal
mezzo guanto, stringendola un po' e lasciandola poi lentamente, quasi a
malincuore. Era la risposta, in termini non di linguaggio ma di amore. Thornton
si trasse risolutamente indietro.
- Sù, Buck, - disse.
Buck tese le tirelle, poi le
allentò per alcuni pollici. Aveva imparato a fare così.
- Va'! - risuonò la voce di
Thornton, tagliente nel silenzio assoluto.
Buck si gettò verso destra
concludendo il movimento con uno slancio che tese le tirelle allentate e
arrestò, con una scossa improvvisa, le sue centocinquanta libbre. Il carico
tremò, e disotto ai pattini si udì un leggero scricchiolio.
- Forza! - comandò Thornton.
Buck ripeté la manovra,
questa volta a sinistra. Lo scricchiolio divenne rumore di ghiaccio frantumato,
la slitta girò un poco su di sé e i pattini scivolarono di fianco per qualche
pollice. La slitta era liberata. Gli uomini trattenevano il respiro senza
accorgersene.
- E adesso, mush!
Il comando di Thornton
scoppiò come un colpo di pistola. Buck si spinse in avanti tendendo le tirelle
con un rude strappo. Tutto il suo corpo era raccolto e compatto nel tremendo
sforzo, i muscoli si torcevano e si annodavano come esseri vivi sotto la
pelliccia di seta. Il suo largo petto toccava quasi la terra, la testa era tesa
in avanti e in basso, le zampe si muovevano impetuose, le unghie scavavano la
neve indurita in lunghi solchi paralleli. La slitta tremò e ondeggiò quasi,
cominciando ad avanzare. Una zampa di Buck scivolò e un uomo diede un alto
gemito. Poi la slitta si mosse avanzando come in una rapida successione di
scosse sebbene in realtà non si arrestasse mai... mezzo pollice... un pollice...
due pollici... Le scosse
diminuirono sensibilmente; via via che la slitta acquistava velocità, Buck le
attenuava, finché il movimento divenne continuo.
Gli uomini trassero il fiato
e ripresero a respirare senza immaginare che per un momento avevano smesso.
Thornton correva dietro la slitta incoraggiando Buck con brevi e gioiose parole.
La distanza era stata già
misurata, e quando la slitta si avvicinò alla catasta di legna che indicava la
fine delle cento iarde cominciò a levarsi un applauso che divenne sempre più
forte e che si trasformò in un'acclamazione quando la slitta superò la catasta e
si fermò al comando. Tutti si abbandonavano all'entusiasmo, perfino Matthewson.
I cappelli e i mezzi guanti volavano nell'aria. Gli uomini si scambiarono
strette di mano senza badare con chi e traboccavano di allegria in una
confusione generale.
Thornton cadde in ginocchio
accanto a Buck; aveva la sua testa contro la testa di lui e lo scuoteva avanti e
indietro. Quelli che erano accorsi lo udirono maledire Buck, e lo maledisse a
lungo, con fervore, dolcemente e amorosamente.
- Signore Iddio, Signore
Iddio! - cincischiò il re di Skookum Benches. - Vi dò mille dollari per lui,
mille dollari, signore...
mille e duecento, signore.
Thornton si alzò in piedi;
aveva gli occhi bagnati e le lacrime scorrevano liberamente lungo le sue gote. -
Signore, - disse al re di Skookum Benches, - no, signore. Potete andare
all'inferno, signore. E' tutto quello che posso fare per voi, signore.
Buck prese fra i denti una
mano di Thornton. Thornton lo scosse avanti e indietro. Come animati da un
comune impulso, gli spettatori si trassero a rispettosa distanza; e non furono
più tanto indiscreti da turbarli.
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