CAPITOLO 12
Enrico Ottavo e Anna Bolena - Svantaggi della coabitazione con una coppia di innamorati - Dura prova per la nazione inglese - Ricerca notturna del pittoresco - Senza famiglia e senza casa - Harris si prepara a morire - Arriva un angelo - Effetto di una gioia improvvisa su Harris - Merenda - La mostarda è carissima - Spaventosa battaglia - Maidenhead - Tre pescatori - Maledetti.
Seduto sulla sponda, riandavo col pensiero a quella scena quando George saltò fuori a dire che lui stava aspettando che avessi finito di fare i miei comodacci nella speranza che poi avrei aiutato a rigovernare. E così, dai tempi gloriosi del passato, mi riportò al presente prosaico e a tutte le sue miserie e i suoi peccati. Scesi nella barca e pulii la padella con un pezzo di legno e un ciuffo d'erba e poi l'asciugai con la camicia umida di George.
Andammo fino all'isola della Magna Charta ed entrammo nel padiglione dov'è la pietra su cui si dice fosse stato firmato il grande documento; sul fatto che effettivamente sia stato firmato lì oppure, come affermano altri, sull'altra sponda, a Runnymede, io rinuncio a pronunciarmi. La mia opinione però è favorevole alla comune credenza dell'isola e se fossi stato io uno dei baroni di quel tempo, avrei insistito al massimo presso i miei colleghi per portare un tipo così sgusciante come re Giovanni sull'isola dove, senza dubbio, vi erano minori possibilità di sorprese e di tranelli.
Non lontano dalla punta dei Pic-nic, nel territorio di Ankerwyke House, vi sono le rovine di un vecchio convento e si dice che appunto in quei paraggi Enrico Ottavo si incontrasse con Anna Bolena. Egli si incontrava con lei anche nel castello di Hever, nel Kent e anche nei pressi di Saint Alban. A quei tempi il popolo inglese deve aver avuto grandi difficoltà per trovare un posto dove quei due giovani spensierati non s'incontrassero.
Vi è mai capitato di abitare in una casa dove c'è una coppia d'innamorati? E' una cosa estenuante. Vi vien voglia di andarvi a sedere nel salotto e vi avviate. Non appena aprite la porta sentite un rumore come se qualcuno si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa e, quando entrate, trovate Emilia che sta ripiegata sulla finestra intentissima a guardare dalla parte opposta della strada e il vostro amico Gianni Eduardo che all'altro estremo della stanza sta rapito nell'ammirazione di ritratti di parenti altrui.
- Oh! - dite voi arrestandovi sull'uscio, - non sapevo che ci fosse gente.
- Davvero? - dice Emilia con tono glaciale facendovi capire chiaramente che non vi crede.
Voi gironzolate un poco poi dite:
- E' molto scuro. Perché non accendiamo la lampada a gas?
Gianni Eduardo dice: - Oh! - lui non ci aveva fatto caso; ed Emilia dice che il papà non vuole che si accenda il gas nel pomeriggio.
Voi date un paio di notizie ed esprimete la vostra opinione circa la questione irlandese, ma essi non sembrano interessarsi di queste cose e tutte le loro osservazioni al riguardo sono: "Oh!" "Davvero?" "Proprio così?" "Sì" e "Non dica!". E dopo dieci minuti di una conversazione in questo stile voi infilate la porta e ve ne andate meravigliandovi che l'uscio sbatta immediatamente dietro di voi e si chiuda senza che l'abbiate toccato.
Un'ora e mezzo dopo vi sentite in vena di andarvi a fare una fumatina di pipa nella serra. Lì c'è una sola sedia e su di essa c'è seduta Emilia mentre Gianni Eduardo, se si deve aver fiducia nel linguaggio dei vestiti, evidentemente era stato seduto per terra. I due non parlano ma vi lanciano uno sguardo che dice tutto quello che può essere detto tra persone civili, e a voi non rimane che battere in ritirata e chiudervi la porta alle spalle.
Ormai non avete più il coraggio di azzardarvi a guardare in nessuna stanza e perciò quando vi siete stancati di andare su e giù per le scale vi riducete a tornare nella vostra camera da letto. Ben presto vi annoiate, è logico, ed allora vi mettete il cappello in testa e scendete in giardino. Ma, anche lì, mentre passeggiando nel vialetto passate dinanzi al tempietto di frasche, scorgete quei due cretinetti rintanati in un angolino; vi vedono e naturalmente si convincono che voi avete la malvagia ostinazione di seguirli dappertutto.
- Io domando perché mai nelle pensioni non destinino una stanza all'uso esclusivo degli innamorati, con l'obbligo di non invadere gli altri locali, - mormorai tra me, poi tornai in anticamera, presi l'ombrello e me ne uscii.
Qualcosa di molto simile dev'essere avvenuto quando quel ragazzaccio di Enrico Ottavo corteggiava la piccola Anna. La gente del Buchkinghamshire se li trovava improvvisamente fra i piedi nei paraggi di Windsor e di Wraysbur ed esclamava: "Oh! siete qui!".
Ed Enrico arrossiva e diceva: "Sì, ero appena arrivato per cercarvi un amico," e Anna soggiungeva: "Oh! lieta di vedervi! Che combinazione! Ho incontrato proprio adesso il signor Enrico Ottavo sul viottolo e siccome facevamo la stessa strada...".
Allora quella gente si allontanava dicendo tra sé: - Meglio tagliar la corda. Andiamocene a Kent.
Andavano a Kent e la prima cosa che vedevano a Kent, quando arrivavano, era Enrico ed Anna che giravano imbambolati presso il castello di Hever.
- Ma che razza di roba! - dicevano. - Via, via anche di qui. Ormai questo è insopportabile. Andiamocene a Saint Alban, quello per lo meno è un posticino tranquillo.
E arrivati a Saint Alban, eccoti la maledetta coppia che passeggia sotto le mura dell'Abbazia. E allora quella povera gente andava a fare il pirata fino al giorno del matrimonio.
Il tratto del fiume tra la punta dei Pic-nic e la chiusa di Old Windsor è molto attraente. Parallelamente alla sponda corre un viale ombroso punteggiato qua e là da eleganti villette e si arriva ad una locanda chiamata "Le campagne di Anseley", molto invitante, come del resto lo sono la maggior parte delle locande su pel fiume; è una locanda dove si può bere un buon bicchiere di birra. Così ci assicurò Harris e noi sappiamo che in materia si può credere alla parola di Harris. Edoardo il Confessore si costruì qui un palazzo e fu qui che il conte Godwin venne accusato dai giudici di allora di aver complottato per la morte del fratello del re. Il conte Godwin spezzò un pane e lo mostrò tenendolo fra le dita.
- Se sono colpevole, - disse il conte, - che mi strozzi mangiando questo pane!
Si mise il pane in bocca, l'inghiottì, si strozzò e morì.
Dopo Old Windsor il fiume diventa alquanto scialbo e non ritorna al suo aspetto interessante se non nelle vicinanze di Boveney. Io e George rimorchiammo fino oltre il Home Park che si stende lungo la riva destra dal ponte Albert al ponte Vittoria e, nel passare dinanzi a Datchet, George mi domandò se mi ricordavo ancora del nostro primo viaggio sul fiume e di quella volta che sbarcammo a Datchet alle dieci di sera morti di sonno e volevamo cercare un letto Gli risposi che me ne ricordavo benissimo ed infatti ce ne vorrà del tempo prima che me ne dimentichi.
Era il sabato precedente le ferie di ferragosto. Noi, gli stessi tre, eravamo stanchi e affamati, e arrivati a Datchet tirammo fuori la cesta, i due sacchi da viaggio, le coperte, i cappotti ed altre cosettine e partimmo per scovare una locanda. Passammo dinanzi a un grazioso alberghetto con il portico adorno di pini e di rampicanti, ma senza caprifoglio e io, chissà mai perché, mi ero fissato col caprifoglio, perciò dissi:
- Qui no! andiamo un po' più avanti e vediamo se ne troviamo uno con il caprifoglio.
Continuammo la strada ed arrivammo a un altro albergo. Anche questo era grazioso e aveva pure il caprifoglio tutt'intorno, ma alla porta d'entrata c'era appoggiato un uomo il cui aspetto non piacque a Harris. Disse che quello non aveva un viso cordiale e, inoltre, calzava un paio di brutti stivali; e continuammo la nostra ricerca. Facemmo un bel pezzo di cammino ma non trovammo altri alberghi; poi ci imbattemmo in un uomo e gli chiedemmo informazioni.
Lui disse:
- Ma voi li avete oltrepassati, gli alberghi. Fate dietro front e ritornate sui vostri passi: incontrerete "Il Cervo".
Noi dicemmo:
- Ci siamo stati ma non ci è piaciuto... non è ricoperto di caprifoglio.
- Be'! - disse lui, - proprio dirimpetto c'è "Il Castello". Avete chiesto lì?
Harris rispose che lì non ci volevamo andare, che non ci piaceva l'aspetto dell'uomo sulla porta, che Harris aborriva il colore dei suoi capelli e, inoltre, non gli piacevano i suoi stivali.
- Be'! allora non so proprio come ve la caverete, - disse il nostro informatore, - perché qui ci sono questi due alberghi soltanto.
sun'altra locanda? - esclamò Harris.
- Nessuna, - rispose l'uomo.
- E allora come ci arrangiamo? - gridò Harris.
George interloquì e disse che io e Harris, se proprio ci faceva piacere, dovevamo farci costruire un albergo apposta per noi e farci costruire anche la gente da metterci dentro. Lui, intanto, sarebbe tornato al "Cervo".
Non c'è verso che i grandi ingegni riescano a realizzare i loro ideali e perciò io e Harris, di fronte alla vanità dei desideri terreni, emettemmo un sospiro di rassegnazione e seguimmo George.
Portammo tutte le nostre trappole al "Cervo" e le disponemmo per terra nella portineria.
L'oste arrivò e disse:
- Buona sera, signori.
- Oh, buona sera, - rispose George, - vorremmo tre letti, per favore.
- Spiacentissimo, signori, - disse lui, - ma non vi posso accontentare.
- Senta, - disse George, - basteranno due. Due di noi dormiranno in un letto, non è vero? - incalzò guardando me ed Harris.
Harris disse: - Oh, sì, - ed egli subito pensò che io e George avremmo dormito benissimo in un letto solo.
- Spiacentissimo, signori, - ripeté nuovamente l'oste, - vi assicuro che non c'è rimasto un letto vuoto in tutto l'albergo.
Credete, abbiamo già messo due o tre persone per letto.
Questa spiegazione ci fece rimanere un po' male, ma Harris, che è un viaggiatore consumato, subito dimostrò la sua competenza e con un tono mellifluo disse:
- Be', che fare? Ci vorrà pazienza e ci adatteremo. Ci dia pure un letto smontabile nella sala da bigliardo.
- Spiacentissimo, signori. Ci son già tre clienti che dormono sul bigliardo e due nel bar. Per questa notte mi è impossibile accomodarvi.
Raccogliemmo le nostre robe e ce ne andammo al "Castello". Era un posticino grazioso. Mi parve che mi piacesse più dell'altro e lo dissi; Harris approvò e disse che andava benissimo e che non eravamo obbligati a guardare l'uomo dai capelli rossi; lui, peraltro, non aveva colpa di avere i capelli rossi.
Harris parlò di questo con gentilezza e comprensione.
Al "Castello" non ci fecero neanche parlare. Sulla soglia, a mo' di saluto, la signora ci disse che noi eravamo la quattordicesima comitiva che aveva dovuto rimandare indietro in un'ora e mezzo. In quanto poi al nostro timido suggerimento di accomodarci sul bigliardo o nello scantinato del carbone, essa ne rise con commiserazione. Ogni cantuccio era stato invaso da tempo.
Le domandammo se conoscesse qualche posto in tutto il paese dove avremmo potuto trovare ricovero per quella notte.
- Be'! - disse lei, - se non avessimo fatto troppo caso (ma, badassimo bene, lei non la raccomandava) c'era una piccola birreria a mezzo miglio di lì, sulla strada di Eten.
Non ce lo facemmo dir due volte, agguantammo cesta, sacchi, pastrani e le coperte nonché tutti i pacchettini e partimmo di corsa. La distanza parve esser più vicina al miglio che al mezzo miglio ma alla fine arrivammo nel bar col fiatone.
Quella gente della birreria era molto rozza. Ci risero in faccia.
In tutta la casa non c'erano che tre letti e ci dormivano sette scapoli e due coppie di sposi. Per fortuna un cortese barcaiolo che si trovava per caso in quella bettola suggerì di tentare dal droghiere, la porta dopo il "Cervo", e così tornammo indietro.
Il droghiere era al completo, ma una vecchierella che si trovava nel negozio ci portò gentilmente con lei da una sua amica che eccezionalmente offriva camere a un quarto di miglia di distanza.
Quella vecchietta camminava molto piano e per arrivare alla casa della sua amica ci impiegammo venti minuti, però, mentre si strisciava, essa ci tenne alto il morale descrivendoci i vari dolori che aveva alla schiena.
Le camere della sua amica erano affittate. Di lì ci raccomandarono al numero 27. Il 27 era pieno e ci mandò al 32 e il 32 era pieno.
E allora ritornammo sulla strada principale dove Harris si sedette sulla cesta e disse che di lì non si sarebbe più mosso. Affermò che quello gli sembrava essere un luogo tranquillo e che gli sarebbe piaciuto morire in quel posto. Pregò me e George di dare un bacio a sua madre per lui e di dire a tutti i suoi parenti che inviava loro il suo perdono e che moriva felice.
In quel momento arrivò un angelo travestito da monello (e, in fede mia, non potrei trovare un travestimento più affascinante per un angelo) che portava una tazza di birra in una mano e nell'altra uno spago alla cui estremità c'era qualche cosa che lui faceva battere contro tutte le pietre piatte che incontrava e poi tirava su producendo un suono particolarmente fastidioso, che suggeriva sofferenza.
A quel messaggero celeste (come poi scoprimmo che egli era) domandammo se conoscesse una casa isolata i cui abitanti fossero pochi e deboli (da preferirsi vecchie signore e paralitici), che fossero suscettibili a spaventarsi facilmente, fino a cedere i loro letti a tre disperati; ovvero, se non proprio questo, se ci potesse indicare un posto dove ci fosse qualche vecchia fornace in disuso o qualcosa del genere. Egli non sapeva di nessun luogo del genere - per lo meno a disposizione - e disse che se andavamo con lui, sua madre aveva una stanza in più e potevamo passare la notte da lei.
Sotto la luce della luna gli saltammo al collo e lo sotterrammo di benedizioni e la scena sarebbe stata bellissima se il ragazzo non fosse rimasto impressionato dalle nostre effusioni fino al punto di non reggersi più in piedi e cadere al suolo trascinandoci tutti nel capitombolo. Harris fu talmente sopraffatto dalla gioia che svenne e dovette afferrare la tazza di birra del ragazzo e vuotarla a metà per riprendere conoscenza; poi si mise a correre e io e George dovemmo portare tutti i bagagli.
Quello dove abitava il ragazzino era un villino di quattro stanze e la sua mamma - anima benedetta - ci preparò una cena a base di lardo caldo, che noi consumammo interamente (cinque libbre) e di crostata, e due teiere piene di tè; poi ce ne andammo a dormire.
Nella stanza c'erano due letti; uno a rotelle largo ottanta centimetri nel quale dormimmo io e George, e per starci dentro dovemmo legarci con un lenzuolo; l'altro era il letto del ragazzino e Harris lo ebbe tutto per sé. Al mattino seguente lo trovammo con sessanta centimetri di gambe nude che uscivano dal fondo ed io e George ce ne servimmo per appendervi gli asciugamani mentre ci lavavamo.
Se avessimo dovuto ritornare un'altra volta a Datchet sapevamo di non dover avere molte pretese in fatto di alberghi.
Ma ritorniamo alla presente escursione. Non accadde nulla di straordinario e rimorchiammo normalmente la barca fino a un punto un po' a valle dell'isola di Monkey dove la legammo e facemmo merenda. Demmo l'assalto alla carne fredda e ci accorgemmo di esserci dimenticati di portare la mostarda. In tutta la mia vita vissuta fino a quel momento e da quel momento in poi non ricordo di aver mai desiderato la mostarda così spasmodicamente. In generale non faccio nessun tifo per la mostarda e la uso molto raramente, ma in quel momento, però, per averla avrei regalato tutto l'oro del mondo.
Non so quanto oro vi sia nell'universo, ma se uno mi avesse portato un cucchiaio di mostarda avrebbe potuto averlo tutto.
Quando desidero una cosa e non posso averla divento sconsideratamente spendaccione.
Anche Harris affermò che avrebbe dato tesori per un po' di mostarda; insomma chiunque si fosse presentato con una lattina di mostarda avrebbe fatto affaroni; sarebbe stato rifornito di oro per il resto della sua vita.
Oso dire, peraltro, che sia Harris che io dopo di aver avuto la mostarda avremmo certamente cercato di mandare a monte il contratto. In momenti di orgasmo uno arriva a fare offerte così stravaganti, ma poi, quando ci può ripensare, si accorge dell'assoluta sproporzione tra l'offerta e il valore dell'articolo richiesto. Una volta, scalando una montagna della Svizzera sentii dire ad un uomo che avrebbe dato tutto l'oro della terra per una tazza di birra; poi, quando arrivò al piccolo rifugio dove la poté ottenere, fece un vero pandemonio perché gli chiesero cinque franchi per una bottiglia. Disse che era un ricatto scandaloso e lo scrisse al Times.
La mancanza della mostarda gettò un'ombra di tristezza sulla barca. La vita stessa ci parve vuota e senza interesse.
Cominciammo a riandare al tempo della nostra fanciullezza e sospirammo. Per fortuna, quando attaccammo la crostata di mele ci sentimmo un po' più sollevati e quando poi George tirò fuori dal fondo del cesto una lattina di ananasso e la fece rotolare nel bel mezzo della barca, ricominciammo a credere che la vita, dopo tutto, valeva la pena di essere vissuta.
L'ananasso piace molto a tutti e tre noi. Guardammo l'etichetta sulla lattina e pensammo al succo. Ci scambiammo un sorriso ed Harris si preparò col cucchiaio.
Poi ci mettemmo a cercare l'apriscatole per aprire la latta.
Rivoltammo sottosopra tutto quello che c'era nel cesto e tutto quello che c'era nei bagagli. Alzammo il pagliolato dal fondo della barca. Portammo tutto in terra e lo scuotemmo. Ma l'oggetto non venne fuori.
Allora Harris tentò di aprire la lattina col suo temperino; ne ruppe la lama e si fece un brutto taglio; George tentò con un paio di forbici, le forbici gli saltarono di mano e poco mancò che non gli cavassero un occhio. Mentre loro si fasciavano le ferite io cercai di fare un buco in quell'accidente servendomi della punta aguzza del gancio d'accosto, ma quest'ultimo scivolò e mi sbatté tra la barca e la riva, in sessanta centimetri di acqua fangosa; la lattina, intatta, ruzzolò e ruppe una tazza da tè.
Naturalmente ci infuriammo tutti e tre, la portammo terra ed Harris andò in un campo a prendere una gran pietra appuntita; io ritornai nella barca e ne venni fuori con l'albero. George manteneva la latta, Harris, vi teneva contro la punta tagliente del sasso ed io alzai il palo in alto nell'aria, riunii tutte le mie forze e colpii.
Quel giorno George ebbe salva la vita grazie al suo cappello di paglia. Egli conserva ancora quella paglietta (cioè quanto ne rimase) e, nelle serate di inverno, quando si accendono le pipe e si raccontano passaggi drammatici dei pericoli passati, George la porta giù e la esibisce e l'emozionante racconto è nuovamente narrato con sempre un piccolo aumento di esagerazione.
Harris se la cavò con una ferita superficiale.
Dopo di che afferrai io stesso la lattina e la martellai col palo fino a non aver più né forze né animo; e fu la volta di Harris che la prese in mano per reggerla.
La battemmo fino a schiacciarla; poi la riducemmo quadra e così di seguito in tutte le sagome geometriche conosciute - ma non fummo capaci di farci un buco. Allora George si avventò su di essa e la ridusse ad una forma così strana, così soprannaturale, così paurosa nella sua ripugnanza che lui stesso si spaventò e gettò via il palo dell'albero. Poi ci sedemmo tutti e tre sul prato intorno alla latta e rimanemmo a fissarla.
Sulla parte superiore si era formato una specie di bozzo che aveva l'aspetto di una smorfia beffarda e che ci fece andar fuori dei gangheri, sicché Harris si scagliò sulla latta, la prese e la gettò lontano in mezzo al fiume e mentre essa affondava noi le gridammo dietro tutte le nostre maledizioni e tornammo subito alla barca per rimetterci a remare e fuggire da quel posto. Non ci fermammo più fino a Maidenhead.
Maidenhead è troppo alla moda per essere un luogo piacevole. E' il ritrovo dei gagà del fiume e delle loro amichette vestite sfarzosamente alla gran moda. E' la città degli alberghi vistosi, preferiti specialmente dai bellimbusti e dalle ballerinette. E' il forno maledetto che vomita quei demoni del fiume che sono le lance a vapore. L'aristocratico protagonista dei romanzi per signorine non può fare a meno di possedere il suo "angolino" a Maidenhead ed è lì che cena con l'eroina del romanzo in tre volumi.
Attraversammo Maidenhead alla svelta, poi rallentammo e percorremmo lentamente quel grande tratto oltre le chiuse di Boulter e di Cookham. I boschi di Clieveden vestivano ancora i loro delicati colori primaverili e si alzavano dai margini dell'acqua in lunga armoniosa combinazione di onde soffuse di verde malìa. Questo, forse, grazie alla sua ininterrotta dolcezza, è il tratto più soave del fiume e noi allontanammo la barca dalla sua profonda pace con vero rammarico.
Subito a valle di Cookham ci fermammo in un piccolo bacino laterale e prendemmo il tè; e quando finimmo di attraversare la chiusa era già sera. Si era levata una brezza rigida che soffiava a nostro favore - un vero miracolo; in generale quando si è sul fiume il vento è sempre decisamente contrario, non importa in che direzione andiate. E' contrario al mattino quando iniziate la giornata di viaggio, ed allora voi tirate e tirate a lungo pensando che al ritorno potrete veleggiare con enorme facilità.
Poi, dopo l'ora del tè, il vento gira e voi dovete tirare coi denti per rientrare.
Però, se avete completamente dimenticato di portare una vela, ecco che il vento rimane costantemente a vostro favore, sia all'andata che al ritorno. E' così!
Questo mondo non è che una dura prova e l'uomo è creato per soffrire, come le faville furono fatte per volare al cielo.
Quella sera però, evidentemente, ci era stato un errore che aveva messo il vento sulla nostra poppa invece che contro la prora. Noi non protestammo e spiegammo la vela in tutta fretta, prima che se ne accorgessero, e ci stendemmo nella barca assorti nei nostri pensieri mentre la vela si gonfiava, si agitava, brontolava contro l'albero maestro e la barca filava.
Io governavo.
Non conosco sensazione più emozionante dell'andare a vela. E' una cosa che s'avvicina al volo, più d'ogni altra che l'uomo sia riuscito a fare sinora, salvo che in sogno. Le ali del vento impetuoso sembrano sorreggervi e portarvi avanti, non si sa dove.
Non si è più il minuscolo pezzo di argilla, lento e appesantito, che striscia tortuosamente sulla terra; si fa parte della Natura!
Si ha il proprio cuore che batte contro il suo. Vi circondano le sue braccia magnifiche, innalzandovi fino al suo cuore! Il vostro spirito è all'unisono col suo; le vostre membra si fanno leggere!
Le voci dell'aria cantano per voi. La terra sembra lontanissima e piccola; e le nuvole così vicine sopra la vostra testa sono fraterne e ad esse stendete le braccia.
Il fiume era tutto per noi, tranne, in distanza, un sandaletto da pesca, che si scorgeva ormeggiato nel filone della corrente e sul quale stavano tre pescatori. Noi filavamo sfiorando l'acqua, lungo le rive boscose, e nessuno parlava.
Ed io governavo.
Nel giungere più vicini, si vide che i tre intenti a pescare avevano l'aspetto di tre vecchi dall'aria solenne. Sedevano nel sandaletto su tre seggiolini, concentrati nell'osservazione delle loro lenze. E il rosso tramonto gettava sulle acque una luce mistica, tingeva d'un colore di fuoco le alte piante del bosco e trasformava in uno splendore di oro i cumuli delle nubi. Era un'ora di profonda magia, di speranza estatica, di nostalgia. La piccola vela si stagliava sul cielo purpureo, il calar della sera si stendeva intorno a noi avviluppando il mondo in ombre iridate e, dietro a noi, avanzava furtiva la notte.
Eravamo come i cavalieri di un'antica leggenda, facenti vela attraverso un lago mistico per penetrare nel regno sconosciuto del crepuscolo fino al grande paese del tramonto.
Non penetrammo nel regno del crepuscolo; andammo a sbattere in quel sandaletto, nel quale tre vecchi stavano pescando. Al primo momento non ci accorgemmo di quello che era successo perché la vela ci nascondeva la vista ma, dalla specie di linguaggio che si innalzava nell'aere serotino, percepimmo che eravamo arrivati nelle vicinanze di esseri umani, e che questi erano indignati e per niente lieti della visita.
Harris ammainò la vela e così potemmo vedere quello che era successo. Avevamo scaraventato dalle sedie quei tre signori che ora formavano un ammasso nel fondo dell'imbarcazione e a fatica e penosamente si districavano, e si staccavano i pesci dalle vesti, e nel far tutto ciò mandavano le loro maledizioni, ma non con la solita maniera usuale di maledire, sebbene con espressioni diligentemente pensate, maledizioni comprensive che includevano tutta la nostra vita e arrivavano fino al lontano futuro; che associavano i nostri parenti, e si estendevano a tutti e a tutto ciò che avesse relazioni con noi - insomma accidenti buoni, sostanziosi.
Harris disse loro che invece avrebbero dovuto esserci grati perché avevamo procurato un po' di eccitazione, a loro che stavan lì fermi tutta la giornata, e disse anche che si sentiva sorpreso e mortificato a vedere uomini di quell'età perdere il controllo a quel modo. Ma non servì a nulla.
Dopo di ciò George disse che avrebbe governato lui. Disse che da una testa come la mia non ci si può aspettare che sappia dirigere una barca e che era preferibile fidarsi di un uomo qualunque al timone piuttosto che affogare. Così prese lui il timone e ci portò fino a Marlow.
A Marlow lasciammo la barca presso il ponte e ce ne andammo a pernottare alla locanda della "Corona".
CAPITOLO 13
Marlow - L'Abbazia di Bisham - I monaci di Medmenham - Montmorency decide di uccidere un gatto - Poi, dati gli eventi, decide di lasciarlo vivere - Vergognosa condotta di un fox-terrier nei magazzini della cooperativa - La nostra partenza da Marlow - Processione imponente - La lancia a vapore - Ricette utili per darle fastidio e procurarle difficoltà - Ci rifiutiamo di bere il fiume - Strana scomparsa di Harris e di un polpettone di carne.
Marlow è uno dei centri abitati più simpatici che io conosca sul fiume. Nell'insieme non è che sia troppo pittoresco, ma dà l'idea di una città attiva, piena di vita e vi si possono scoprire molti posti ed angolini. I sostegni del ponte diroccato sono ancora in piedi ed eccitano la fantasia e la fanno riandare indietro, ai tempi in cui il castello di Marlow aveva per padrone Algar il Sassone, prima che Guglielmo il Conquistatore se ne appropriasse per offrirlo alla regina Matilde e prima che passasse ai conti di Warwick o a quell'uomo di mondo che fu Lord Paget, consigliere di quattro sovrani successivi.
Nel caso che dopo aver vogato voleste fare una passeggiata, vi troverete nei dintorni una bella campagna, ma è il fiume che vi presenta uno dei suoi tratti migliori. Andando verso Cookham, dopo i prati e la foresta di Quarry c'è una vista molto attraente.
Cari, vecchi boschi di Quarry con i vostri erti e stretti sentieri, con i vostri vialetti tortuosi, come sembrate ancora adesso profumati dal ricordo di giorni solatii d'estate! come sono popolate di rimembranze di visi contenti le vostre fughe di alberi, come dalle vostre lussureggianti foglie scendono lentamente le voci del tempo che fu!
Da Marlow a Sonning il fiume si fa sempre più vago. Mezzo miglio dopo il ponte di Marlow sulla riva destra si vede la grande e vecchia Abbazia di Bisham, dove la pietra dei muri risuonò delle grida dei Templari, e che, una volta ospitò Anna di Clèves e un'altra la regina Elisabetta. L'abbazia abbonda di cimeli melodrammatici. V'è in essa una camera da letto tutta ricoperta di arazzi ed una stanza segreta ricavata nello spessore del più alto muro. Di notte vi si aggira ancora il fantasma di Lady Holy che percosse a morte il proprio figlioletto ed ora cerca di lavarsi le mani spettrali in una spettrale bacinella.
Qui riposa Warwick, "il facitore di re", incurante ormai di bazzecole quali i re e i regni di questa terra; e Salisbury, che si distinse in campo a Poitiers. Poco prima di raggiungere l'abbazia si trova, proprio sulla sponda del fiume, la chiesa di Bisham e se mai tombe valgano forse la pena d'essere visitate sono i sepolcri e i monumenti di questa chiesa. Appunto facendosi portare dalla sua imbarcazione lungo le rive di Bisham, Shelley, che allora abitava a Marlow (se ne vede ancora la casa, in West Street), compose "La rivolta dell'Islam".
Un po' più a monte c'è la chiusa di Hurley e ho pensato spesso che anche se ci rimanessi un mese non potrei osservare tutta la bellezza del panorama. Il villaggio di Hurley sta a pochi minuti di cammino dalla chiusa ed è un abitato vecchio quant'altri mai sul fiume, poiché risale, per dirla con la fraseologia di quei tempi oscuri, "ai tempi del re Sebert e del re Offa". Subito dopo la chiusa (sempre a monte) c'è il Campo dei Danesi, dove i Danesi una volta bivaccarono durante la loro marcia sul Gloucestershire, e ancora un poco più in su ci sono i resti dell'Abbazia di Medmenham, annidati in un soave gomito del fiume.
I famosi monaci di Medmenham, comunemente chiamati "il circolo del fuoco infernale", e dei quali faceva parte il famigerato Wilkes, costituivano una confraternita che aveva per motto "Fai quel che ti pare" e lo si legge ancora sui ruderi dell'arco d'ingresso.
Molti anni prima che fosse fondata quest'abbazia fittizia, con la sua congregazione di burloni irriverenti, sulla stessa area sorgeva un monastero di tipo più austero, con monaci d'un genere alquanto diverso dai buontemponi che ne avrebbero preso il seguito, un cinquecento anni dopo.
Erano cistercensi, i monaci dell'abbazia che ivi sorgeva nel tredicesimo secolo, e non indossavano altri indumenti che il ruvido saio del cappuccio, non mangiavano né carne, né pesce, né uova. Dormivano sulla paglia e a mezzanotte si alzavano per la messa. Trascorrevano il giorno nel lavoro manuale, nella lettura e nella preghiera, e su tutte le loro vite incombeva un silenzio di morte, perché non parlava nessuno.
Una confraternita tetra, che conduceva vita tetra in questo cantuccio delizioso, creato dal Signore così allegro! Strano che le voci della natura, tutt'intorno, il canto sommesso delle acque, i sussurri delle erbe del fiume, la musica del vento impetuoso, non insegnassero loro un significato della vita più vero di quello. Essi stavano lì tendendo l'orecchio in silenzio, quant'era lungo il giorno, nell'attesa di udire una voce celeste; ed essa, quant'era lungo il giorno, parlava invece di una miriade di suoni, senza che l'udissero.
Da Medmenham alla bella chiusa di Hambledon, il fiume scorre leggiadro, in pace, ma, subito dopo Graenlands, la residenza fluviale piuttosto scialba del mio editore (un vecchietto tranquillo e senza prosopopea, che si incontra spesso da queste parti durante i mesi estivi quando se ne va remando con stile sciolto e vigoroso, o mentre chiacchiera di buon umore con qualche vecchio guardiano della chiusa che attraversa) il Tamigi si fa piuttosto nudo e monotono fino a un bel pezzo a monte di Henley.
Il lunedì mattina a Marlow, ci alzammo abbastanza presto e prima di colazione andammo a fare un bagno: al ritorno Montmorency trovò modo di fare una gran figuraccia. L'unico argomento su cui Montmorency ed io abbiamo opinioni sostanzialmente diverse sono i gatti. Io amo i gatti, Montmorency no. Quando io vedo un gatto dico: "Povero micino!" e mi chino a fargli il solletico tra testa e collo; il gatto drizza la coda come un pezzo di rigido ferro battuto, inarca la schiena e si asciuga il naso contro i miei calzoni; tutto procede con tenerezza e pace. Quando Montmorency incontra un gatto la strada intera deve saperlo, e in dieci secondi, di parolacce se ne sprecano tante che, se usate con giudizio, potrebbero bastare per tutta la vita di una persona rispettabile.
Non biasimo il cane (in generale mi accontento di prenderlo a scapaccioni o a sassate), poiché comprendo che è la sua natura che lo fa agire così. I fox-terrier nascono con un peccato originale quattro volte maggiore di quello degli altri cani e per ottenere mutamenti tangibili nei loro istinti di autentici teppisti ci vorranno molti e molti anni di sforzi pazienti da parte di noi cristiani.
Ricordo che un giorno mi trovavo nell'atrio degli Haymarket Stores e tutt'intorno a me c'erano i cani che attendevano il ritorno dei padroni che stavano a far compere nell'interno. C'erano: un mastino, un paio di cani da pastore un San Bernardo, alcuni cani da caccia, un Terranova, un barbone francese con uno zazzerone sulla testa ma col corpo rognoso, un bulldog, alcuni animaletti fatti ad arco, quasi piccoli come topi, e una coppia di bastardi dello Yorkshire.
Tutti quei cani se ne stavano accovacciati, pazienti, buoni e pensierosi. In tutto l'atrio regnava una pace solenne. Il luogo era pervaso da un'atmosfera di calma e di rassegnazione, da una soave tristezza.
Ed ecco che entra una graziosa signorina conducendo un piccolo fox-terrier dall'aspetto più angelico che si possa immaginare e lo lascia lì assicurato col guinzaglio tra il bulldog e il can barbone. Egli si sedette sulle posteriori e per un minuto stette a guardarsi intorno. Poi fissò gli occhi al soffitto e a giudicare dall'espressione pensava a sua madre. Poi sbadigliò. Poi, in silenzio, solennemente e pieno di dignità, guardò gli altri cani.
Osservò il bulldog che stava alla sua destra e dormiva d'un placido sonno senza sogni. Poi osservò il barbone che gli stava alla sinistra dritto ed altero, poi, senza aver detto una parola di preavviso, senza che ci fosse stata l'ombra della provocazione, dette un morso alla gamba sinistra del barbone che gli stava vicino ed un guaito di dolore risonò attraverso la silente penombra della sala.
Il risultato di questa prima esperienza gli sembrò molto soddisfacente e quindi decise di continuare a movimentare l'ambiente con le sue diavolerie. Spiccò un salto al di sopra del barbone e assalì vigorosamente un cane da pastore il quale si svegliò e cominciò immediatamente una zuffa poderosa e rumorosa col barbone. Il fox-terrier se ne ritornò al suo posto ed azzannò l'orecchio del bulldog cercando di scagliarlo lontano: e il bulldog, animato da una strana imparzialità, si scagliò contro tutto quello che era alla sua portata, ivi incluso il portiere; questa manovra dette al fox-terrier l'opportunità di godersi tutto da solo ed indisturbato una zuffa con un Yorkshire ugualmente ben disposto alla battaglia.
A coloro che conoscono la natura canina non occorrerà dire che ormai, tutti i cani presenti si azzuffavano come se stessero difendendo le loro case ed i loro focolari. I cani grossi si azzuffavano l'un l'altro senza discriminazione e i cani piccolini se la vedevano tra di loro e nei momenti liberi mordevano le gambe dei cani grossi.
L'atrio era diventato un vero pandemonio, ed il fracasso era terrificante. Fuori in strada, la gente si andava affollando e si chiedeva se si trattasse di un'adunanza parrocchiale o se stessero assassinando qualcuno o che altro. Arrivarono degli uomini armati di bastoni e di corde per separare i cani e chiamarono la polizia.
In mezzo a tutta quell'ira di Dio ritornò la graziosa signorina e afferrò l'angelica bestiolina (questa sembrava ora un agnellino appena nato eppure aveva sistemato il barbone per un mese), se la mise in braccio, la baciò e le chiese se non l'avessero uccisa e che cosa le avevano fatto quei cagnacci brutti e sporchi; e il fox-terrier si annidò sul suo seno, la fìssò con uno sguardo che pareva dicesse: "Oh, come sono contento che tu sia ritornata per portarmi via da questa scena degradante".
La signorina affermò che la gente quando va a far la spesa non ha il diritto di portarsi dietro delle bestie feroci e metterle assieme con i cani di persone distinte, e che lei aveva proprio intenzione di querelare qualcuno.
I fox-terriers sono fatti così e quindi non posso biasimare Montmorency per le sue tendenze a perseguitare i gatti; ma quella mattina egli deve aver pensato che sarebbe stato meglio se avesse fatto tacere i suoi istinti.
Come stavo dicendo, noi tornavamo dal bagno e a metà della High Street, un gatto spuntò da una casa dinanzi a noi e cominciò a trotterellare per attraversare la strada.
Montmorency emise un grido di gioia - il grido del fiero combattente che vede arrivar a tiro il nemico, forse quella specie di grido che lanciò Cromwell quando vide che gli scozzesi scendevano dalla collina - e si lanciò dietro la preda.
La vittima era un gattone nero, maschio, grandissimo. Mai visto un gatto così grande né un gatto di più sinistro aspetto. Non aveva che mezza coda, un occhio solo ed un pezzo abbastanza notevole di naso. Era un animale lungo, nodoso e con l'aria tranquilla e sicura di sé.
Montmorency si scagliò verso quel povero gatto alla media di venti miglia all'ora; ma il gatto non si scompose, sembrava che non avesse afferrato l'idea che la sua vita era in pericolo. Continuò il suo trotto regolare fino a che l'assassino non gli arrivò a mezzo metro di distanza; poi si rigirò, si sedette in mezzo alla strada e guardò Montmorency con un'espressione di cortese interrogazione che voleva dire:
- Cercate me?
Montmorency non manca di coraggio ma nello sguardo di quel gatto c'era qualcosa che avrebbe gelato il cuore del cane più temerario.
Egli si fermò di colpo e rimase a fissare il gattone.
Nessuno dei due parlò ma la conversazione che si poté facilmente immaginare fu la seguente:
IL GATTO: In che vi posso servire?
MONTMORENCY: Oh, no ! Grazie... nulla.
IL GATTO: Oh, non fate cerimonie, se proprio cercate qualcosa, dite pure.
MONTMORENCY (retrocedendo per la High Street): Oh, nulla, nulla davvero... prego... non vi scomodate. Scusate il disturbo.
IL GATTO: Ma quale disturbo, sarebbe un piacere. Siete certo che non cercate nulla, ora?
MONTMORENCY (rinculando sempre): Proprio nulla, grazie, molto... molto gentile da parte vostra. Arrivederci.
IL GATTO: Buon giorno.
Poi il gatto si alzò e riprese la sua trottatina mentre Montmorency, adattando accuratamente quella che lui chiama la sua coda nella naturale scanalatura, tornò verso di noi e si mise alla retroguardia in atteggiamento abbastanza mortificato.
Ancora oggi, se voi dite la parola "gatto" Montmorency si raggomitola tutto e vi guarda con occhi imploranti che par che dicano: - Per favore... non ne parliamo.
Al pomeriggio andammo a fare le spese per rivettovagliare la barca per tre giorni. George disse che dovevamo comprare molta verdura e che la presenza di verdure nei pasti è indispensabile. Disse che le verdure sono facili da cucinare e che se ne sarebbe incaricato lui. Perciò ci fornimmo di dieci libbre di patate, di uno staio di piselli e di cavoli. Dall'albergo ci portammo un polpettone di carne, un paio di crostate di uva spina e una coscia di montone, e in altri posti diversi comprammo frutta, dolci, pane e burro, marmellata, uova, lardo e altra roba.
Ricordo la partenza da Marlow come uno dei maggiori successi di quella gita. Pur non essendo una ostentazione essa fu degna e impressionante. In tutti i negozi avevamo insistito perché la merce fosse subito mandata con noi. Niente da fare con quel:
"Sissignore, manderò subito, il fattorino arriverà prima di loro!" e poi succede che rimanete lì sulla riva ad aspettare come un cretino e dovete tornar due volte nel negozio e prendervi a male parole col padrone. Noi, invece, aspettavamo che il pacco fosse pronto e ci portavamo il fattorino con noi.
Facemmo acquisti in un bel po' di negozi adottando sempre lo stesso principio. La conseguenza fu che quando finimmo avevamo una bella collezione di fattorini che ci seguivano con pacchi e la nostra marcia finale dal centro della High Street al fiume dev'essere stato uno spettacolo imponente, di quelli che Marlow non vedeva da tempo.
L'ordine della processione era il seguente:
Montmorency che portava un bastone tra i denti.
Due bastardi, spregevoli amici di Montmorency.
George, carico di coperte e pastrani, fumando la pipa.
Harris, che cercava di camminare con disinvoltura nonostante portasse il sacco zeppo con una mano e una bottiglia di succo di limone con l'altra.
Fattorino dell'ortolano e quello del droghiere, con cesta.
Facchino dell'albergo, con paniere.
Fattorino del pasticciere, con paniere.
Fattorino del droghiere, con paniere.
Cane pelosissimo.
Fattorino del salumiere, con cesta.
Uomo di fatica, con valigia.
Amico inseparabile dell'uomo di fatica con le mani in tasca, e la pipa di coccio in bocca.
Io, in persona, con tre cappelli e un paio di scarpe in mano dandomi l'aria di niente.
Monelli e quattro cani randagi.
Quando arrivammo all'imbarcatoio il barcaiolo disse: - Un momento, signori... Ma voi avete una lancia a vapore oppure una casa galleggiante? - Quando gli dicemmo che il nostro era semplicemente uno schifo a due remi sembrò perplesso.
Quella mattina le lance a vapore ci dettero molto fastidio.
Eravamo alla vigilia della settimana sportiva di Henley e ne arrivarono su moltissime; alcune sole, altre rimorchiando case galleggianti. Per conto mio, io quelle lance le odio e credo che ogni rematore debba odiarle. Non mi accade mai di imbattermi in una lancia a vapore senza sentire la voglia di attirarla in un angolino deserto del fiume e lì, nel silenzio e nella solitudine, strozzarla.
In ogni lancia a vapore c'è una presuntuosità urtante che ha l'abilità di ridestare tutti gli istinti peggiori del mio essere e che mi fa pensare con nostalgia ai tempi passati quando si poteva andare in giro con accetta, arco e freccia e dire alla gente quello che si pensava di loro. Basta l'espressione che ha dipinto sul volto quel tale che se ne sta con le mani in tasca e col sigaro in bocca presso la poppa per giustificare la rottura delle buone relazioni; e il fischio imperioso che vi fanno per togliervi di mezzo, secondo me, garantisce l'assoluzione per "omicidio giustificato" da parte di qualsiasi giurì composto di fiumaroli.
E ne dovevano fare di fischi perché ci togliessimo dalla loro rotta! Se posso esprimermi così, senza sembrare uno spaccone, onestamente credo che quella settimana la nostra barchetta dette più fastidio e procurò maggior ritardo alle lance a vapore di tutte le altre imbarcazioni del fiume messe insieme.
- Lancia a vapore! - gridava uno dei nostri scorgendo il nemico a distanza; e in un attimo tutto era pronto per riceverlo. Io prendevo i cordoni della barra, Harris e George mi sedevano accanto dando tutti e tre le spalle alla lancia mentre la barca filava tranquilla sul filo della corrente. La lancia si avvicinava fischiando e noi proseguivamo tranquillamente. Dopo cento metri essa si metteva a fischiare come una matta e i passeggeri arrivavano sul ponte e si affacciavano per gridarci contro, ma noi non li sentivamo neanche! Harris ci stava raccontando un aneddoto circa sua madre e George ed io non volevamo perderne una parola per tutto l'oro del mondo.
E allora la lancia emetteva un fischio finale che quasi faceva scoppiar le caldaie ed era obbligata a invertire il motore e sbuffando vapore virava e andava a finire in secca; tutti quelli sulla riva gridavano anch'essi e tutte le altre barche di passaggio si univano fino a che il fiume non diventava una frenetica confusione per miglia a valle e a monte. E allora Harris si interrompeva sul più bello del racconto e, guardando con una certa sorpresa sul fiume, diceva a George:
- Guarda, George, Dio mi castighi se quella non è una lancia a vapore!
E George rispondeva:
- E' vero, sai! Mi era parso di sentire qualcosa!
E allora succedeva che diventavamo nervosi e confusi e non sapevamo come manovrare per portare la barca fuori dalla rotta e quelli della lancia si ammassavano intorno e ci davano istruzioni.
- Tira a destra, pezzo di idiota! indietro a sinistra. No, non tu - l'altro - lascia perdere i cordoni, una buona volta! - ora, ora, tutti e due insieme. - No, non così. Oh acc...!
E allora ammainavano un battello, venivano in nostro aiuto, e, dopo un quarto d'ora di sforzi, ci toglievano dalla loro strada in modo da poter continuare il viaggio. Noi li ringraziavamo e li pregavamo di rimorchiarci. Ma si rifiutavano sempre.
Un altro mezzo che escogitammo per dar fastidio alle lance a vapore fu quello di fingere di scambiarle per crociere di impiegati e di chiedere se appartenevano alla Ditta Cubit o all'archivio dei Templari di Bermondsey, e se potevano prestarci una padella.
Le vecchie signore non abituate al fiume hanno sempre un vero terrore delle lance a vapore. Ricordo che una volta andavo da Staines a Windsor - un tratto di fiume particolarmente frequentato da quei mostri meccanici - con una comitiva in cui c'erano tre vecchie signore. Fu una cosa davvero divertente. Non appena scorgevano un lancia a vapore pretendevano di esser sbarcate e si sedevano sulla sponda fino a che il mostro non fosse sparito dalla vista. Dissero che erano molto spiacenti ma che avevano il dovere verso le loro famiglie di non essere temerarie.
Arrivati alla chiusa di Hambledon ci accorgemmo che eravamo a corto di acqua e perciò prendemmo la brocca e andammo a chiederne un po' al custode.
L'oratore doveva esser George e lui, facendo un sorrisino smagliante, disse:
- Per favore potreste prestarci un po' d'acqua?
- Certamente, - rispose il vecchio, - ne prenda pure quanta ne vuole e lasci il resto.
- Grazie infinite! - mormorò George guardandosi intorno Dove...
dove la tenete?
- Sempre allo stesso posto, figliol mio, - fu la risposta cretina - esattamente alle sue spalle.
- Ma io non la vedo, - disse George girandosi.
- Come, ma dove ha gli occhi, lei? - chiese il vecchio mentre lo rigirava e gli mostrava il fiume lì sotto. - Non le pare che ce ne sia abbastanza perché lei la possa prendere, non è vero?
- Oh! - esclamò George comprendendo, - ma noi non possiamo berci il fiume, non le pare?
- Oh no! non tutto, ma un poco potete berne, - rispose il vecchio.
- E' quello che io sto facendo da quindici anni a questa parte.
George disse che quella cura non gli aveva conferito una cera tale da sembrare una buona propaganda della marca e disse che egli preferiva l'acqua di una pompa. Ce ne dettero in una villetta un po' più a monte. Oso dire che, a saperlo, anche quella era acqua di fiume. Ma non lo sapevamo e quindi servì benissimo. Lo stomaco non si rivolta se gli occhi non hanno veduto.
Durante quello stesso viaggio qualche giorno dopo usammo l'acqua del fiume, ma non fu un successo. Stavamo scendendo a valle e c'eravamo fermati in un ramo morto presso Windsor, per prendere il tè. La brocca dell'acqua era vuota e quindi una delle due: o far a meno del tè o servirci dell'acqua del fiume. Harris fu del parere di provare. Disse che, bollendo prima l'acqua, tutto sarebbe andato bene perché i microbi nocivi contenuti nel fiume sarebbero stati uccisi dalla bollitura. Riempimmo, dunque, il bricco con acqua del Tamigi e lo facemmo bollire stando molto attenti che bollisse veramente.
Preparammo il tè e ci stavamo sistemando per berlo quando George, che aveva la tazza già vicino alle labbra, si fermò ed esclamò:
- Cos'è quello?
- Quello cosa? - chiedemmo io ed Harris.
- Quello! - disse George guardando verso oriente.
Io ed Harris seguimmo il suo sguardo e vedemmo un cane che se ne veniva verso di noi sulla placida corrente. Era uno dei cani più tranquilli, più pacifici che io abbia mai visto. Mai conosciuto un cane che sembrasse più felice, più spensierato. Galleggiava dormendo sulla schiena e con le quattro zampe tese, dritte in su, per aria. Direi che era un cane di corporatura piena e con il petto ben gonfio. Esso si avvicinò alla barca sereno, calmo ed altero, e poi, arrivato alla ramaglia si fermò e si adagiò per la notte.
George disse che di tè non ne voleva e vuotò la tazza nel fiume.
Harris non aveva più sete e lo imitò. Io bevvi mezza tazza ma sarebbe stato meglio che non lo avessi fatto.
Domandai a George se, secondo lui, potevo essermi preso il tifo.
Lui disse: - Oh, no; - secondo lui avevo molte probabilità di scongiurarlo. Comunque, la certezza se me l'ero preso o no l'avrei avuta fra quindici giorni.
Rimontammo fino a Wargrave seguendo un ramo secondario. Si tratta di una piccola scorciatoia che parte dalla riva destra a circa mezzo miglio dalla chiusa di Marsk e che val la pena di esser percorsa perché, oltre ad accorciare la distanza di un mezzo miglio, è un tratto d'acqua pieno di ombre e di grazia.
Come tutte le altre, anche l'imboccatura di questo ridente tratto è piena di catene e di pali con su le tavolette di "Vietato" che minacciano ogni specie di torture, di galere e di morte a chi osa affondare un remo nell'acqua. Cominciò a meravigliarmi del perché qualcuno di questi zoticoni proprietari marginali non si elegge padrone dell'aria e non stabilisce la multa di quaranta scellini a chi la respira. Ma le catene e i pali sono facilmente sorpassabili con un po' di astuzia; in quanto alle tavolette con gli avvisi di divieto, se avete cinque minuti da perdere e non c'è nessuno che vi veda, potete schiodarne due o tre e sbatterle a fiume.
A metà di questo canale sbarcammo e facemmo merenda e fu durante questa merenda che io e George ricevemmo uno choc piuttosto duro.
Anche Harris ebbe uno choc, ma non credo che lo choc di Harris possa essere stato così duro come quello che provammo io e George in quella occasione.
Ecco, fu così: eravamo seduti in un prato a un cento metri dalla sponda del fiume e ci eravamo appena sistemati comodamente per nutrirci. Harris teneva il polpettone di carne tra le ginocchia mentre io e George lo stavamo guardando con i piatti pronti.
- Avete un cucchiaio? - disse Harris; - mi occorre un cucchiaio per servire la salsa.
La cesta era proprio dietro a noi ed io e George, insieme, ci voltammo per prenderne uno. Per fare questa operazione non impiegammo neanche cinque secondi; ma quando ci rivoltammo Harris e la carne erano spariti!
Ci trovavamo in aperta campagna. Per cento metri intorno non c'era né un albero né un pezzo di roccia. Non poteva essere caduto a fiume, perché noi ci trovavamo fra l'acqua e lui stesso e quindi avrebbe dovuto passare sopra di noi.
Io e George ci guardammo intorno e poi ci guardammo in faccia.
- Che sia stato rapito in cielo? - chiesi io.
- Non credo che si sarebbe portato anche il polpettone di carne,- disse George.
Era un'opinione ponderata e quindi scartammo la teoria celeste.
- Credo che la verità sia che c'è stato un terremoto, - disse George venendo al pratico.
E poi, con un certo accento di tristezza nella voce, aggiunse:
- Per lo meno non avesse avuto quel polpettone in mano per affettarlo!
Emettemmo un sospiro e girammo di nuovo lo sguardo al punto in cui Harris e la carne erano stati per l'ultima volta su questa terra, e lì, mentre il sangue ci si gelava nelle vene e i nostri capelli si rizzavano vedemmo la testa di Harris - nient'altro che la testa - dritta tra l'erba alta, col viso rosso nel quale si vedeva un'espressione di tremenda indignazione.
George si riebbe per primo:
- Parla! - gli gridò, - sei vivo o morto? e dov'è il resto di te stesso?
- Va' là, non fare il cretino! - disse la testa di Harris. - Lo so bene che l'avete fatto apposta.
- Cosa?
- Sicuro, mi avete fatto sedere lì, scherzi da scemi! To', prendi il polpettone.
E dal centro della terra, così ci sembrava, sorse il polpettone, molto malconcio; e dietro a quello s'arrampicò fuori Harris, infangato, pesto e bagnato Senza saperlo si era seduto sull'orlo di un fosso nascosto dall'erba alta e nel fare un piccolo movimento all'indietro ci era andato dentro col polpettone e tutto.
Disse che nella sua vita non era mai stato così sconvolto come quando si era accorto di star precipitando senza aver la minima idea di quello che era successo; gli era parso fosse venuta la fine del mondo.
Harris ancora oggi è convinto che tutto quello lo avessimo complottato io e George. E così, il sospetto ingiusto perseguita anche i più innocenti, perché, come dice il poeta: "Chi è indenne da calunnia?".
Chi, infatti?
CAPITOLO 14
Wargrave - Statuine di cera - Sonning - Montmorency diventa sarcastico - Battaglia fra Montmorency e il bricco - George studia il banjo - Di fronte allo scoraggiamento - Difficoltà della musica dilettantistica - S'impara a suonare la zampogna - Harris dopo cena si sente triste - Io e George andiamo a passeggio - Ritorniamo fradici e affamati - Scopriamo qualcosa di strano in Harris - Harris e i cigni, storia interessante - Harris passa una notte movimentata.
Dopo la merenda si mosse una brezza che ci fece superare agevolmente Wargrave e Shiplake. Nel sonnolento sole del pomeriggio estivo, Wargrave, annidata nel gomito del fiume vi offre, di passaggio, il suo panorama soave, una delle visioni che durano più a lungo sulla retina della memoria. A Wargrave la locanda "Giorgio e il drago" vanta un'insegna dipinta su un lato da Leslie, dell'Accademia Reale; e sull'altro da Hodgson, pittore locale. Leslie ha raffigurato il combattimento e Hodgson ha immaginato la scena del "dopo": Giorgio che, fatto il lavoro, si gode la sua brava pinta di birra.
Day, l'autore di Sandford and Merton visse e (cosa che va a lode ancor maggiore della località) fu ucciso a Wargrave. Nella chiesa vi è un ricordo marmoreo della signora Sarah Hill la quale lasciò l'eredità di una sterlina all'anno da essere divisa a Pasqua fra due ragazzi e due ragazze "che non abbiano mai disobbedito ai loro genitori, che non risultino aver mai bestemmiato o detto il falso, o rubato o rotto vetri di finestre". Immaginate un po'! dover rinunciare a tutta questa roba per cinque scellini all'anno! Non vale la pena.
Nel paese raccontano che una volta, tanti anni fa spuntò fuori un ragazzo che realmente non aveva fatto quelle cose (o almeno che non RISULTAVA averle mai fatte, ch'è il massimo che si possa chiedere), e così vinse la corona della gloria. Lo esposero per tre settimane in municipio sotto una campana di vetro.
Che ne sia stato del denaro, da allora, nessuno lo sa. Dicono che lo offrono sempre al vicino museo delle figure di cera.
Shiplake è un villaggetto grazioso ma dal fiume non lo si vede perché sta sulla collina. Nella chiesa di Shiplake fu celebrato il matrimonio di Tennyson.
Risalendo verso Sonning il fiume serpeggia dentro e fuori fra molte isolette ed è placidissimo, silenzioso e deserto. Poca gente passa lungo le rive eccetto qualche coppietta di contadinotti innamorati, verso sera. Dietro di noi sono rimaste Arry e Fitznoodle mentre l'orribile, sudicia Reading non è ancora vicina.
Questo è un tratto del fiume in cui si possono sognare i tempi passati, le forme ed i visi che furono, le cose che sarebbero potute accadere ma che, tanto peggio per loro, non accaddero.
A Sonning sbarcammo e andammo a fare una passeggiatina fino al villaggio. E' il cantuccio più incantevole di tutto il fiume e si direbbe più un villaggio da palcoscenico che uno autentico, fatto di calce e mattoni. Le case sono coperte di rose che ora, ai primi di giugno, sbocciano a ciuffi in tutto il loro squisito splendore.
Se doveste fermarvi a Sonning scegliete il "Toro", che sta dietro la chiesa. E' l'immagine esatta della vecchia locanda di campagna, e ha dinanzi un giardinetto verde, squadrato, dove gli anziani si radunano per bere la birra e per discutere della politica del villaggio; le camere sono basse, bizzarre, le finestre hanno inferriate, le scale sono scomode e i corridoi sono tortuosi.
Girovagammo nella dolce Sonning per un'ora, più o meno, e poi, siccome era tardi per spingerci al di là di Reading, decidemmo di ritornare su di una delle isolette di Shiplake e pernottarvi.
Preparammo tutto e ci accorgemmo che era ancora presto, e allora George disse che avendo molto tempo a disposizione, potevamo approfittare della splendida opportunità per preparare una cena speciale. Disse che ci avrebbe mostrato quanto si può fare sul fiume in fatto di cucina e propose di usare i legumi, i resti della carne fredda, nonché gli altri rimasugli per preparare uno stufato all'irlandese.
L'idea ci sembrò affascinante; George raccolse la legna e fece il fuoco mentre io e Harris ci mettemmo a sbucciare le patate. Non avrei mai creduto che quella funzione di sbucciare le patate fosse una simile impresa. La faccenda mi si rivelò come la cosa più colossale, nel suo genere, in cui mi fossi mai messo. Cominciammo allegramente, spavaldamente, si potrebbe dire, ma dopo aver sbucciato la prima patata tutta la nostra giocondità era finita.
Più sbucciavamo e più buccia sembrava che ci rimanesse e quando finimmo di togliere tutta la buccia e tutti i bitorzoli, della patata non c'era più nulla. Voglio dire, nulla di cui valga la pena di parlare. George sopravvenne, e osservò che la patata era ridotta alla grossezza di una nocciolina americana. Disse:
- No, così non va! State rovinando tutto, le dovete raschiare.
Ci mettemmo a raschiarle e fu un lavoro peggiore dello sbucciarle perché le patate hanno una forma così strana! e son tutte bozzi, bitorzoli e avvallamenti; andò a finire che facemmo sciopero.
Dicemmo che poi ci sarebbe occorso il resto della serata per raschiare noi stessi.
Io non ho mai conosciuto un mestiere capace di ridurre un uomo ad un letamaio come quello di raschiar le patate. Sembrava incredibile che le pelli di patata in cui io ed Harris stavamo sepolti e quasi soffocati provenissero da quattro tuberi soltanto.
Pensate un poco quanto si potrebbe fare con l'economia e la buona volontà.
George trovò assolutamente assurdo fare lo stufato con quattro patate sole e noi ne lavammo una mezza dozzina ancora e le mettemmo in pentola senza pelarle. Aggiungemmo un cavolo e circa due chili di piselli. George rimestò il tutto e poi disse che c'era ancora spazio nella pentola, perciò noi rovistammo a fondo nelle due ceste e aggiungemmo allo stufato tutti i pezzettini, i resti, e i rifiuti che vennero fuori.
C'erano rimasti ancora mezzo polpettone di carne di maiale, un po' di lardo lessato e freddo e infilammo tutto dentro. George scoprì inoltre una mezza lattina di salmone e vuotò anche il contenuto di quella nella pentola.
Disse che appunto in ciò consisteva la bellezza dello stufato irlandese: ci si libera di tutta la roba vecchia. Pescai ancora, e trovai due uova incrinate, e dentro anche quelle. George ci assicurò che così l'intingolo sarebbe venuto più denso.
Ora non mi ricordo tutti gli altri ingredienti ma vi posso assicurare che nulla fu sciupato; e verso la fine Montmorency, che era stato attentissimo a tutto il procedimento, si allontanò con un'aria molto seria e pensierosa e poi riapparve, qualche minuto dopo, con un topo di fogna morto in bocca che, evidentemente, voleva offrire come suo contributo al pranzo; se l'abbia fatto con intento sarcastico oppure obbedendo a un generico desiderio di collaborare, non saprei dirlo.
Non discutemmo la convenienza di metter dentro il topo; Harris era del parere che ci sarebbe stato benissimo, perché si sarebbe mischiato con le altre cose e le avrebbe migliorate. Ma George fece appello ai precedenti. Disse che non si ricordava che nello stufato all'irlandese c'entrassero anche i topi di fogna e che quindi preferiva andare sul sicuro, mantenendosi sulla vecchia e provata ricetta, senza introdurre novità.
Harris disse:
- Ma se non si provano le novità, come si può dire come sono? I tipi come te ritardano il progresso. Pensa un po', invece, a quelli che sperimentarono per primi le salsicce viennesi.
Lo stufato all'irlandese fu una vera cannonata e devo dire che mai avevo mangiato altro con egual piacere. Aveva in se qualcosa di fresco e di piccante. Si sa che il nostro palato si stanca della solita zuppa di tutti i giorni, e invece questo era un piatto di fragranza nuova e di un sapore che non ne ricordava nessun altro al mondo.
Inoltre, per dirla con George, esso era nutriente perché dentro ce ne stava, di roba buona! Forse le patate e i piselli avrebbero potuto essere un po' più morbidi, ma siccome avevamo tutti buone dentature la cosa non rivestiva nessuna importanza. In quanto all'intingolo, poi, era un poema; un po' troppo forte, se vogliamo, per gli stomaci delicati,ma innegabilmente nutrientissimo.
Il pranzo si concluse con tè e crostata di ciliege. Al momento di preparare il tè, Montmorency ingaggiò una lotta col bricco arrivando secondo, molto distaccato.
Egli, Montmorency, durante tutto il viaggio aveva dimostrato una gran curiosità per il bricco. Quando questo stava al fuoco, lui si sedeva e lo osservava con un'espressione interrogativa e ogni tanto con un ringhio tentava di farlo reagire. Quando il bricco cominciava a bofonchiare e ad emettere vapore, lui si sentiva sfidato e si disponeva al duello, ma quello era il preciso momento in cui spuntava sempre qualcuno e si portava via la preda prima che lui la potesse assalire.
Quel giorno Montmorency aveva deciso di agire in anticipo e al primo brontolio del bricco si alzò ringhiando e avanzò con attitudine minacciosa. Non era che un piccolo bricco ma pieno di coraggio: soffiò e sputò.
- Ah!, pezzo di...! - grugnì Montmorency mostrando i denti; - ora t'insegno io a sfidare un cane lavoratore e rispettabile, aspetta!
E si scagliò su quel povero, piccolo bricco e l'afferrò pel beccuccio.
Allora, nella quiete della sera, eruppe un guaito che gelava il sangue e Montmorency, saltato dalla barca, si fece una passeggiatina igienica di tre giri intorno all'isola alla media di cinquanta chilometri orari, fermandosi ogni tanto per infilare il naso in un po' di fango freddo.
Da quel giorno Montmorency ha per il bricco un certo rispetto misto di riverenza, di sospetto e di odio. Non appena lo vede guaisce ed indietreggia alla svelta mettendosi la coda tra le gambe e al momento in cui l'arnese viene messo sul fuoco lui salta immediatamente dalla barca e va a sedersi sulla sponda finché tutta la cerimonia del tè non è finita.
Dopo cena George tirò fuori il banjo per suonare, ma Harris si oppose: disse che aveva mal di testa e che non si sentiva abbastanza in forze per resistere a quella musica. George, invece, fu dell'avviso che la musica gli avrebbe fatto bene - disse che la musica spesso calma i nervi e toglie l'emicrania; e pizzicò due o tre note, tanto perché Harris si rendesse conto di quello che era.
Harris disse che preferiva l'emicrania.
Ancor oggi, George non ha imparato affatto a suonare il banjo. Ha dovuto affrontare troppi scoraggiamenti. Mentre viaggiavamo sul fiume, tentò, due o tre sere, di fare un po' di pratica; ma non ci riuscì mai. Il linguaggio di Harris era sempre tale da scoraggiare qualsiasi uomo e, inoltre, c'era Montmorency che durante l'intera esecuzione si accovacciava e continuava a guaire. Tutto ciò non permetteva lo studio.
- Ma insomma perché ulula così quando io suono? - esclamava George indignato prendendolo di mira con una scarpa.
- E tu perché suoni così mentre lui guaisce? - ribatteva Harris afferrando la scarpa a volo. - Lascialo in pace. Lui non può fare a meno di ululare. Ha l'orecchio musicale e la tua musica lo fa piangere.
E così George decise di rimandare lo studio del banjo al ritorno a casa. Ma neanche lì ebbe molta fortuna. La signora P. andava su e gli diceva che era molto dolente - a lei, personalmente piaceva sentirlo - ma l'inquilina al piano di sopra si trovava in uno stato delicatissimo e il dottore temeva che quel suono potesse nuocere al bambino.
Allora George tentò di uscire col banjo, di sera tardi, per esercitarsi girando intorno al palazzo. Ma gli abitanti lo denunziarono alla polizia e una notte una guardia si appostò e lo portò dentro. La sua infrazione era evidente e lo ammonirono di non far chiasso per sei mesi.
Dopo questo incidente parve perdersi di entusiasmo. Passati i sei mesi fece un paio di tentativi per riprendere lo studio; ma ebbe da combattere sempre con la stessa freddezza, con la stessa mancanza di comprensione da parte della gente, e, dopo un po', perse completamente la speranza, e mise sul giornale un annuncio economico di vendita dello strumento, a prezzo sacrificatissimo, "non servendo più all'attuale proprietario". Si mise, invece, a imparare i giochi di prestigio con le carte.
Lo studio di uno strumento musicale deve essere una cosa scoraggiante. Uno crede che la società, nel proprio interesse, debba fare tutto quello che può per facilitare ad un uomo l'apprendimento dell'arte di suonare uno strumento musicale. E invece non è così.
Conobbi una volta un giovanotto che studiava la zampogna e vi assicuro che se sapeste contro quante difficoltà dovette lottare vi meravigliereste. Credete, neanche dai componenti della propria famiglia ricevette quel che si potrebbe chiamare un incoraggiamento attivo. Suo padre ce l'ebbe a morte con quell'affare sin dal principio e ne parlava senza alcun riguardo.
Il mio amico, per esercitarsi, si alzava al mattino presto, ma dovette smettere a causa di sua sorella. Ella aveva una certa inclinazione mistica, e disse che pareva spaventoso cominciare così la giornata.
Visto ciò, cominciò a vegliare la notte e a suonare quando tutti erano andati a letto; ma anche questo non poté andare avanti perché gettava pessima fama sulla casa. La gente che si ritirava si fermava di fuori ad ascoltare e poi, al mattino seguente, spargeva la voce per tutta la città che in casa Jefferson la notte precedente era stato commesso un assassinio; e dicevano di aver udito gli urli della vittima e le maledizioni e le bestemmie degli assassini seguiti dall'implorazione di grazia e dall'ultimo rantolo del moribondo.
Si decisero quindi a farlo esercitare di giorno chiudendo tutte le porte e relegandolo nella cucinetta in fondo alla casa; ma, quando intonava i passaggi di maggior effetto, lo sentivano in salotto a dispetto di tutte le precauzioni, e la mamma si commoveva fino alle lagrime. Diceva che le ricordava il suo povero padre (che era stato inghiottito da un pescecane, poveretto, mentre faceva il bagno al largo della Nuova Guinea - però non sapeva spiegarsi quell'associazione d'idee).
Poi lo confinarono in una baracchetta fatta apposta per lui all'estremità del giardino, a trecento metri circa dalla casa, e quando voleva mettersi a studiare si portava lì il suo congegno. A volte arrivava in visita qualcuno che non sapeva nulla di quello studio e si dimenticavano di avvisarlo e quello se ne andava a fare una passeggiatina in giardino e improvvisamente, senza esservi preparato, si avvicinava e percepiva le stecche della zampogna senza capire che cosa stesse succedendo. Se si trattava di un cervello molto equilibrato, se la cavava con una crisi; ma se invece era uno di media intelligenza, generalmente andava al manicomio.
Confessiamolo pure, i primi passi di un affezionato della zampogna hanno in sé qualcosa di estenuante ed io me ne rendevo conto come se si trattasse di me stesso, quando ascoltavo il mio giovane amico. Ho l'impressione che la zampogna sia uno strumento che mette a dura prova lo studioso; prima di cominciare occorre che vi forniate di fiato per tutta la sonata. Questa, per lo meno, fu l'impressione che ebbi osservando Jefferson.
Egli cominciava egregiamente con una nota selvaggia, piena, come un grido di battaglia che vi entusiasma. Ma poi, a mano a mano che proseguiva, si andava affievolendo e l'ultima battuta si interrompeva generalmente a metà, con un borbottio ed un fischio.
Per suonare la zampogna ci vuole una salute di ferro.
Il mio giovane amico Jefferson imparò un solo pezzo per zampogna, ma a dire il vero non mi risulta che qualcuno si sia lamentato della esiguità del suo repertorio. Il pezzo era: "Arrivano i Campbell. Urrah! Urrah!"; così diceva lui malgrado che il padre fosse convinto che il titolo era: "Le campanule scozzesi".
Nessuno, insomma, era certo di quel che fosse ma tutti erano d'accordo che lo stile era scozzese. Ai forestieri si consentivano tre scommesse circa il titolo e la maggior parte di essi diceva ogni volta un titolo diverso.
Harris, dopo cena, diventò intrattabile.
Secondo me lo stufato lo aveva messo di cattivo umore; egli non è abituato alla gran vita, e perciò io e George lo lasciammo nella barca per andarcene a spasso per le vie di Hanley. Lui disse che avrebbe bevuto un whisky, si sarebbe fatto una pipata e poi avrebbe messo in ordine tutto per la notte. Al ritorno avremmo dovuto gridare e lui sarebbe venuto a prenderci dall'isola con la barca.
- Non ti addormentare, bellezza, - gli dicemmo nel partire.
- Non c'è pericolo fino a che avrò sullo stomaco questo stufato, - bofonchiò lui ricominciando a vogare per tornarsene all'isola.
Hanley si preparava per le regate e quindi era piena di gente.
Incontrammo diversi conoscenti e nella loro piacevole compagnia il tempo passò presto, di modo che quando cominciammo a rifare i sette chilometri di strada per tornare a casa - ormai la piccola imbarcazione la chiamavamo così - erano quasi le undici.
La notte era cupa, fredda e bagnata da una pioggia sottile, e mentre noi arrancavamo nel buio, tra i campi silenziosi, parlando a bassa voce, e chiedendoci se eravamo sulla via giusta, pensavamo alla cara, domestica barca con la sua luce brillante che appariva attraverso la trama del tendone; pensavamo a Harris, a Montmorency e al whisky, e avremmo voluto essere già lì.
Evocavamo il quadretto che noi stessi formavamo là dentro, stanchi e con un po' di appetito; pensavamo al fiume triste e agli alberi informi e sotto di essi, la nostra cara barca, una gigantesca lucciola luminosa, così comoda, così calda, così gaia. Ci vedevamo seduti a cena, sbocconcellando la carne fredda e passandoci l'un l'altro i pezzi di pane; ci pareva di sentire l'allegro tintinnio dei coltelli, le voci ridenti che riempivano tutto lo spazio e che attraversavano le aperture e si espandevano fuori nella notte. E allungammo il passo perché la visione si trasformasse in realtà.
Sentimmo finalmente sotto i piedi il sentiero dell'alzaia e ci parve d'essere felici anche perché prima di questo non eravamo proprio sicuri se stavamo andando verso il fiume o se ce ne stavamo allontanando e, quando siete stanchi e avete voglia di andarvene a letto, simili incertezze sono moleste. Attraversammo Shiplake mentre l'orologio batteva la mezzanotte meno un quarto.
George, con tono preoccupato, disse:
- Ricordi per caso quale delle isole era?
- No, - risposi cominciando a impressionarmi anch'io. - Non ricordo. Ma quante isole sono?
- Quattro soltanto, - rispose George. - Ma se lui è sveglio tutto andrà per il meglio.
- E se non è sveglio? - chiesi io. Ma poi allontanammo un simile pensiero.
Arrivati di fronte alla prima isola gridammo, ma non ottenemmo nessuna risposta; passammo alla seconda e gridammo di nuovo, ma il risultato fu identico.
Corremmo pieni di speranza alla terza e gridammo ancora. Nessuna risposta.
La cosa cominciava a diventare seria. La mezzanotte era già passata. Gli alberghi di Shiplake e di Hanley erano certamente pieni e noi non potevamo metterci in giro e andar battendo in piena notte alle porte delle ville e delle pensioni per chiedere se avevano camere libere. George propose di ritornare a Hanley e di aggredire una guardia e così avremmo avuto alloggio in gattabuia. Ma poi pensammo che poteva succedere anche che la guardia ci desse un sacco di legnate e rifiutasse di arrestarci.
Non potevamo passare tutta la notte ad azzuffarci con i poliziotti. Inoltre, poi, non volevamo correre il rischio di strafare e buscarci sei mesi.
Tentammo ancora, già in preda alla disperazione, di fronte a quella che ci sembrava essere la quarta isola, ma il successo non fu migliore. La pioggia ora cadeva fitta e con evidente determinazione a durare. Eravamo bagnati fino alle ossa, pieni di freddo ed avvilitissimi. Cominciavamo a non esser più certi se le isole fossero quattro soltanto, o più; non avremmo garantito affatto di esser vicini alle isole o di esser chissà dove, a un miglio di distanza dal punto ove ci saremmo dovuti trovare o, magari, sulla riva opposta del fiume; nel buio tutto sembrava così strano e diverso. Cominciammo a renderci conto della sofferenza dei Cappuccetti Rossi sperduti nel bosco.
Esattamente nell'istante in cui avevamo abbandonato ogni speranza... sissignori, so benissimo che questo è sempre il momento in cui succedono le cose nei romanzi e nei racconti, ma non so che farci. Quando cominciai a scrivere questo libro decisi di mantenermi rigidamente fedele alla verità in ogni cosa; e sarà così anche se per raggiungere lo scopo mi vedrò costretto a servirmi di frasi fritte e rifritte.
Avvenne esattamente nell'istante in cui avevamo abbandonato ogni speranza; perciò, devo dire così. Esattamente nell'istante in cui avevamo abbandonato ogni speranza, io improvvisamente scorsi, un po' più a valle di noi, una specie di strano fantastico luccicore tremolante fra gli alberi della sponda opposta. Per un momento pensai agli spiriti; quella luce era così misteriosa e incerta!
Subito dopo, però, come un lampo mi venne l'idea che quella fosse la nostra barca e mandai un urlo tale attraverso l'acqua da far tremare la notte dentro il suo letto.
Aspettammo senza fiatare per un minuto e poi - oh! divina musica nelle tenebre! - sentimmo il latrato di risposta di Montmorency.
Gridammo ancora tanto da svegliare i Sette Addormentati (dal canto mio, non sono mai riuscito a capire perché si debba far più rumore per svegliare sette persone che dormono di quanto ne basta per svegliarne una sola), e dopo un tempo che ci sembrò mezz'ora, ma che in realtà, a quanto io credo, fu di circa cinque minuti, vedemmo la barca illuminata che scivolava lentamente nell'oscurità e udimmo la voce assonnata di Harris che ci chiedeva dove fossimo.
Percepimmo che Harris si comportava in modo inspiegabilmente strano. C'era in lui qualcosa di più della comune stanchezza.
Spinse la barca contro un punto della sponda da dove era assolutamente impossibile saltarvi dentro e si riaddormentò subito.
Per risvegliarlo di nuovo e per richiamarlo alla realtà ci vollero un sacco di urli e di schiamazzi; alla fine ci riuscimmo e scendemmo regolarmente a bordo dove subito notammo che Harris aveva una espressione tristissima; dava l'idea di un uomo che avesse passato grossi guai. Gli domandammo che cosa fosse successo e lui rispose:
- Cigni!
A quanto sembrava c'eravamo ormeggiati vicino a un nido di cigni, e non appena io e George ci eravamo allontanati era tornata la femmina del cigno che si era messa a protestare contro l'invasione. Harris l'aveva scacciata ed essa era andata a chiamare il vecchio cigno suo marito. Harris raccontò che aveva sostenuto una vera battaglia con quei due cigni ma che alla fine il suo coraggio e la sua abilità avevano trionfato e li aveva sconfitti.
Mezz'ora dopo erano tornati con altri diciotto cigni! La disfida dovette esser terribile, almeno secondo la versione di Harris. I cigni avevan tentato di buttar lui e Montmorency fuori della barca per annegarli; lui si era difeso come un eroe per quattro ore, li aveva accoppati tutti ed essi erano scivolati con la corrente per andarsene a morire lontano.
- Quanti cigni hai detto che c'erano? - chiese George.
- Trentadue - rispose Harris quasi dormendo.
- Ma se proprio adesso hai detto diciotto! - disse George.
- Non è vero - grugnì Harris.- Ho detto dodici. Cosa credi, che non sappia contare?
Non riuscimmo mai ai sapere come realmente fosse andata questa storia dei cigni. Al mattino seguente interrogammo Harris in proposito ed egli disse: - Ma che cigni? - e parve convinto che ce li fossimo sognati io e George.
Che bellezza ritrovarsi ora comodamente nella barca dopo tanti stenti e tanta paura. Cenammo, io e George, mettendoci tutta l'anima, e dopo avremmo gradito molto un sorsetto; ma non ci fu possibile scovare il whisky. Tentammo di sapere da Harris cosa ne avesse fatto ma egli mostrò di non capire né cosa volesse dire la parola "whisky" né di che stessimo parlando. Montmorency ci guardava con l'aria di chi la sa lunga, ma non riferì nulla.
Quella notte dormii molto bene e avrei dormito ancora meglio senza quel benedetto Harris. Ricordo vagamente di esser stato svegliato da Harris perlomeno dodici volte durante la notte; andava vagolando per tutta la barca con una lanterna in cerca dei suoi panni. Sembra che abbia passato la notte intera ad arrabbiarsi per causa dei suoi panni.
Per ben due volte rigirò George e me, convinto che fossimo sdraiati sui suoi calzoni. La seconda volta George perdette la pazienza.
- Ma si può sapere che accidente ci devi fare a quest'ora con i calzoni? - gli chiese furente. - Finiscila, coricati e mettiti a dormire.
Svegliandomi di nuovo lo vidi tutto contrariato perché non trovava le calze e il mio ultimo ricordo è quello di esser rotolato su un fianco da Harris che brontolava qualcosa al riguardo del suo ombrello, che quella era una cosa incredibile, dove era andato a finire l'ombrello!
CAPITOLO 15
Lavori domestici - Il vecchio barcaiolo: quello che fa e quello che dice di aver fatto - Scetticismo della nuova generazione - Ricordi di altre gite in barca - Navigazione in zattera - George fa le cose con stile - Il vecchio barcaiolo e il suo metodo - Tanta calma, tanta pace - I principianti - Si spinge con la pertica - Un incidente increscioso - Soddisfazioni dell'amicizia - La mia prima esperienza di navigazione a vela - Possibili ragioni per cui non annegammo.
Il mattino seguente ci svegliammo tardi e accondiscendendo a un desiderio molto vivo di Harris, facemmo una colazione semplice, senza "manicaretti". Poi rigovernammo e mettemmo tutto a posto (si trattava del lavoro di tutti i giorni che cominciò a chiarirmi le idee circa una domanda che spesso mi sono posta, e cioè come fa a passare tutto il suo tempo una donna che deve badare a una sola casa), e verso le dieci partimmo per goderci quella che avevamo deciso dovesse essere una bella giornata di viaggio. Combinammo che, tanto per cambiare, avremmo vogato invece di rimorchiare, e Harris subito pensò che il miglior modo era che io e George vogassimo ed egli stesse al timone. Io non condivisi affatto la sua idea e dissi che secondo me Harris avrebbe dimostrato uno spirito più equo se avesse proposto se stesso e George ai remi per farmi respirare un po'. Mi pareva che in quel viaggio stessi facendo molto di più della mia parte di lavoro, e cominciavo a risentirmi.
Io ho sempre l'impressione di star facendo più lavoro di quanto debba. Credete, non è perché abbia antipatia per il lavoro; al contrario, il lavoro mi piace, mi affascina. Sono capace di starlo a guardare per ore e godo tanto a tenermelo vicino che l'idea di dovermene liberare quasi mi schianta il cuore.
Per me il lavoro non è mai troppo; ho quasi la passione di accumulare lavoro; il mio studio ne è ora così pieno che non c'è neanche più un centimetro di spazio per metterci altro lavoro.
Presto dovrò buttar giù una parete.
E, inoltre, sono attaccatissimo al mio lavoro. Una parte del lavoro che ho adesso sta con me da anni e anni e, credete, non c'è neanche l'impronta di un dito. Del mio lavoro sono orgoglioso, ogni tanto lo rimuovo e lo spolvero. Non esiste un uomo al mondo che mantenga il suo lavoro in miglior stato di conservazione.
Ma, nonostante la mia avidità di lavoro, sono onesto. Non ne chiedo più della parte che mi spetta.
Invece, me ne arriva senza che lo chieda - per lo meno così mi sembra - e ciò mi irrita.
George afferma che, secondo lui, io non mi debbo inquietare per questo. Dice che la mia convinzione che mi si dia sempre più lavoro di quanto me ne spetti, dipende dalla mia coscienza eccessivamente scrupolosa e che, in fondo poi, non ne ho neanche la metà di quanto ne dovrei avere. Ma sono convinto che dice così solo per consolarmi.
Mi sono accorto che quando si è in una barca ciascun componente dell'equipaggio ha l'idea fissa di esser lui a fare tutto. La convinzione di Harris era che solo lui lavorava e che io e George lo stavamo sfruttando. George, da parte sua, trovava ridicolo che Harris pensasse di aver fatto qualcosa d'altro all'infuori di sbafare e dormire e aveva la ferrea convinzione che era lui - George - ad aver fatto tutto il lavoro degno d'esser chiamato tale.
Affermava di non essersi mai trovato in giro con una coppia di oziosi scansafatiche come me e Harris.
Harris ci si divertiva un mondo.
- Magnifico, ecco il nostro vecchio George che parla di lavoro! - diceva ridendo; - dopo mezz'ora morirebbe! Hai mai visto George lavorare? - aggiunse guardando me.
Convenni con Harris che non lo avevo mai visto, e ne avevo avuto la conferma da quando era cominciato questo viaggio.
- Sicuro! ma quello che non capisco è come mai TU, PROPRIO TU possa giudicare, - ribatté George a Harris; - visto che Dio mi fulmini se non sei stato sempre addormentato. Hai mai visto Harris completamente sveglio, eccetto all'ora di mangiare? - chiese George rivolgendosi a me.
Per onor del vero dovetti dare ragione a George. Harris, fin dal principio e per quanto riguardava i lavori da fare, aveva reso ben poco.
- Sta bene, sia pure, però più di questo vecchio J. l'ho fatto senz'altro, - affermò Harris.
- Sfido io, e com'era possibile far meno di lui? - rispose George.
- Io credo che J. pensi di essere il passeggero, - continuò Harris.
E fu quella la loro gratitudine per averli portati fin lì, loro e la loro vecchia barcaccia sconquassata, da Kingston, e per aver diretto e organizzato ogni cosa, per essermi preoccupato di loro e per avere sfacchinato per loro. Ma il mondo è fatto così.
Accomodammo la difficoltà contingente decidendo che Harris e George avrebbero vogato fin oltre Reading e che di lì in avanti io avrei dato il rimorchio. Ora, il rimorchiare una barca pesante contro corrente non mi attrae più troppo; ma ci fu un tempo, molti anni fa, che strepitavo perché mi assegnassero quel lavoro; ora preferisco lasciare il piacere ai giovincelli.
Mi accorgo che per la maggior parte i vecchi fiumaroli si schermiscono anch'essi quando c'è da fare una tirata dura. Un vecchio barcaiolo lo si riconosce subito dal modo come si stende sui cuscini in fondo alla barca e incoraggia i vogatori, raccontando le gesta meravigliose di cui fu eroe nella stagione scorsa.
- E voi lo chiamate lavoro duro, codesto! - bofonchia lui tra gli sprezzanti sbuffi di fumo e quasi sferzando i novellini tutti sudati che si stanno macinando le ossa ai remi da un'ora e mezzo; - state a sentire: Jim Biffles, io e Jack, la stagione scorsa tirammo da Marlow a Goring in un solo pomeriggio, senza una fermata. Te ne ricordi, Jack?
Jack, che per conto suo si è fatto un bel letto a prua mettendo tutte le coperte e i vestiti che ha potuto radunare, e che se la dorme da due ore, al sentirsi chiamare si sveglia un pochino e ricorda che c'era una corrente straordinariamente contraria per tutta la tirata - e anche un ventaccio contrario.
- Sono state quasi quaranta miglia, mi pare, - aggiunse il primo barcaiolo afferrando un altro cuscino da mettersi sotto la testa.
- No, non esagerare, Tom, - mormora Jack con tono di riprovazione, - al massimo erano trentacinque.
E Jack e Tom, completamente esauriti dallo sforzo della conversazione si buttano giù per dormire ancora. E i due giovanotti semplicioni sembrano quasi orgogliosi di vogare per una coppia di vogatori eccezionali come Jack e Tom, e arrancano con rafforzata lena.
Io quando ero giovane ascoltavo questi racconti dei più vecchi, li assorbivo, li fagocitavo, ne digerivo ogni parola e poi chiedevo sempre che ne raccontassero degli altri; ma la nuova generazione non mostra di avere la stessa fede dei tempi passati. Una volta, durante l'ultima stagione io, George ed Harris prendemmo con noi un novellino e lo cibammo delle usuali narrazioni circa le cose magnifiche che avevamo già fatto sul fiume.
Gli ammannimmo tutte quelle di dominio pubblico - quelle bugie onorate dal tempo che negli anni passati hanno fatto legge sul fiume - e aggiungemmo settanta storie originali che ci eravamo inventate noi, includendo una avventura davvero quasi credibile fondata, fino a un certo punto, su fatti veri, che, con dovuta riduzione, erano davvero accaduti a un amico nostro - una storia che un bambino avrebbe potuto benissimo credere senza rimetterci molto.
E invece quel ragazzo si faceva beffe di tutto e ogni tanto pretendeva che ripetessimo il racconto e voleva scommettere dieci contro uno che non era vero.
Durante quella mattinata parlammo sempre di queste nostre esperienze fluviali e raccontammo di nuovo le storie dei nostri primi passi nell'arte del canottaggio. Il mio ricordo più lontano è di una volta che mettemmo cinque soldi ciascuno e ci avventurammo, su di una zattera stranamente costruita, sul lago di Regent Park e in conseguenza dovemmo andare ad asciugarci in casa del custode del parco.
Dopo di ciò, avendo preso un certo gusto all'acqua io andai con la zattera sui laghetti che si formavano nelle cave suburbane; è un esercizio più interessante e più affascinante di quanto si possa immaginare, specialmente poi quando vi trovate in mezzo alla pozza d'acqua e il proprietario del materiale con cui vi siete costruito il natante spunta improvvisamente sulla riva armato di un grosso manganello.
Alla vista di quel signore il vostro primo sentimento è che non vi sentite egualmente disposto alla compagnia e alla conversazione e che se poteste filarvela senza sembrar malaccorto lo fareste subito e di conseguenza il vostro obiettivo diventa quello di sbarcare dal lato opposto dell'acqua e squagliarvela silenziosamente e rapidamente avendo l'aria di non averlo neanche visto. Lui, al contrario, ha una voglia matta di prendervi per mano e di parlarvi.
Sembra che conosca vostro padre e che conosca voi stesso molto da vicino; ma tutto ciò non vi attrae verso di lui. Egli vi dice che vi insegnerà lui a costruire una zattera con le sue travi ma, siccome voi già sapete abbastanza bene come si fa, l'offerta, nonostante la buona intenzione, vi sembra superflua da parte sua, e voi non ve la sentite di metterlo in imbarazzo accettando.
La sua brama d'incontrarvi, però, rimane tetragona di fronte alla vostra freddezza, e la maniera energica con la quale guizza avanti e indietro intorno allo stagno, per trovarsi sul posto ad accogliervi quando sbarcate, è davvero lusinghiera.
Se si tratta di un tipo pingue e con poco fiato, voi alla fine riuscite a evitare l'incontro; ma se invece è un uomo giovanile e con le gambe lunghe l'intervista diventa inevitabile. Però la faccenda è breve, molto breve, perché la gran parte della conversazione la sostiene lui e voi vi limitate ad osservazioni espresse con esclamazioni monosillabiche e non appena potete svignarvela ve la svignate.
Dedicai tre mesi circa alla navigazione con zattere e, avendo raggiunto un grado di addestramento molto superiore al necessario per questo sport acquatico, decisi di iniziare la voga a remi vera e propria e perciò mi feci socio d'un circolo nautico del Lea.
L'uscire in barca sul fiume Lea, specialmente di sabato, al pomeriggio, vi rende subito espertissimi nel maneggio di un natante; non solo, ma si acquista anche una grande agilità nell'evitare di essere investito da qualche zoticone, o affondato dalle zattere; inoltre avete la possibilità di imparare il metodo più adatto e più elegante per buttarvi disteso sul fondo della barca in modo che i cavi delle alzaie, passando, non vi prendano al laccio per sbattervi nel fiume.
Il fiume Lea, però, non vi conferisce quello che si chiama stile.
Lo stile io lo acquistai solo quando arrivai a navigare sul Tamigi. Ora lo stile della mia vogata è ammiratissimo. Tutti lo trovano molto originale.
George fino all'età di sedici anni non si era mai avvicinato al fiume. Poi, lui e altri otto galantuomini suoi coetanei, un sabato, si recarono a Kew in fitta schiera con l'idea di noleggiare una barca per vogare fino a Richmond e ritorno; uno della comitiva, un giovanotto mezzo matto di nome Joskins, che era andato un paio di volte sulla barca della giostra, aveva detto che il canottaggio era divertentissimo. Arrivarono al posto di noleggio delle barche che la marea si stava già ritirando rapidamente e s'era levata una brezza violenta che soffiava sul fiume, ma tutto questo non li disanimò, e si accinsero a scegliere un'imbarcazione.
C'era una iole a otto remi alata in secco sul piano inclinato dello scalo, e fu quella che impressionò la loro fantasia, sicché la chiesero con molta insistenza. Il proprietario si era allontanato e aveva lasciato lì un suo figlioletto il quale cercò di smorzare il loro ardore per la iole e offri, invece, due o tre barche d'aspetto molto pacifico, di quelle per gite familiari; ma essi non ne vollero sapere, erano convinti che per far più bella figura ci voleva la iole a otto remi.
Il ragazzino la varò ed essi si scamiciarono e si prepararono a sedersi ai loro posti. Il ragazzino consigliò a George (il quale già a quei tempi era il più grosso di tutta la brigata) di mettersi al numero quattro... George si dichiarò felicissimo di essere il numero quattro e subito andò a prua e si sedette con le spalle alla poppa. Gli altri, poi, riuscirono finalmente a farlo sedere in posizione appropriata e si imbarcarono anch'essi.
Nominarono timoniere un ragazzo eccessivamente nervoso al quale Joskins impartì le regole principali per manovrare la barca.
Joskins si elesse capobarca, motu proprio. Agli altri disse che la cosa era molto semplice: bastava che obbedissero a lui.
Tutti annunziarono che erano pronti ed il ragazzino, dall'imbarcatoio, prese un gancio d'accosto e li scostò.
Ciò che accadde poi, George non è in grado di descriverlo nei particolari. Ha il confuso ricordo di avere ricevuto subito, al momento della partenza, una botta tremenda nelle parti molli della schiena, prodotta dal girone del remo del numero cinque e, allo stesso tempo, dell'impressione che il suo sedile gli sfuggisse di sotto per magia lasciandolo seduto sul pagliuolato. Notò anche la strana circostanza che il numero due, allo stesso momento, giaceva alle sue spalle in fondo alla barca, con le gambe all'aria, evidentemente in preda a una crisi di convulsioni.
Passarono sotto il ponte di Kew, traversati e alla velocità di otto miglia all'ora. Unico a vogare: Joskins. George, ricuperato il suo posto sul sedile, cercò di aiutarlo, ma, avendo messo il remo in acqua, questo, immediatamente e con sua intensa sorpresa, sparì sotto la barca e quasi se lo trascinò dietro.
E il timoniere gettò entrambi i cordoni della barra in acqua e scoppiò in lacrime.
Come siano tornati indietro, George non l'ha mai saputo; ma v'impiegarono quaranta minuti. Una fitta folla seguiva lo spettacolo dal ponte di Kew con molto interesse, e ognuno gridava consigli, dando istruzioni differenti. Tre volte riuscirono a riportare l'imbarcazione indietro, attraverso l'arcata del ponte, e tre volte furono riportati sotto a questa, e ogni volta che il timoniere alzando gli occhi vedeva il ponte sulla sua testa scoppiava in nuovi singhiozzi.
Dice George che quel pomeriggio non credeva davvero che gli sarebbe mai piaciuto realmente andare in barca.
Harris è più pratico di voga in mare che del lavoro sul fiume, e afferma che, come esercizio fisico, lo preferisce. Io no. Io ricordo d'essere uscito in una piccola imbarcazione, l'estate scorsa, a Eastbourne: anni fa facevo parecchia voga in mare e perciò pensavo che tutto sarebbe andato bene; ma scoprii di avere completamente dimenticato l'arte. Quando un remo era bene immerso nell'acqua, l'altro si agitava furiosamente in aria. Per agguantare l'acqua con entrambi contemporaneamente dovetti mettermi in piedi. La passeggiata a mare era affollata d'un pubblico nobile ed elegante, e io dovetti sfilare dinanzi a loro vogando in quel modo ridicolo. Presi terra a metà della spiaggia, e mi procacciai i servizi d'un vecchio barcaiolo per riportarmi indietro.
Mi piace osservare un vecchio barcaiolo mentre voga, specialmente poi se è uno noleggiato a ore. Il suo sistema ha qualcosa di solenne, di riposante. In lui non vedete nulla di quella fretta confusa, di quello sforzo veemente che avvelena ogni giorno di più la vita del diciannovesimo secolo. Egli non pensa neanche di affrettarsi per superare gli altri e se un'altra barca lo raggiunge, e lo lascia indietro, egli rimane indifferente; di fatti, lo sorpassarono tutti - tutti quelli che facevano la stessa strada. Credo che una cosa simile irriterebbe altri, ma la sublime severità del barcaiolo da noleggio, di fronte a questa dura prova, ammonisce contro l'ambizione e l'orgoglio.
La comune vogata, tanto per spingere avanti la barca, non è arte difficile da imparare; ma perché un uomo si senta sicuro di sé quando sfila davanti alle ragazze ci vuol molta pratica. Quello che imbarazza il principiante è il "tempo". - Ma sai che è buffo?
- dice lui, quando per la ventesima volta in cinque minuti libera il suo remo che continua a intrecciarsi col vostro; -quando sono solo, vogo magnificamente.
E' divertentissimo, infatti, vedere due novellini che tentano di vogare a tempo. Il prodiere trova che è impossibile andare a tempo col capo voga, perché il capo voga ha un così straordinario modo di vogare. Questo fa indignare fortemente il capo voga, il quale spiega che da dieci minuti non sta facendo altro che tentare di adattarsi alle limitate capacità del prodiere. Il prodiere diventa a sua volta insolente e dice al capo voga di non interessarsi di quello che fa lui e di pensare soltanto a vogare a tempo.
- Oppure devo prendere io il tuo posto e scandire il tempo? - aggiunge perfettamente convinto che così le cose andrebbero perfettamente a posto.
Se ne vanno sguazzando per un altro centinaio di metri, con risultato sempre più mortificante; ma poi, come un lampo di ispirazione, tutta la ragione dei loro guai si svela al capo voga.
- Adesso te lo dico io, che cos'è: è che tu ti sei preso i miei remi! - grida rivolto al prodiere: - dammeli qua.
- Adesso capisco, perciò mi meravigliavo di non farcela con questi, - risponde il prodiere, completamente sicuro e collaborando attivamente per fare il cambio. - Ora andremo benissimo.
E invece no non va neanche allora. Ora il capo voga, per vogare, deve allungare le braccia fino a staccarsele quasi dalle giunture mentre i remi del prodiere, a ogni momento lo colpiscono violentemente al petto. Allora rifanno il cambio concludendo che il barcaiolo ha dato loro due coppie di remi sbagliati e, prendendosela con l'assente a una voce, finiscono per ritrovare la loro amicizia e la simpatia reciproca.
George disse che per cambiare gli era venuta spesso l'idea di imparare a spingere con la pertica. Spingere con la pertica non è così facile come sembra. E' come per la voga. Si fa presto ad apprendere come si va innanzi e come ci si ferma, ma prima di farlo con dignità e senza farsi salire l'acqua sopra le maniche ci vuol molto esercizio.
Io conobbi un giovanotto che la prima volta che provò a spingere il sandalo con la pertica fu vittima di un accidente sgradevole.
Egli se la cavava molto bene e acquistò confidenza con la manovra fino a divenire imprudente tanto che andava da poppa a prua e da prua a poppa per manovrare la pertica con grazia spensierata che a vederlo era un piacere. Correva fino alla punta del sandalo, piantava la pertica e camminava verso l'altra estremità con la sicurezza di un vecchio praticone. Era grande, davvero.
E avrebbe continuato ad essere grande se, sfortunatamente, guardandosi intorno per godersi il panorama, non avesse fatto un passo, soltanto un passo di più del necessario e non fosse andato a finire fuori del sandalo. La pertica era saldamente infilata nel fondo, immobile, e lui vi rimase appeso mentre il sandalo se ne andava per conto suo.
La posizione in cui rimase non era molto distinta. Un monello che stava sulla sponda subito chiamò un compagno gridandogli: - Corri, c'è una scimmia vera aggrappata a un Palo.
Io non potevo correre in suo aiuto perché la scalogna volle che non ci fossimo portati una pertica di ricambio e quindi rimasi sul sandalo a guardarlo. La sua espressione, mentre la pertica si abbassava con lui pencolante, io non la dimenticherò mai: v'era in essa molta ponderazione.
Lo osservai mentre lentamente cadeva in acqua e lo vidi dimenarsi tutto bagnato e triste. Era così ridicolo che non potei fare a meno di ridere e non la smisi per un bel pezzo ma poi, improvvisamente compresi che in fondo c'era poco da ridere. Alla fine dei conti ero rimasto solo su di un sandalo, senza pertica, abbandonato alla mercé della corrente e, forse, correndo in direzione di una cascata.
Allora cominciai a sentirmi molto sdegnato verso il mio amico che era saltato fuori di bordo e se ne era andato a quel modo. Poteva lasciare la pertica, per lo meno.
Scivolai così sulla corrente per un quarto di miglio e poi vidi una chiatta da pesca ancorata in mezzo al fiume. Sopra c'erano due pescatori. Essi si accorsero che li avrei investiti e gridarono perché deviassi.
- Non posso! - dissi io.
- E perché non ci prova? - chiesero loro.
Arrivato più vicino spiegai la cosa ed essi mi afferrarono e mi imprestarono una pertica. A quaranta metri c'era la cascata e quindi fui molto contento che essi si fossero trovati lì.
La prima volta che vogai con la pertica fu in compagnia di altri tre amici i quali dovevano mostrarmi come si fa. Siccome non potevano partire tutti assieme io dissi che sarei andato giù per primo e avrei provveduto al noleggio di un sandalo, avrei bighellonato un po' ed avrei fatto un po' di pratica fino al loro arrivo.
Ma quel pomeriggio non mi fu possibile avere il sandalo, erano tutti occupati e non mi rimase da far altro che sedermi sulla sponda a guardare il fiume in attesa degli amici.
Mi ero seduto da poco quando la mia attenzione fu attratta da un uomo su un sandalo, che, e questa scoperta mi sorprese, portava una giacca e un berretto eguali ai miei. Evidentemente era un principiante e il suo modo di vogare era interessantissimo. Quando affondava la pertica non si sapeva mai che cosa sarebbe successo; era chiaro che non lo sapeva neanche lui. A volte spingeva verso monte e a volte verso valle, altre volte non faceva che rigirarsi intorno alla pertica. Ma quale che fosse il risultato delle sue spinte egli se ne mostrava sempre meravigliato ed irritato.
Tutta la gente che era lì intorno si fermava per osservarlo con la maggior curiosità e molti scommettevano fra loro su quello che sarebbe successo alla prossima puntata della pertica.
Nel frattempo erano arrivati i miei amici e si erano fermati a guardare dall'altra riva. Egli voltava le spalle in modo che essi videro solo la giacca e il berretto e immediatamente conclusero che ero io, il loro caro compagno, che si esercitava e le loro risate non conobbero limiti. Cominciarono a beffeggiarlo senza pietà.
Subito non afferrai l'errore e pensai: - Ma che volgarità da parte loro, fare così; e poi, con uno sconosciuto!
Però, prima che potessi gridare per rimproverarli, avevo compreso il qui pro quo e perciò mi nascosi dietro un albero.
Ma quanto si divertirono a prendere in giro quel ragazzo! Stettero lì per cinque buoni minuti a gridare improperi, a deriderlo, a scimmiottarlo e a fargli sberleffi. Lo ricoprirono di tutte le volgarità di ordinaria amministrazione e finite queste ne inventarono delle nuove per mortificarlo. Gli scaraventarono addosso tutte le parolacce di uso intimo fra noi e che quindi per lui dovevano essere assolutamente incomprensibili. Alla fine lui non sopportò più tanta beffa, si voltò ed essi videro il suo viso.
Sono lieto di assicurare che nei loro animi c'era ancora un resto di vergogna, perché li vidi rimanere come tre cretini. Gli dissero che lo avevano scambiato per un loro conoscente e che speravano di non essere giudicati capaci di insultare a quel modo una persona che non fosse un loro amico del cuore.
Certo, l'averlo scambiato per un amico scusava il loro comportamento.
Ricordo che Harris mi raccontò una sua avventura a Boulogne. Lui stava nuotando vicino a riva quando improvvisamente si sentì afferrare di dietro per la nuca e cacciare a forza sott'acqua. Lui si dibatté con tutte le forze ma quello che lo aveva agguantato doveva essere un vero Ercole e quindi tutta la sua reazione fu inutile. Arrivò al punto di dover smettere di lottare e pensò di rivolgere i suoi ultimi pensieri alle cose solenni, ma in quel momento l'avversario mollò.
Harris si rimise in piedi e si voltò per vedere chi era il suo quasi-assassino. Costui gli stava accanto e se la rideva a squarciagola ma nel momento in cui scorse la faccia di Harris che usciva dall'acqua, fece un passo indietro e rimase perplesso.
- Oh! - mi scusi tanto, - balbettò tutto confuso; - l'avevo scambiato per un mio amico.
Harris ringraziò Dio che quello non lo avesse scambiato per un suo parente, perché lo avrebbe affogato di certo.
Anche il veleggiare richiede esperienza e allenamento, invece io, da ragazzo, non la pensavo così. Credevo che fosse un senso naturale dell'uomo, come il rotolarsi per terra, o il tatto.
Conoscevo un altro ragazzo che aveva la stessa convinzione e perciò, in una giornata di vento, decidemmo di cimentarci in quello sport. Ci trovavamo a Yarmouth e optammo per un viaggetto sul fiume Yare. Affittammo una barca al posto vicino al ponte e partimmo.
- La giornata è piuttosto brutta, - ci avvisò l'uomo mentre staccavamo, - sarà meglio prendere una mano di terzaruolo, e fare orza alla banda quando scapolate la curva.
Gli rispondemmo che non avremmo dimenticato le sue istruzioni, lo salutammo con un lieto "buona giornata" chiedendoci internamente come si orzi alla banda e chi ce la dovesse dare, quella mano (di terzaruolo), nonché cosa farcene, una volta avutala.
Vogammo fino a portarci fuori di vista della città e poi sentimmo che era venuto il momento di iniziare le operazioni per fendere la grande distesa d'acqua che ci stava dinanzi approfittando del vento che vi soffiava sopra come un vero uragano.
Hector (mi pare che si chiamasse così) continuò a vogare mentre io svolgevo la vela. Era un faccenda complicata ma alla fine ci riuscii e subito si presentò il problema d'indovinare qual era il lato superiore.
Grazie a una specie d'istinto innato, noi, s'intende, finimmo col decidere che la parte di sotto era quella di sopra, e ci mettemmo al lavoro per disporla alla rovescia. Ma per montarla ci volle un tempo enorme indipendentemente da come doveva essere sistemata.
Certamente la vela aveva la convinzione che stessimo giocando ai funerali ed io ero il cadavere e lei era il sudario.
Quando poi comprese che non era questa la nostra idea mi batté in testa col boma e si rifiutò a ogni altro movimento.
- Bagnala, - disse Ettore, - mettila in acqua e bagnala.
Ettore disse che i marinai delle navi bagnano sempre le vele prima di issarle. La bagnai ma ciò servì solo a peggiorare le cose. Una vela asciutta che vi si avvinghia per le gambe e vi avvolge la testa non è una cosa piacevole, ma quando essa è bagnata la cosa diventa assai snervante.
Fra tutt'e due, però, finimmo con l'issarla. La issammo non proprio alla rovescia (sarebbe più giusto dire "di sghembo") e la legammo all'albero con la barbetta, che tagliammo apposta.
La barca non si capovolse, questa è una constatazione di fatto. Il perché non si capovolse io non lo posso spiegare. Spesso ci ho pensato da allora, ma non sono mai riuscito a darmi una spiegazione plausibile di quel fenomeno.
Forse quel risultato lo dovemmo al naturale spirito di contraddizione di tutte le cose di questo mondo. Credo che la barca, giudicando da quel che comprese dal nostro comportamento, si sia convinta che noi eravamo andati al largo per suicidarci di mattina presto e che abbia voluto contraddirci. Questa è l'unica ipotesi che io mi senta di fare.
Tenendoci agguantati alla frisata, riuscimmo giusto giusto a restare dentro l'imbarcazione, ma fu lavoro spossante. Hector disse che i pirati e altra gente di mare, durante le grosse tempeste, provvedono, generalmente, a legare il timone a qualche cosa, e rientrano il fiocco, e che anche noi dovevamo fare qualcosa del genere; io, per conto mio, preferivo lasciare che l'imbarcazione facesse di testa sua col vento.
Visto che il mio consiglio era di gran lunga più facile da seguirsi, finimmo per seguirlo e concentrammo tutti i nostri sforzi per rimaner abbracciati ai bordi e lasciar andare.
La barca volò sulla corrente per circa un miglio ad una velocità che io non ho più raggiunto facendo vela, e che, francamente, non desidero mai più raggiungere. Poi, a una curva, s'inchinò fino a mettere metà della vela in acqua; poi si raddrizzò da sola come per miracolo e si diresse a tutta corsa verso un bassofondo di fanghiglia molle.
Quel banco di fango fu la nostra salvezza. La barca lo arò e vi si incollò. Allora ci accorgemmo di essere ancora in grado di muoverci secondo i nostri desideri, invece di esser sbatacchiati qua e là come piselli in un tamburo; strisciammo fino a prua e ammainammo la vela tagliando i cavi.
Oramai eravamo andati a vela abbastanza. Non avevamo nessuna intenzione di strafare e di arrivare alla sazietà. Vela, l'avevamo fatta - sul serio, al completo, in abbondanza - e ora pensammo di andare a remi, tanto per cambiare un poco.
Afferrammo i remi e cercammo di staccare la barca dal fango; ma nello sforzo un remo si ruppe. Dopo di che, procedendo con molta attenzione, continuammo nel tentativo, ma di certo quello era un paio di remi fradici e anche il secondo si ruppe con facilità maggiore del primo, e rimanemmo abbandonati a noi stessi.
Il fango si estendeva per una cinquantina di metri dinanzi a noi; dietro c'era l'acqua. L'unica cosa da fare era sedersi e aspettare che qualcuno passasse.
La giornata non era di quelle che invitano i gitanti sul fiume e quindi prima che apparisse un'anima passarono tre ore. Era un vecchio pescatore il quale riuscì a salvarci con grande difficoltà e ci rimorchiò ignominiosamente fino al cantiere della imbarcazione.
Tutta la festa, tra la mancia all'uomo che ci aveva ricondotto alle nostre case, il risarcimento dei remi rotti e il noleggio per quattro ore e mezzo, ci costò un gran numero di stipendi settimanali di papà.
Ma facemmo un'esperienza e, come si dice, l'esperienza non si paga mai troppo cara.
CAPITOLO 16
Reading - Rimorchiati da una lancia a vapore - Condotta irritante delle piccole barche a remi - Come esse intralciano le lance a vapore - George e Harris fanno di nuovo gli scansafatiche - Una storia piuttosto comune - Streatley e Goring.
Alle undici venimmo in vista di Reading. Qui il fiume è sporco e opprimente. Nelle vicinanze di Reading non si indugia. La città stessa è un fumoso abitato antico che risale ai tempi duri di re Ethelred quando i danesi ancorarono le loro navi da guerra nel Kennet e partirono da Reading per saccheggiare tutto il territorio del Wessex, e fu qui che Ethelred e suo fratello Alfred li affrontarono e li sconfissero in una battaglia durante la quale Ethelred pregava e Alfred combatteva.
In seguito pare che Reading fosse diventato un posto conveniente per andarci a cercar rifugio quando a Londra cominciava a spirare aria di epidemia. Ogni volta che a Westminster sorgeva una minaccia pericolosa il Parlamento scappava a Reading e, nel 1625, la Legge seguì l'esempio e tutti i tribunali e le corti funzionarono a Reading. Credo che i londinesi fossero lieti di una lieve epidemia ogni tanto per liberarsi sia dei deputati sia degli avvocati.
Per tutta la durata della lotta parlamentare Reading fu presidiata dal conte di Essex e un quarto di secolo dopo il principe di Orange vi batté le truppe di re Giacomo.
Enrico Primo giace a Reading, sepolto nella badìa dei benedettini da lui stesso qui fondata e le cui rovine sono tuttora visibili, e in questa stessa badia il grande John di Gaunt andò sposo a Lady Blanche.
Alla chiusa di Reading ci incontrammo con una lancia a vapore appartenente ad alcuni miei amici ed essi ci rimorchiarono fino ad un miglio da Streatley. Esser rimorchiati da una lancia a vapore è una vera delizia; io lo preferisco all'andare a vapore. Però avremmo potuto godercela ancor di più se non fosse stato per una quantità di vilissime barche piccole che si mettevan continuamente sulla strada della nostra lancia e, dovendo evitare di investirle, eravamo costretti a fermare e a rallentare ogni minuto. La condotta di queste barche a remi che si mettono sempre fra i piedi delle lance a vapore sul fiume è veramente fastidiosa, occorrerebbe proprio fare qualcosa per porre fine a una tale indecenza.
E poi, il bello è che sono di una sfacciataggine incredibile.
Avete un bel fischiare fino a far quasi scoppiare le caldaie: non si scomodano per farvi strada. Se potessi fare a modo mio ne affonderei un paio ogni tanto, così imparerebbero.
Non appena si lascia Reading il fiume ritorna molto piacevole. Nei pressi di Tilehurst la sua bellezza è forse sciupata dalla ferrovia, ma dalla chiesa di Mapledurham a Streatley è radioso.
Poco a monte della chiesa di Mapledurham si passa Hardwick House dove Carlo Primo giocava a bocce. Credo che il sobborgo di Pangbourne con la sua originale locanda chiamata "Il cigno" debba essere non meno familiare agli "habitués" delle esposizioni d'arte che agli stessi abitanti del luogo.
La lancia dei miei amici ci mollò proprio sotto la "grotta" e allora Harris si mise in testa che toccava a me vogare. La pretesa mi parve estremamente irragionevole. Di mattina avevamo stabilito che io avrei tirato la barca fino a tre miglia dopo Reading.
Orbene, adesso eravamo a dieci miglia al di là di Reading! Si poteva dubitare che ora fosse di nuovo il loro turno?
Però non riuscii a far sì che George ed Harris vedessero la cosa nella giusta luce, e per non far storie presi i remi. Era già più di un minuto che vogavo quando George vide qualcosa di nero che galleggiava e remammo in quella direzione. Appena vicini George si abbassò e l'afferrò. Subito si trasse indietro cacciando un urlo e impallidendo.
Era il corpo di una donna, morta. Giaceva a fior di acqua e aveva il viso dolce e tranquillo. Non era un viso bello, sembrava prematuramente invecchiato, troppo sottile e stirato per esser bello; ma era un viso distinto, simpatico a dispetto dei segni del dolore e della povertà, e su di esso aleggiava ancora l'espressione di riposante pace che appare talvolta sul volto degli ammalati quando finalmente la sofferenza li abbandona.
Fortuna volle - visto che non avevamo nessuna voglia di dover ciondolare e perdere tempo negli uffici del "Coroner" - che alcuni uomini dalla sponda avessero visto il cadavere anch'essi e noi glielo consegnammo.
Dopo sapemmo la storia di quella donna. Sempre la stessa vecchia, vecchia e comune tragedia. Aveva amato ed era stata ingannata - o s'era ingannata da sola. Certo è che aveva peccato - anche fra di noi c'è qualcuno che pecca ogni tanto - e i suoi e gli amici, naturalmente sorpresi ed indignati, le avevano chiuso la porta in faccia.
Rimasta sola a combattere contro il mondo, con quella pietra al collo che era la sua onta, era caduta sempre più in basso. Per un certo tempo era riuscita a sostentare se stessa e il bambino con i dodici scellini alla settimana che dodici ore di sgobbo al giorno le procuravano, pagando sei scellini per il mantenimento del bambino, e, col resto, tenendo la propria anima attaccata al corpo.
Ma quest'operazione, con sei scellini, non riesce molto bene.
Anima e corpo, quando tra loro il vincolo è così labile, tendono a separarsi; e un giorno, immagino, il dolore e la tetra monotonia di tutto ciò le erano apparse davanti agli occhi con maggior chiarezza del solito, e quello spettro beffardo l'aveva spaventata. Aveva rivolto un ultimo appello agli amici; ma, contro il muro freddo della loro rispettabilità, la voce della reietta era rimasta inascoltata. Ed ella era andata a vedere il suo bambino, se l'era tenuto fra le braccia, l'aveva baciato in un modo stanco, apatico, senza tradire un'emozione particolare d'alcun genere, e l'aveva lasciato mettendogli in mano una scatola di cioccolatini da pochi centesimi che gli aveva comperata. Poi, con gli ultimi pochi scellini, aveva preso il biglietto e se n'era venuta a Goring.
Intorno ai tratti di fiumi fiancheggiati da boschi e da prati d'un verde vivace, intorno a Goring, si concentravano a quanto pare i pensieri più amari della sua esistenza; ma è stranezza delle donne quella di tenersi stretto il coltello che le trafigge e può anche darsi che, in mezzo alle afflizioni e alle amarezze si mescolassero ricordi radiosi di ore dolci, trascorse sopra quelle acque ombrose sulle quali i grandi alberi inclinano così in basso i loro rami.
Aveva vagato tra i boschi in bordo all'acqua tutto il giorno e poi, caduta la sera, mentre il crepuscolo grigio stendeva il suo manto d'ombra sulle acque, ella stese le braccia verso il fiume silenzioso che aveva conosciuto la sua gioia e il suo dolore. E il vecchio fiume l'aveva accolta nelle sue braccia affettuose, e aveva fatto tacere la sua pena.
Goring sulla sponda destra e Streatley sulla sinistra sono due posti egualmente incantevoli per un breve soggiorno. Il tratto a valle di Pangbourne invita a veleggiare col sole e a remare col plenilunio, e tutta la campagna intorno è piena di attrattive.
Quel giorno avevamo intenzione di spingerci fino a Wallingford, ma il dolce volto sorridente del fiume ci allettò e ci fece indugiare; lasciammo perciò la barca al ponte ed andammo a mangiare al "Toro" di Streatley con gran gioia e soddisfazione di Montmorency.
Dicono che le colline ai due lati del fiume una volta fossero unite e formassero una barriera dov'è oggi il Tamigi e che allora il fiume finisse in un grande lago sopra Goring. Non ho la necessaria competenza per contraddire o avallare questa dichiarazione; la registro soltanto.
Streatley è un paese antico che, come molti altri sul fiume, nacque al tempo dei britanni e dei sassoni. Goring non è un posto così grazioso da fermarcisi, come Streatley, quindi dovendo scegliere... però non è del tutto trascurabile e inoltre è prossimo alla ferrovia per il caso che vogliate filarvela senza pagare il conto dell'albergo.
CAPITOLO 17
Giorno di bucato - Pesca e pescatori - L'arte della lenza - Un coscienzioso pescatore con la mosca - La storia di un pesce.
Rimanemmo due giorni a Streatley e ci facemmo lavare i panni.
Prima avevamo tentato di lavarceli da noi, nel fiume, sotto la direzione di George. Ma era stato un disastro, anzi, a dire la verità, peggio di un disastro perché con i panni lavati da noi avevamo un aspetto peggiore di prima. Prima che li lavassimo essi erano sporchi, sporchissimi, è vero, ma si potevano indossare.
Dopo che li avevamo lavati... Be'! il fiume tra Reading ed Henley era diventato molto più pulito, dopo che avemmo lavati i nostri panni, di quanto non lo fosse stato prima, poiché tutta la sporcizia che conteneva tra Reading ed Henley noi la raccogliemmo nel lavare e la trasferimmo nei nostri panni.
La lavandaia di Streatley disse che per quel bucato si sentiva in dovere verso se stessa di farci pagare il triplo della tariffa.
Disse che non le era parso di lavare, ma che aveva avuto la sensazione di vangare.
Pagammo la nota senza fiatare.
I dintorni di Streatley e di Goring sono un grande centro di pesca. V'è la possibilità di pescarci magnificamente. In quel punto il fiume è ricco di lucci, di ghiozzi, e di anguille; potete accomodarvi a pescare per tutta la giornata.
Alcuni lo fanno ma non prendono mai niente. Non ho mai conosciuto un cristiano che abbia pescato qualcosa nel Tamigi, eccetto qualche invisibile pesciolino e gatti morti, ma ciò non ha niente a vedere con lo sport della pesca!
La locale guida del pescatore non accenna affatto al pescare qualcosa, si limita a dire che "il punto è un buon punto per pescare"; ed io, per quanto ho visto lì intorno, sono pronto ad appoggiare questa dichiarazione.
In tutto il mondo non c'è un altro posto in cui potete pescare di più o per un più lungo tempo. Alcuni pescatori vengono qui e pescano per una giornata, altri ci si fermano a pescare per un mese. Potete stabilirvi qui e pescare per anni, se vi pare, è sempre lo stesso.
La "Guida del pescatore nel Tamigi" afferma che in questo luogo si pescano il luccio e il pesce persico; ma qui la guida si sbaglia.
Forse il luccio e il pesce persico CI SONO da quelle parti. Anzi, ne ho la prova. Infatti, li potete vedere benissimo sul bassofondo, quando andate a spasso lungo gli argini; essi arrivano a spingersi a metà fuori dell'acqua con la bocca aperta in attesa del biscottino. Se poi fate un bagno lì vi si ammassano d'intorno, vi si mettono fra i piedi e vi fanno perdere la pazienza. Ma, "pescati" col pezzettino di verme e simile roba, non abboccano.
Io, personalmente, non sono un buon pescatore. Vi fu un momento in cui dedicai molto tempo a questo sport e stavo facendo progressi, credo; ma un vecchio pescatore mi disse che non sarei mai diventato un campione e mi consigliò di rinunciare. Disse che io ero un lanciatore ottimo e che sembrava che ci fossi molto portato, oltre a possedere la necessaria pigrizia costituzionale.
Tuttavia egli era certo che come pescatore non sarei mai riuscito a nulla. Per insufficienza di immaginazione.
Disse che avrei potuto dare buoni risultati come poeta, o come scrittore di romanzi brivido, o come reporter o roba del genere, ma che per farsi un nome come pescatore del Tamigi occorre fantasia più fertile, maggior capacità di invenzione di quanto sembrassi possederne io.
Molta gente crede che tutto quello che occorre per fare un buon pescatore sia la capacità di dire facilmente le bugie senza arrossire, ma questo è un errore. La bugia semplice è sfrontata e inutile; la più vile matricola sarebbe capace di farlo. Il pescatore sperimentato lo si riconosce, invece, nei dettagli circostanziali, nei tocchi di abbellimento e di veridicità, nell'espressione di persona scrupolosa, quasi pedante e veritiera.
Chiunque può dire: - Sentite, ieri sera presi quindici dozzine di pesci persico. - Oppure: - Lunedì scorso tirai a terra un ghiozzo di circa dieci chili che misurava novanta centimetri dalla testa alla coda.
Per questo genere di discorsi non occorre arte, non occorre ingegno. Tutto al più essi dimostrano temerarietà.
No, il pescatore finito si vergognerebbe di dire una bugia di questo genere. Il suo metodo è scientifico.
Egli entra tranquillamente con il cappello in testa, si sceglie la sedia più comoda, accende la pipa e comincia a mandar buffetti in silenzio. Lascia che i giovani si sfoghino a dir spacconate per un poco e poi, durante una momentanea pausa si toglie la pipa dalla bocca e mentre scuote la cenere dal bocciuolo dice:
- Be'! martedì sera feci una retata di quelle che forse è meglio non parlarne con nessuno.
- Oh! e perché? - gli si chiede.
- Perché sono certo che se lo dicessi nessuno mi crederebbe, - risponde pacatamente il vecchio senza nessun accenno di amarezza nella voce. Poi si mette a ricaricar la pipa e chiede all'oste di portargli tre dosi di whisky con ghiaccio.
Succede una pausa perché nessuno se la sente di contraddire il vecchio signore e perciò lui stesso deve continuare il discorso senza attendere incoraggiamenti.
- No, - dice soprappensiero; - io stesso non ci crederei se qualcuno me lo raccontasse, ma, invece, è un fatto. Ero rimasto lì tutto il pomeriggio e non avevo preso letteralmente nulla eccetto poche decine di lucci ed una ventina di carpe, ed ero sul punto di chiudere la pessima giornata quando sento tirar piuttosto violentemente la lenza. Pensai che si trattasse di un altro pesciolino e tirai. Accidenti! non riuscivo a far muovere la canna. Mi ci volle mezz'ora - mezz'ora, signori miei - per tirare a terra quel pesce e ad ogni momento pareva che la lenza si spezzasse. Finalmente lo afferrai! Immaginate un po' che cos'era?
Uno storione! uno storione di quasi venti chili! preso alla lenza, signori miei! Capisco, capisco la vostra sorpresa; per favore, oste, un altro triplo whisky.
E continua così dicendo che tutti quelli che lo videro si meravigliarono, quello che disse sua moglie quando arrivò a casa e quello che pensò Joe Buggles.
Una volta domandai al padrone di una locanda sul fiume se quei racconti dei pescatori dei dintorni non gli facessero voltar lo stomaco e lui rispose:
- Oh, no, ormai non più, signor mio. Al principio mi disgustavano un po', ma ormai io e mia moglie li ascoltiamo per giornate intere. Ci si abitua, sa, ci si abitua.
Conobbi un tizio che era sconosciutissimo e che quando cominciò la pesca con la mosca decise di non aumentare i suoi bottini di più del venticinque per cento.
- Quando prendo quaranta pesci, - diceva - dico che ne ho presi cinquanta e così via. Ma non mentirò mai più di così; perché a mentire si fa peccato.
Ma poi si accorse che il piano del venticinque per cento non andava. Infatti non era mai riuscito ad applicarlo. Il maggior numero di pesci che fosse mai riuscito a pescare era di due o tre e in questo caso non si può calcolare il venticinque per cento - perlomeno quando si tratta di pesci.
Visto questo aumentò la percentuale a trentatré-e-un-terzo, ma anche così si trovava in difficoltà quando ne pescava uno o due; occorreva semplificare il conto e decise di fare il doppio esatto.
Adottò questo nuovo calcolo, ma dopo un paio di mesi se ne stancò.
Quando diceva che aveva aumentato soltanto del doppio nessuno gli credeva e quindi neanche questo metodo gli fece acquistare molto credito e anzi la sua moderazione lo metteva in svantaggio tra gli altri pescatori. Se aveva preso tre pesci e diceva di averne presi sei ecco che un altro che ne aveva preso uno soltanto diceva di averne preso una dozzina e lo faceva ingelosire.
Dovette fare un altro compromesso con se medesimo, che sta rispettando ancora oggi religiosamente, e cioè di moltiplicare ogni pesce che pescava per dieci e di cominciare il conto con dieci. Per esempio, se non pescava neanche un pesce diceva di averne pescati dieci; - quel sistema non gli permetteva di pescare mai meno di dieci pesci - questa era la base su cui era fondato.
Poi, se per caso ne pescava veramente uno, lo chiamava venti e due pesci contavano per trenta, tre per cinquanta, e così via.
E' un sistema semplice ed elementare tanto in uso che negli ultimi tempi si sente dire che sia stato adottato dalla confraternita dei pescatori in generale. Infatti il Comitato dell'Associazione dei Pescatori del Tamigi ne raccomandò l'adozione circa due anni or sono, ma alcuni dei vecchi membri si opposero. Opinarono che era consigliabile mettere allo studio il progetto che il numero venisse raddoppiato e ogni pesce contasse per venti.
Se qualche volta, trovandovi sul fiume, avrete una serata senza occupazioni, vi consiglierei di entrare in una delle locande dei paesetti lungo la riva e sedervi nella sala di mescita. E' quasi certo che vi troverete qualcuno di quei vecchi pescatori consumati intenti a sorbire il loro ponce, pronti a raccontarvi tante storie di pesca in mezz'ora da darvi l'indigestione per un mese.
Io e George - non so cosa ne fosse stato di Harris, era uscito nel primo pomeriggio per andare a farsi la barba, poi era tornato ed aveva passato cinque minuti buoni per darsi il bianchetto sulle scarpe, ed era sparito e non si era più visto - dunque, io e George e il cane, vistici abbandonati la seconda sera, andammo a fare una passeggiata a Wallingford e rincasando facemmo una capatina in una locanduccia sull'argine, per riposarci e per qualche altro fine.
Entrammo nel bar e ci sedemmo. C'era solo un vecchio che fumava la pipa di gesso e, naturalmente, cominciammo a chiacchierare con lui.
Ci disse che oggi era stata una bella giornata e noi gli dicemmo che ieri era stata una bella giornata e poi ci dicemmo l'un l'altro che credevamo che domani sarebbe stata una bella giornata; George aggiunse che il raccolto pareva promettere molto bene.
Dopo di ciò fra una chiacchiera e l'altra venne fuori che noi eravamo forestieri e che saremmo ripartiti il giorno seguente.
La conversazione si interruppe e in quella pausa noi volgemmo gli occhi in giro per la sala. Il nostro sguardo si fermò su di una vecchia e polverosa custodia di vetro attaccata alla parete molto al di sopra del caminetto, nella quale c'era una trota. Quella trota mi lasciò quasi a bocca aperta; era un pesce enorme tanto che, a prima vista, lo avevo scambiato per un merluzzo.
- Ah! - disse il vecchio seguendo la direzione del mio sguardo. - Un bell'esemplare, non è vero?
- Assolutamente fuori dell'ordinario, - mormorai io, e George chiese al vecchio quanto, secondo lui, potesse pesare.
- Nove chili e due etti, - disse l'uomo alzandosi e andando a prendersi il soprabito. - Sissignori, - continuò, - il giorno tre del mese venturo faranno sedici anni giusti che la pescai. La presi proprio sotto il ponte e all'amo avevo messo un verme! Mi avevano detto che essa era nel fiume e io dissi che l'avrei presa io, e così feci. Ormai in questi paraggi non si vedono più molti pesci di questa grandezza, credo. Buonanotte, signori, buona notte.
Se ne uscì e ci lasciò soli.
Noi dopo quel racconto non riuscivamo più a staccare gli occhi dalla trota. Non c'è dubbio che fosse un pesce davvero eccezionale. Stavamo ancora incantati quando il facchino dell'albergo, che era appena rientrato nella locanda, si fece sulla porta della stanza con un boccale di birra in mano e si mise anche lui a fissare il pesce.
- Una trota di buon peso, quella, - disse George voltandosi verso di lui.
- Ah! lo potete ben dire, signori, - rispose l'uomo; e poi, dopo aver tracannato un sorso della sua birra, aggiunse: - Forse voi, signori, non c'eravate quando fu pescata?
- No, - gli dicemmo e gli rivelammo che eravamo forestieri di quei posti.
- Oh! - disse il facchino, - è vero, allora non potevate esserci.
Quella trota la pescai io cinque anni fa.
- Oh! ma allora fu lei a pescarla? - dissi io.
- Sissignore, - rispose quel bel tipo. - La presi proprio sotto la chiusa, - cioè dove c'era la chiusa allora - un venerdì dopo colazione; e la cosa più straordinaria è che la presi con una mosca. Stavo pescando lucci, figuratevi, mai più pensavo alle trote e quando vidi questo bestione all'estremità della lenza, vi assicuro che non so come non mi venne un colpo. Pensate, tredici chili! Buonanotte, signori, buona notte.
Cinque minuti dopo eccone un terzo che ci descrive come lui l'aveva catturata di mattina presto con un alicino e se ne va; poi arriva un tizio dall'aria scema e solenne, un uomo di mezza età e si siede presso la finestra.
Per un pezzo nessuno parla ma alla fine George gli si rivolge e dice:
- Scusi, sa, spero che vorrà perdonare la confidenza che noi - completamente forestieri dei dintorni - ci prendiamo, ma questo mio amico ed io stesso le saremmo molto grati se ci volesse dire chi ha pescato quella trota che sta lassù.
- Oh bella! Chi ve l'ha detto che fui io a pescare quella trota? - fu la stupita domanda con cui rispose.
Rispondemmo che non ce lo aveva detto nessuno ma che istintivamente, senza sapere né il perché né il per come, sentivamo che doveva esser stato lui a pescarla.
- Cosa formidabile, realmente formidabile, - rispose ridendo quella faccia da idiota: - poiché la verità è che avete perfettamente ragione. La catturai io. Ma è formidabile che voi l'abbiate indovinato; cosa davvero formidabile.
E cominciò anche lui la storia per dirci come avesse impiegato mezz'ora per tirarla su e come gli si fosse rotta la canna. Disse che l'aveva pesata scrupolosamente non appena arrivato a casa e che la bilancia si era abbassata a quattordici chili e mezzo.
Se ne andò anche lui a sua volta e dopo entrò il padrone. Gli dicemmo delle varie storie che avevamo sentito circa la sua trota ed egli ci si divertì un mondo, così tutti e tre ci facemmo un sacco di risate.
- Ma guarda un po'! Jim Bates e Joe Muggles e il signor James e il vecchio Billy Maunders che vengono a raccontare di averla pescata loro! Ah! Ah! Ah! Questa sì che è buona, - disse il buon vecchio ridendo di cuore. - Sissignori. Quelli son proprio i tipi che se l'avessero presa loro l'avrebbero data a me, l'avrebbero messa nel mio bar, se l'avessero presa loro.
E così ci raccontò la vera storia del pesce. Lo aveva pescato lui, lui stesso, anni fa, quando era ancora un ragazzino, ma non per effetto di perizia o di astuzia, solo per quella strana fortuna che sembra favorire sempre i ragazzi quando marinano la scuola e in un bel pomeriggio di sole se ne vanno a pescare sul fiume con un pezzo di spago legato ad un ramicello di albero.
Disse che portando a casa quella trota si era salvato da una bella bastonatura e che persino il suo maestro di scuola aveva detto che il pesce valeva la regola del tre semplice e tutti i compiti assieme.
In quel momento lo chiamarono e dovette uscire; George ed io rivolgemmo lo sguardo al pesce.
Non c'era dubbio, era una trota impressionante Più la guardavamo e più ci sentivamo attratti e sbalorditi.
George ne rimase così affascinato che salì sulla spalliera di una seggiola per guardarla meglio.
E successe che la sedia scivolò e George si afferrò con tutte le forze all'urna di vetro per non cadere, e quella strapiombò con uno schianto e George e la sedia vi si abbatterono sopra.
- Non avrai mica rovinato il pesce? - gridai io tutto allarmato accorrendo.
- Spero di no, - disse George alzandosi con cautela e guardandosi intorno.
Invece l'aveva rovinato. La trota era lì, rotta in mille frammenti - dico mille, ma forse erano novecento soltanto. Non li contai.
Ci sembrò strano che una trota imbalsamata fosse andata in pezzi a quel modo.
Ed infatti sarebbe stato strano ed inconcepibile se fosse stata una trota imbalsamata, ma non lo era.
Era una trota di gesso!
CAPITOLO 18
Chiuse - Io e George fotografati - Wallingford - Dorchester - Abingdon - Un uomo casalingo - Un buon posto per affogare - Un tratto d'acqua difficile - L'aria del fiume è avvilente.
Il mattino seguente di buon'ora partimmo da Streatley e vogammo fino a Culham dove dormimmo sotto il tendone in una lanca del fiume.
Tra Streatley e Wallingford il Tamigi non è eccessivamente interessante. Da Cleve in poi vi è un tratto di sei miglia e mezzo senza neanche una chiusa. Credo che sia il tratto ininterrotto più lungo a monte di Teddington, e il Club di canottaggio di Oxford lo usa per i suoi "otto con" di prova.
Ma per quanto utile ai vogatori possa essere questa assenza di chiuse, dal punto di vista del cercatore di svaghi è deplorevole.
Io sono innamorato delle chiuse. Esse rompono piacevolmente la monotonia del viaggio. E' tanto bello starsene seduti nella barca e sentirsi sollevati lentamente dalla fredda profondità degli sbarramenti su, verso nuovi ambienti e altri panorami; oppure sentirsi calare, come fuori del mondo, e attendere che i battenti oscuri scricchiolino e l'esile striscia della luce solare fra essi si vada ingrandendo fino a che il bel fiume sorridente vi si stende dinanzi, e voi spingete la vostra barchetta fuori dalla momentanea prigionia e ritornate di nuovo alle acque accoglienti.
Queste chiuse sono cantucci pittoreschi. Il vecchio e grosso custode della chiusa, oppure la sua gaia moglie, o la figliuola dagli occhi luminosi sono, diciamo piuttosto che ERANO, gente cordiale con cui potete chiacchierare durante la manovra. Vi si incontrano altre barche e si scambiano pettegolezzi fluviali.
Senza le chiuse il Tamigi non sarebbe quel luogo di incanti che è.
Parlando di chiuse mi ricordo di un accidente che per poco non fu fatale a me e a George a Hampton Court in una mattina d'estate.
Era una magnifica giornata. Lo sbarramento della chiusa era pieno e, come di solito avviene sul fiume, un fotografo ambulante voleva ritrarre tutti noi che ci trovavamo sull'acqua montante.
Al principio non mi accorsi di quello che stavano facendo e quindi rimasi molto sorpreso nel vedere George che in tutta fretta si stirava i pantaloni, si ravviava i capelli e si accomodava il berretto alla malandrina sulla nuca e poi, assumendo un'espressione mista di affabilità e di tristezza, posava in grazioso atteggiamento cercando di nascondere i piedi.
Al primo momento pensai che avesse scorto qualche ragazza conosciuta e guardai in giro per vedere chi fosse. Tutti, nella chiusa sembravano esser diventati di legno. Stavan seduti o ritti negli atteggiamenti più strambi e comici che io abbia mai visto disegnati sui ventagli giapponesi. Le ragazze sorridevano. Oh!
com'eran carine! E tutti i giovani aggrottavano le ciglia in nobile e contegnosa espressione.
Finalmente la verità mi illuminò e mi chiesi se avrei fatto in tempo anch'io a mettermi in posa. La nostra era la prima barchetta e pensai che sarebbe stato poco gentile da parte mia sciupare la fotografia.
Così mi misi subito di faccia e presi posizione a prua appoggiandomi al sostegno con noncurante grazia, un signorile atteggiamento di inerzia e di elasticità. Mi detti un'aggiustatina ai capelli in modo che un ricciolo mi cadesse sulla fronte e misi nella mia espressione un'aria di tenera tristezza assieme ad una punta di cinismo che, dicono, mi si addice.
Mentre stavamo lì in attesa del grande evento sentii una voce dietro a me che gridava:
- Ehi! attento al naso!
Non potei voltarmi per vedere cosa succedeva e a chi appartenesse il naso cui bisognava stare attenti. Detti una occhiata in tralice al naso di George ma vidi che era a posto, per lo meno nessuno dei suoi difetti era eliminabile per il momento.
Feci gli occhi strabici per guardare anche il mio naso, nulla.
- Attento al naso, lì, pezzo di somaro! - ricominciò più forte ancora la stessa voce.
Ed un'altra voce.
- Tirate via il naso, la capite o no? Voi, voi due col cane.
Né io né George osavamo muoverci. La mano del fotografo stringeva già il coperchietto dell'obiettivo e il ritratto stava per essere scattato da un momento all'altro. Ce l'avevano con noi quelli che gridavano? E che c'entravano i nostri nasi? Perché li dovevamo tirar via?
Ma ormai tutta la chiusa gridava ed una voce stentorea dietro di noi urlò:
- Attenti alla vostra barca, signori; dico a quello, sì, lei, col berretto rosso e nero. Se non fate presto il fotografo farà il ritratto dei vostri cadaveri!
Allora guardammo e vedemmo che il naso della nostra barchetta si era infilato sotto un battente della chiusa e vi rimaneva fisso in modo che l'acqua arrivava tutt'intorno e ci alzava da dietro. Solo un altro momento e ci saremmo capovolti. Ciascuno di noi, ratto come il pensiero, afferrò un remo ed un vigoroso colpo alla porta della chiusa liberò la barca e mandò noi due a cadere riversi sul fondo.
Io e George in quella fotografia non venimmo bene. Infatti, com'era da aspettarselo, la mala sorte aveva voluto che il fotografo mettesse in funzione la sua sciaguratissima macchina nel momento esatto in cui noi due eravamo caduti sul dorso ed avevamo sul viso un selvaggio interrogativo:
- Dove mi trovo? Che succede? - mentre quattro gambe si agitavano freneticamente nell'aria.
In quella fotografia i nostri piedi erano come l'articolo di fondo, dopo di che poc'altro si vedeva. Essi riempivano completamente il primo piano. Dietro di essi si scorgeva qualcosa delle altre barche e qualche pezzettino dello scenario circostante, ma tutto e tutti quelli nella chiusa al paragone dei nostri piedi sembravano così insignificanti e miserelli che la gente si vergognò di se stessa e rifiutò di comperare la fotografia.
Il proprietario di una lancia a vapore che ne aveva prenotato sei copie, vista la riuscita, sospese l'ordinazione e disse che però se le sarebbe prese se qualcuno fosse stato capace di mostrargli la sua lancia; ma nessuno ci riuscì: era completamente nascosta dal piede destro di George.
Quell'affare provocò una quantità di incidenti poco piacevoli. Il fotografo pretendeva che noi due, visto che occupavamo nove decimi della fotografia, ne comprassimo una dozzina di copie per ciascuno, ma noi ci rifiutammo. Dicemmo che non avevamo nulla in contrario ad esser fotografati per intero ma che avremmo preferito di esserlo in posizione verticale.
Wallingford sta a sei miglia a monte di Streatley ed è una città antichissima che fu un centro molto attivo nella fabbricazione della storia inglese. Al tempo dei britanni era un paese costruito col fango e quel popolo vi rimase finché le legioni romane non li scacciarono e non sostituirono i loro muri di terra cotta con possenti fabbricazioni di cui il tempo non è ancora riuscito a spazzar via la traccia, perché i muratori dell'antichità sapevano fabbricare molto bene.
Ma il tempo, pur essendosi fermato dinanzi alle mura romane, ben presto ridusse in polvere i romani stessi, e in quel posto, negli anni che seguirono, combatterono i sassoni selvaggi e i danesi giganteschi fino alla venuta dei normanni.
Al tempo della guerra parlamentare, Wallingford fu città fortificata e cintata e subì un assedio lungo e duro da parte di Fairfax. Alla fine cadde e le mura furono rase al suolo.
Da qui a Dorchester i dintorni del fiume diventano più collinosi, più mossi, più pittoreschi. Dorchester rimane a mezzo miglio dalla riva. Vi si può arrivare se si ha una barchetta molto piccola, risalendo un piccolo corso d'acqua, ma il miglior modo per andarci è quello di lasciare il fiume alla chiusa di Day e farsi una passeggiata attraverso i campi. Dorchester è un posticino tranquillo, delizioso ed antico; se ne sta annidato nel silenzio, nella quiete, in eterno dormiveglia.
Dorchester, come Wallingford, era già una città ai tempi dell'antica Bretagna; allora si chiamava Caer Doren, "La città sull'acqua". In epoca più recente i romani vi alzarono un grande accampamento e le fortificazioni che allora la circondavano ora sembrano collinette basse e piatte. Ai tempi dei sassoni fu capitale del Wessex. E' molto antica e fu molto forte e molto potente, una volta. Ora se ne sta in disparte, lontano dal mondo tumultuoso, a sonnecchiare e a sognare.
Nei pressi di Clifton Hampden, che è un graziosissimo villaggio all'antica, tranquillo e delicato, pieno di fiori, lo scorcio fluviale è bello ed opulento. Se dovete pernottare a Clifton il meglio da fare è di scendere al "Falciatore". Direi che è, senza eccezioni, la locanda più originale e più all'antica di tutto il fiume. Rimane alla destra del ponte, isolata dall'abitato. Gli androni bassi, il tetto di paglia e le finestre con inferriate le conferiscono un aspetto da libro di fate e nell'interno è ancora di più stile "c'era una volta".
Non sarebbe il luogo adatto per l'eroina di un romanzo moderno.
L'eroina di un romanzo moderno è sempre "divinamente alta", e sempre "si erge in tutta la sua statura". Nella locanda del "Falciatore" batterebbe la testa contro il soffitto ogni volta che si ergesse.
Quel posto non converrebbe neanche ad un ubriacone. Vi sono troppe sorprese che si presentano sotto forma di gradini imprevisti che scendono in una stanza o salgono in un'altra; e poi, l'andarsene in camera da letto, e trovare il proprio letto quando si è arrivati, sarebbero due operazioni assolutamente impossibili per lui.
Al mattino ci alzammo presto perché volevamo arrivare a Oxford nel pomeriggio. E' ammirevole come si possa alzarsi presto quando si campeggia. Non si ha quasi nessuna voglia dei "cinque minuti soli ancora" quando si sta sdraiati sul bordo di una barca, ravvolti in una coperta e con una valigia per guanciale, come invece succede quando si è in un bel letto di piume. Alle otto e mezzo avevamo già fatto colazione e stavamo innalzandoci nella chiusa di Clifton.
Da Clifton a Culham le sponde del fiume sono piatte, monotone e scialbe, ma una volta passata la chiusa di Culham - la più fredda e la più profonda delle chiuse del Tamigi - il panorama migliora.
Ad Abingdon il fiume corre parallelo alla strada. Abingdon è il tipico paesello di campagna dell'ultimo ordine: quieto, immutabilmente austero, pulito e mortalmente noioso. Tutto il suo orgoglio consiste nell'essere una cittadina antica, ma sembra improbabile che possa gareggiare in antichità con Wallingford e Dorchester. Una volta c'era una badìa famosa e su quello che è rimasto delle sue mura ora fabbricano la birra.
Da Abingdon a Nuneham Courtenay c'è un tratto di fiume molto simpatico. Il parco di Nuneham merita una visita. Ingresso libero al martedì ed al giovedì. Il palazzo contiene una bella collezione di quadri e di rarità e le aiuole di fiori sono molto graziose.
Il laghetto di Sandford, che sta proprio vicino alla chiusa, è un ottimo luogo per potervi affogare. La corrente subacquea è molto forte e se ci capitate dentro siete conciati per le feste. C'è una colonna che indica il posto dove sono già annegate due persone che stavano facendo il bagno e i gradini della base di questa colonna vengono normalmente usati come trampolino dai ragazzi che si tuffano per vedere se il posto è veramente pericoloso.
Ad un miglio da Oxford c'è la chiusa di Iffley che con il suo mulino è il soggetto favorito dei fiumaroli della Confraternita del Pennello. Ma dopo aver visto i quadri che quelli fanno, il panorama modello diventa piuttosto deludente. Poche cose di questo mondo, mi pare di aver notato, sono all'altezza delle loro riproduzioni pittoriche.
Superammo la chiusa di Iffley verso mezzogiorno e mezzo e poi, dopo aver messo ordine sulla barca e aver preparato tutto per andare a terra, ci mettemmo al lavoro per superare l'ultimo miglio.
Il tratto di Tamigi più difficile che io sappia è proprio quello tra Iffley ed Oxford. Per conoscerlo occorrerebbe esserci nati dentro. Ci sono stato un mondo di volte ma non sono mai riuscito a capirci un accidente. L'individuo che fosse capace di remare dritto da Iffley ad Oxford sarebbe anche il tipo capace di vivere sotto lo stesso tetto con la moglie, la suocera, la sorella maggiore e la vecchia serva che stava già in casa quando lui era ancora in fasce.
La corrente vi trascina prima contro la sponda destra, poi vi afferra e vi porta in mezzo, vi rigira per tre volte per riportarvi a monte e finisce sempre cercando di mandare a fracassare la barca contro una chiatta di collegiali in vacanza.
Naturalmente, a causa di ciò, mentre percorrevamo quel miglio, andammo a finire sulla rotta di altre barche ed altre vennero ad intralciare noi, il che fece volare una quantità di male parole.
Io non ne capisco il perché, ma sul fiume tutti sono tremendamente irascibili. Delle cosette da nulla che a terra non si noterebbero neppure vi fanno quasi impazzire di rabbia, se avvengono in acqua.
Quando Harris e George stando a terra si danno scambievolmente del cretino, io sorrido d'indulgenza; quando invece si comportano da testoni stupidi sul fiume io li apostrofo con un linguaggio da far gelare il sangue. Se un'altra barca si mette sulla mia strada io sento l'istinto di prendere un remo e far strage della gente che vi sta dentro.
Persone che a terra hanno il carattere più mite, una volta sul fiume diventano violente, sanguinarie. Una volta feci una piccola escursione in barca con una signorina. Naturalmente era una delle anime più soavi e gentili che si possa immaginare; sul fiume, a sentirla, era infernale:
- Oh! guarda quel bestione! - esclamava quando qualche disgraziato remava e veniva sulla rotta: - perché non pensa a guardare dove va?
Oppure: - Accidentaccio a quel vecchio e stupido straccio! - diceva tutta indignata se la vela non saliva bene. E l'afferrava e la scuoteva brutalmente.
Eppure, come stavo dicendo, quando era sulla sponda era un cuor d'oro e simpaticissima.
L'aria del fiume ha un effetto avvilente sui nostri nervi; è questo, credo, che fa litigare fra di loro i barcaioli e fa sì che essi usino un linguaggio che, senza dubbio, ripudiano nei momenti di calma.
CAPITOLO 19
Oxford - L'idea che Montmorency ha del paradiso - La barca da nolo sull'alto Tamigi, le sue bellezze e i suoi vantaggi - "L'orgoglio del Tamigi" - Cambiamento del tempo - Il fiume sotto differenti punti di vista - Una serata poco allegra - Anelando all'irraggiungibile - S'intrecciano liete conversazioni - George si produce col banjo - Una melodia funebre - Un'altra giornata di pioggia - Fuga - Una cenetta e un brindisi.
A Oxford passammo due giornate molto piacevoli. Nella città di Oxford abbondano i cani. Montmorency il primo giorno si azzuffò undici volte e quattordici il secondo; evidentemente si convinse di essere arrivato in paradiso.
Le persone costituzionalmente troppo deboli o costituzionalmente troppo pigre - sia quello che sia - hanno per abitudine di godersi la remata contro corrente prendendo a nolo una barca ad Oxford e discendendo a valle. Le persone energiche, però, preferiscono il viaggio contro corrente. C'è molta più soddisfazione a sgranchirsi le spalle e a lottare contro di essa e a conquistarsi il cammino; per lo meno quando, come nel mio caso, George ed Harris sono ai remi ed io sto al timone.
A coloro che scelgono Oxford come punto di partenza per la discesa, io vorrei dire: portate la barca vostra, a meno che, naturalmente, non possiate prendere quella di qualcun altro senza pericolo di esser scoperti.
Le barche che di regola si affittano sul Tamigi dopo Marlow sono ottime barche. Tengono bene l'acqua e se le trattate a modo raramente vanno in pezzi o affondano. In esse vi è posto abbastanza per sedersi e sono fornite di tutto il necessario - o quasi tutto - perché possiate remare e governare.
Ma non sono decorative. La barca che si può avere a nolo oltre Marlow non appartiene a quel tipo di barca con la quale potete brillare e darvi arie sul fiume. La barca d'affitto dell'alto Tamigi smorza immediatamente questi desideri innocenti nei suoi occupanti. E questa, forse, è la sua prerogativa principale, anzi, l'unica.
L'uomo che sta in una barca d'affitto è modesto e timido. Lui se ne va di lato, nell'ombra, sotto le piante e viaggia per lo più di mattina presto o a sera tardi, quando sul fiume non c'è troppa gente che lo guarda.
La persona della barca d'affitto dell'alto Tamigi quando vede qualche conoscente, corre a riva e si nasconde dietro un albero.
Durante una gita estiva facevo parte di una comitiva che prese una barca dell'alto Tamigi a nolo, per un viaggetto di pochi giorni.
Nessuno di noi aveva mai visto di quelle barche d'affitto e quando le vedemmo non ci si rese conto di cosa fossero.
Avevamo scritto per una barca, - uno schifo a quattro remi - e quando arrivammo con i bagagli avanti al nostro uomo, l'uomo disse:
- Bene, bene. Loro sono la comitiva che scrisse per uno schifo a quattro remi. Sta bene. Jim, porta "L'orgoglio del Tamigi".
Il ragazzino andò e cinque minuti dopo riapparve spingendo a fatica una specie di tronco d'albero antidiluviano che pareva fosse stato scavato allora da qualche parte e scavato anche senza farci molta attenzione perché ne era uscito con varie multiple.
Al primo sguardo che diedi a quell'oggetto mi venne l'idea che si trattasse di qualche rudere romano - rudere di che cosa non lo saprei dire, forse di un sarcofago.
I dintorni dell'alto Tamigi son pieni di ruderi romani e la mia supposizione mi parve molto probabile; ma uno dei nostri compagni, un tipo molto serio che è anche un po' geologo, commiserò la mia teoria del rudere romano e disse che anche un'intelligenza più che modesta (categoria questa in cui, a quanto pare, lui era dolente di non poter coscientemente includere la mia) avrebbe subito capito che l'oggetto esumato dal ragazzo era il fossile di una balena; egli ci espose varie prove attestanti che la balena doveva essere appartenuta all'era antecedente a quella del ghiaccio.
Per finirla con la discussione ci rivolgemmo al ragazzo dicendogli di non aver timore e di dire l'assoluta verità: era il fossile della balena pre-adamitica o uno dei primi sarcofaghi romani?
Il ragazzo disse che era "L'orgoglio del Tamigi".
Subito pensammo che la risposta era una graziosa spiritosaggine del ragazzo e qualcuno compensò la sua vivacità regalandogli qualche soldo; ma quando volle insistere un po' troppo con lo scherzo, secondo noi, ci adirammo contro di lui.
- Andiamo, giovanotto! - gli disse bruscamente il nostro capitano, - non stare a contar storie. Riporta a casa quella tinozza da bucato alla tua mamma e torna con una barca.
A questo punto arrivò il proprietario della barca in persona che assicurò, sulla sua parola di uomo del mestiere, che quella cosa era realmente un natante - era, infatti, la barca, lo schifo a quattro remi che egli aveva scelto per il nostro viaggio giù pel fiume.
Noi protestammo un bel po', almeno l'avesse imbiancata o incatramata - insomma avesse fatto qualcosa perché si distinguesse da un pezzo di relitto. Egli però, in questo, non vedeva nessuna mancanza da parte sua.
In verità sembrava quasi che le nostre osservazioni lo offendessero e disse che aveva scelto la barca migliore del suo magazzino e che aveva sperato in una maggior gratitudine.
Disse che quello, "L'orgoglio del Tamigi", così com'era adesso (o piuttosto così come si teneva ora senza sfasciarsi), per quel che ricordava lui, era in servizio da quarant'anni e nessuno mai prima di noi se ne era lamentato e quindi non vedeva ragione che dovessimo esser noi a cominciare.
Noi eravamo senza parola.
Cercammo di legare insieme la cosiddetta barca con qualche pezzo di corda e sui punti più in rovina incollammo della carta da parati che riuscimmo a trovare. Poi recitammo le nostre preghiere e c'imbarcammo.
Per l'affitto dei sei giorni rimanenti ci fecero pagare trentacinque scellini: e pensare che con quattro e mezzo avremmo potuto comprarci un affare simile in qualsiasi magazzino di legname per zattere lungo il fiume.
Al terzo giorno il tempo cambiò - oh! adesso sto parlando della presente escursione - e noi partimmo da Oxford pel viaggio di ritorno a casa, sotto una penetrante pioggerella.
Il fiume - con i raggi del sole che luccicano sulle piccole onde danzanti, che indorano i grigi tronchi delle rive, che scintillano attraverso il sentiero freddo e scuro scacciando le ombre dai fondali, che formano diamanti saltellanti sulle ruote dei mulini, che mandano baci ai gigli, che folleggiano con le bianche acque ribollenti, che inargentano i muri ed i ponti coperti di muschio, che animano ogni paesello rendendone gai i vicoli ed i prati, che s'intrecciano nei canneti, che sussurrano e ridono da ogni insenatura, che sfolgorano sulla vela, che rendono l'atmosfera dolce e radiosa - è un luminoso ruscelletto incantato.
Ma il fiume - freddo e stanco, con le gocce di pioggia che cadono incessantemente sulle acque scure e pigre, con il suo rumore simile al pianto sommesso di una donna chiusa in una stanza buia, mentre gli alberi neri e silenziosi, avvolti nel loro sudario di vapori, sembrano spettri ritti sulle sponde, spettri muti dallo sguardo offeso, come gli spettri del male, come gli spettri degli amici trascurati - non è che un corso d'acqua popolato da fantasmi attraverso la terra dei vari rimpianti.
La luce del sole è la linfa vitale della natura. Quando il sole se ne muore e lascia madre terra, essa ci guarda con occhi spenti, senz'anima. E allora ci prende la tristezza di esser con lei; essa sembra non conoscerci più, non interessarsi più a noi. E' una vedova che ha perduto l'amato marito e invano i figlioletti le toccano le mani, la guardano negli occhi: essa non sorride.
Remammo per tutta la giornata sotto la pioggia e, francamente, la cosa fu molto malinconica. Al principio ci volemmo convincere che ci piaceva. Dicemmo che era un cambiamento e che era bello vedere il fiume sotto i suoi diversi aspetti. Ci dicemmo che logicamente non potevamo aspettarci d'avere sempre il sole e neanche avremmo potuto pretenderlo. Ci dicemmo l'un l'altro che la natura è bella anche quando si scioglie in lagrime.
Io ed Harris durante le prime ore eravamo veramente entusiasti.
Cantammo una canzone di vita zigana nella quale si diceva che l'esistenza zingaresca è deliziosa; libera, sotto la tempesta e sotto il sole e contro ogni vento che possa soffiare! - e come se la gode quella pioggia lo zingaro e quale bene gli fa e come se la ride della gente che non si diverte come lui!
George, per conto suo, non si entusiasmò molto e mise mano all'ombrello.
Prima di colazione montammo il tendone e così lo tenemmo per tutto il pomeriggio lasciando solo un piccolo spazio scoperto a prua in modo che uno di noi potesse remare e vigilare. Facemmo così nove miglia e per quella sera ci spingemmo un po' oltre la chiusa di Day.
In coscienza non potrei dire che quella fu una serata allegra. La pioggia veniva giù tranquilla e persistente. Nella barca tutto, ormai, era umido ed appiccicoso.
La cena non fu una gran cosa. Il pasticcio di vitello freddo, quando non avete fame, vi stucca. Avrei desiderato una porzione di aringa novella ed una cotoletta. Harris farfugliò qualcosa circa le sogliole con la maionese e passò il resto del suo pasticcio a Montmorency il quale lo rifiutò e, evidentemente offeso, andò a sedersi tutto solo sull'altra estremità della barca.
George pretese che non parlassimo di quelle buone pietanze per lo meno fino a quando lui non avesse finito di mangiare il suo manzo lesso freddo senza mostarda.
Dopo cena ci mettemmo a fare una partitina a carte. Giocammo un'ora e mezzo e George vinse quattro soldi - George è sempre fortunato alle carte - ed io ed Harris perdemmo soltanto due soldi ciascuno.
Allora decidemmo di smettere di giocare d'azzardo; come ben disse Harris, il gioco, quando è interessato, genera idee malsane.
George invece voleva continuare ed offerse la rivincita, ma io ed Harris decidemmo di non sfidare ancora la sorte.
Dopo di che ci preparammo un ponce e rimanemmo seduti a chiacchierare. George ci raccontò di una persona di sua conoscenza che trovandosi sul fiume un paio di anni fa, aveva dormito in una barca umida, proprio durante una notte come questa, e si era preso le febbri reumatiche; non c'era stato nulla che lo potesse salvare e così era morto dieci giorni dopo tra atroci spasimi. George disse che quel tale era un giovanotto e, inoltre, era fidanzato.
Disse che quella fu una delle cose più tristi che egli avesse mai visto.
E questo ricordo fece venire in mente ad Harris il caso di un suo amico che era stato nei Volontari e che aveva dormito sotto una tenda durante una notte piovosa ad Aldeshot, durante una notte esattamente come questa, disse Harris; e quel tizio si era svegliato al mattino sciancato per tutta la vita. Harris disse che ci avrebbe presentati tutti e due noi a lui non appena di ritorno in città; disse che i nostri cuori, al vederlo, avrebbero sanguinato.
Tutto ciò, è ovvio, ci portò a discorsi molto spiacevoli sulla sciatica, sulle febbri, sui raffreddori, sulle malattie polmonari e sulle bronchiti; ed Harris fece notare quanto sarebbe stato grave se uno di noi si fosse ammalato di notte, mentre eravamo così lontani da un medico.
Parve che fosse spuntato in noi il desiderio di far qualcosa di più allegro che queste conversazioni ed io, in un momento di debolezza, proposi a George di mettere mano al banjo tentando di sonarci qualcosa di molto vivace.
Ad onore di George dirò che non si fece pregare. Non si tirò indietro dicendo che aveva dimenticato la musica per una causa o per l'altra. Ripescò subito lo strumento e cominciò la canzone "Due begli occhi neri".
Fino a quella sera "Due begli occhi neri" per me era stata una canzone piuttosto banale e quindi la vena di tristezza che George ne seppe trarre mi lasciò un po' sorpreso.
Io e Harris, mentre quelle note funeree incalzavano, fummo presi dal desiderio di gettarci l'uno nelle braccia dell'altro e di piangere; ma grazie a molto sforzo riuscimmo a frenare le lagrime ed ascoltammo in silenzio quella melodia struggente e spasmodica.
Al momento del ritornello facemmo perfino un sforzo disperato per sembrare allegri. Riempimmo di nuovo i bicchieri e accompagnammo il coro; Harris con voce tremante per la commozione interiore ed io e George rimanendo indietro di poche parole soltanto:
Due begli occhi neri Oh! quale incanto!
Solo per dire ad un uomo, ti sbagli Due...
A questo punto crollammo. Il pathos indicibile che George fu capace di mettere in quel "Due", dato lo stato di avvilimento in cui ci trovavamo, non lo potemmo sopportare. Harris singhiozzava come un bambino e il cane guaiva tanto che io temetti che il cuore o la gola gli sarebbero scoppiati di sicuro.
George voleva sonarne un'altra strofa. Disse che se avessimo imparato meglio il motivo avremmo potuto mettere più "abbandono" nel canto che, forse, non sarebbe sembrato così triste. Ma i sentimenti della maggioranza si opposero all'esperimento.
Siccome non c'era più niente da fare ce ne andammo a letto, cioè ci spogliammo e ci dimenammo per tre o quattro ore sulle tavole del fondo della barca. Dopo di che facemmo tutto il possibile per appisolarci di tanto in tanto e alle cinque del mattino ci alzammo e facemmo colazione.
La seconda giornata fu esattamente uguale alla prima. La pioggia continuò a cadere e noi ce ne stemmo avviliti negli impermeabili sotto il tendone, mentre la barca scivolava giù per il fiume trascinata dalla corrente.
Uno di noi tre - ora non ricordo chi, ma mi pare io stesso - durante la mattinata fece qualche tentativo per rianimarci esumando la vecchia canzone zingaresca dei figli della natura che si divertono sotto la pioggia - ma la cosa non riuscì. Quel:
Me ne impippo della pioggia!
era così dolorosamente esatto come espressione dei sentimenti di ciascuno di noi... che mi parve inutile cantarlo.
Noi, però, eravamo concordi su di un punto e cioè che avremmo portato a termine l'escursione a qualunque costo. Eravamo partiti per passare quindici giorni di svago sul fiume e avremmo dovuto goderci tutti e quindici i giorni di svago. Dovessimo anche rimetterci la pelle! ciò che sarebbe stata una cosa molto triste per gli amici e parenti, ma non c'era altro da fare. Sentivamo che abbandonare a causa del tempo avrebbe costituito un precedente molto disastroso nel clima in cui viviamo.
- Non ci mancano che due giorni, - disse Harris, - e noi siamo giovani e forti. Ce la caveremo benissimo, siatene certi.
Verso le quattro del pomeriggio cominciammo la discussione sul come ci saremmo sistemati per la notte. Ci trovavamo un po' più a valle di Goring e decidemmo pertanto di proseguire fino a Pangbourne per pernottarvi.
- Un'altra bella serata! - brontolò George.
Rimanemmo a pensare al programma. Saremmo arrivati a Pangbourne verso le cinque. Avremmo finito di cenare, mettiamo, alle sei e mezzo. Dopo di che avremmo potuto farci una passeggiatina sotto la pioggia fino all'ora di andare a dormire oppure avremmo potuto sederci in un bar in penombra e leggere l'almanacco.
- Be'! - disse Harris arrischiandosi a mettere la testa per un momento fuori dal tendone e dando uno sguardo al cielo. - Credo che al teatro Alhambra staremmo un po' allegri.
- Con una cenetta al... (Un formidabile ristorantino fuori mano nei pressi di..., dove a buon prezzo, per tre scellini e mezzo, vi serviranno un pranzetto o una cenetta alla francese, i migliori che io conosca, con un'ottima bottiglia di Beaume; ma non sono tanto idiota da dire dov'è. Nota dell'Autore) dopo la rappresentazione, - aggiunsi io quasi senza volerlo.
- Sì; è un vero peccato che abbiamo deciso di rimanere incollati a questa barca, - rispose Harris. Tali parole furono seguite da un lungo silenzio.
Poi George, gettando uno sguardo pieno di odio sulla barca, disse:
- Se non avessimo deciso di andare incontro a morte certa in questa vecchia barca, varrebbe la pena che io mi ricordassi di un treno che parte da Pangbourne subito dopo le cinque, ne son certo, e che ci porterebbe in città quasi in tempo per una bistecca, dopo di che potremmo anche andare al posto che dici tu.
Nessuno rispose. Ci guardavamo l'un l'altro e ciascuno vedeva le proprie intenzioni ed i propri pensieri dolorosi riflessi sui visi degli altri. Sempre in silenzio tirammo fuori il valigione e lo esaminammo. Osservammo il fiume a monte ed a valle, neanche un'anima viva si vedeva!
Venti minuti più tardi tre figure umane, seguite da un cane bianco per la vergogna, uscivano furtive dalla rimessa di barche dell'albergo "Cigno" e si avviavano verso la stazione ferroviaria abbigliate nei seguenti abiti né puliti né sfarzosi: scarpe nere di cuoio, sporche; vestiti di flanella da canottieri, sporchissimi; capelli scuri a cencio, sgualcitissimi; impermeabile molle di pioggia, ombrello.
Avevamo mentito al barcaiolo di Pangbourne perché non avevamo avuto la faccia di dirgli che stavamo scappando per la pioggia.
Avevamo abbandonato la barca con tutto quello che c'era dentro in sua custodia, dicendo che ce la tenesse pronta per le nove del mattino seguente. Se, dicemmo, se fosse dovuto accadere qualche imprevisto che ci avesse impedito di tornare, gli avremmo scritto.
Alle sette arrivammo a Paddington e ci facemmo portare in carrozza direttamente al ristorantino di cui ho parlato prima, dove gustammo un pasto leggero; lasciammo Montmorency e pregammo di prepararci il pranzo per le dieci e mezzo. Poi riprendemmo la strada per piazza Leicester.
All'Alhambra attirammo molta attenzione. Quando ci presentammo alla cassa ci dissero con cattive maniere che lo spettacolo era cominciato da mezz'ora e che ad ogni modo dovevamo entrare dalla porta di via Castle.
Non senza qualche difficoltà riuscimmo a far capire a quell'uomo che noi non eravamo i "rinomati contorsionisti mondiali delle montagne dell'Himalaia", così ci prese i soldi e ci lasciò passare. Nell'interno del teatro il successo fu ancora maggiore. I nostri visi abbronzati e gli abiti pittoreschi erano seguiti con sguardi di ammirazione. Eravamo l'attrazione di tutti gli occhi.
Fu un momento in cui ci sentimmo davvero orgogliosi.
Subito dopo il primo balletto ce ne andammo e corremmo al ristorante dove la cena già pronta ci attendeva.
Devo confessare che quella cena mi deliziò. Avevamo vissuto per dieci giorni, più o meno, a carne fredda, torte, pane e marmellata. La dieta era stata semplice e nutriente, ma in essa non vi era nulla di solleticante e invece l'odore del vino di Borgogna e il profumo delle salse francesi e la vista dei tovaglioli puliti e degli "sfilatini" di pane batterono alla porta del nostro interno come ospiti graditi.
Mangiammo e bevemmo in silenzio per un certo tempo fino a che non venne il momento in cui invece di esser seduti col torso eretto tenendo saldamente in mano forchetta e coltello, ci appoggiammo alla sedia e continuammo a mangiare lentamente, senza troppe cerimonie, poi allargammo le gambe sotto il tavolo, lasciammo cadere senza badarci i tovaglioli, lasciammo riposare i bicchieri sul tavolo alla distanza di un braccio e trovammo modo di esaminare con maggior senso artistico il soffitto affumicato e ci sentimmo buoni, pensierosi e generosi.
E allora Harris, che sedeva presso la finestra, scostò le cortine e guardò. La strada bagnata e scura luccicava, la scarsa luce delle lampade vacillava e la pioggia cadeva nelle pozzanghere e scendeva dalle grondaie nei rivoli lungo il marciapiede. Pochi passanti inzuppati transitavano alla svelta, curvi sotto gli ombrelli gocciolanti e le donne si tenevano su le sottane.
- Be'! - disse Harris allungando la mano verso il suo bicchiere, - è stato un bel viaggio e il mio cuore ne è grato al vecchio padre Tamigi, ma credo che abbiamo fatto bene a salutarlo al momento giusto. Alla salute di tre uomini fuori della barca!
E Montmorency, che ritto sulle gambe posteriori, davanti alla finestra, sbirciava fuori nella notte, fece una breve abbaiata unendosi decisamente al brindisi.