La ninfa dell'acqua

    

 (leggenda austriaca)

                                                                                                                   

      alfredo era un cavaliere forte e bellissimo.  Cavalcando egli un giorno lungo le rive del  Danubio, vide su un canneto, steso evidentemente ad asciugare, un velo bianco leggero  come la spuma del mare. Tanto gli piacque che lo prese in mano. Subito emerse dalle onde del fiume una fanciulla più bella d’ogni figlia della Terra, coi capelli d’oro fino e gli occhi di un azzurro intenso.

— Rendimi il velo, bel cavaliere, — supplicò la fanciulla con voce soavissima che, a udirla, faceva male al cuore per la soverchia dolcezza. — Io sono una figlia dell’acqua e abito in un palazzo di cristallo nel fondo del fiume. Ma, senza quel velo, io perderò ogni potere magico e dovrò vagare sulla Terra come una povera fanciulla mortale qualunque. Se tu esaudirai la mia preghiera, io t’insegnerò il luogo dove i nani hanno nascosto i loro tesori.

— Bella fanciulla, — rispose sorridendo il cavaliere — anch’io ho un palazzo, molto lontano di qui: se non è di cristallo, è tuttavia un bel palazzo e pieno zeppo di molte ricchezze e di magnifici cavalli. Che vuoi che m’importi dunque del tesoro dei nani?

— Allora — riprese la ninfa, turbata da quella risposta — allora t’insegnerò come devi fare per conoscere il futuro.

— Ben triste dono mi faresti! Conoscendo il futuro, verrei a perdere la speranza che è la gioia più bella della vita.

La bionda fanciulla non aveva più niente da promettere: impallidì, sospirò e grosse lagrime scesero dai suoi fulgidi occhi. Valfredo fu commosso da quel pianto. Guardava pietosamente la ninfa, e più la guardava e più gli piaceva.

— Sei bella, sei proprio bella, o figlia dell’acqua — le disse. — E se anche dovrai diventare una figlia della Terra, non sarà un gran male per te: sarai certamente la donna più bella del mondo. Suvvia, perché non mi sposi? Io ti farò regina di tutti i miei domini.

La ninfa sorrise, asciugandosi le lagrime.

— Ebbene — promise — se mi renderai il mio velo, ti prometto che diverrò tua sposa e, per seguirti, lascerà il mio splendido palazzo di cristallo e le mie bionde sorelle del Danubio.

Valfredo era bello e forte, ma anche molto ingenuo: non conosceva la malizia delle donne, non capì l’insidia che si nascondeva sotto quella promessa. E perciò si affrettò a porgere il velo alla ninfa. Ma questa, appena tornata in possesso del velo che agognava e nel quale solo risiedeva ogni sua forza magica, riconquistò immediatamente ogni suo potere soprannaturale: poté pertanto sprofondarsi e scomparire nel gorgo. Al povero cavaliere non restò altro che l’eco di una risata beffarda.

 

                                  ***                                                                                     

     La leggenda degli Edelweiss

                  

                                                      

                                        (leggenda austriaca)

        ran festa quella notte di plenilunio sulla vetta della montagna! Era nato un principino degli Edelweiss, e da ogni parte gli Elfi, ossia i folletti degli Edelweiss, creaturine gentili dalle alucce brillanti, accorrevano per porgere ai felici genitori le loro congratulazioni e per ammirare il graziosissimo neonato. La notte passò tutta tra danze e suoni, e quando spuntò l’alba, gli spiritelli a volo tornarono nelle loro dimore, ognuno dentro la corolla del proprio fiore. Chi avrebbe potuto pensare che nel bianco cuore di velluto delle belle stelle alpine si celassero così delicate creature?

Passarono i giorni, e il principino cresceva vigoroso e bello nel suo fiore, i cui petali splendevano appunto come i raggi di una stella e in mezzo aprivano lucenti occhi d’oro. Ma un giorno gli Edelweiss udirono uno strano rombo, un rovinio come di pietre che franassero:poveri fiori, che spavento provarono! Ed ecco sull’orlo del dirupo, all’ombra del quale gli Edelweiss crescevano, apparvero due enormi mani pelose che si aggrappavano tenacemente alla roccia; e furono subito dopo seguite da una testa gigantesca, mostruosa, e finalmente uno smisurato corpo si spenzolò in fuori e si lasciò cadere sulle balze. Un vecchio Edelweiss sussurrò all’orecchio del Re degli Elfi:

— E’ un uomo. Sono certo che è un uomo. Così infatti me lo aveva descritto mio nonno, che era riuscito a vederne uno. E so che gli uomini sono cattivi e fanno molto male ai fiori. Poveretti noi!

Il povero Re aveva una gran pena al cuore, mentre guardava con ansia il principino che, ignaro del pericolo, contemplava la straordinaria apparizione dell’uomo con lo stupore giocondo dei fanciulli. L’uomo intanto aveva già adocchiato il candido fiore.

— Oh, il bell’Edelweiss! — esclamò.

E, coltolo, lo infilò per lo stelo nel cappello. Il principino inesperto era felice di quella novità: non sapeva, il disgraziato, che prima di sera la sua piccola animuccia di fiore sarebbe morta! L’uomo si avviò cantando verso la valle, lasciando il regno degli Edelweiss nella più angosciata desolazione. La natura sorrideva come prima; ma ogni petalo di Edelweiss racchiudeva adesso una lagrima. La Regina rimase per lungo tempo priva di sensi, e il Re non pronunziò parola, poichè il dolore l’aveva schiantato. Passarono così giorni tristissimi su quella vetta di monte.

E venne il giorno che la Fata della Montagna uscì dalla sua caverna sotterranea di diamanti per visitare il regno degli Edelweiss: una visita che la Fata faceva ogni anno.

 — Come mai cosi tristi quest’anno? — domandò, meravigliata.

Il Re degli Edelweiss le raccontò allora quel che era successo: e gli tremava la voce, al povero Re, nel rievocare il doloroso ricordo del figlioletto colto dalla mano crudele dell’uomo.

La buona Fata s’impietosì tutta per i poveri Edelweiss: capiva lo strazio per quel che era accaduto e la preoccupazione per l’avvenire, per quel che poteva accadere ancora. Cercò di consolare quelle semplici creature.

— Io punirò — concluse — questa razza insaziabile degli uomini che fanno strage di ogni cosa gentile; vendicherò la morte del principino. Consolatevi: altri figli vi nasceranno belli e prosperosi; ma da questo momento, ve lo prometto e potete credere alla mia parola, nessun uomo potrà mai più cogliere un fiore di Edelweiss senza incontrare la morte.

E così fu. Gli Edelweiss si moltiplicano sulle rocce delle montagne; ma tutti quegli uomini che, attratti dal bianco splendore dei petali, si inerpicano sui picchi dirupati per raccogliere le stelle alpine, cadono sotto la vendetta della Fata: la roccia improvvisamente si stacca, precipita sotto i piedi degli incauti, ed essi finiscono miseramente nell’abisso.

Il più bel fiore delle Alpi, oh, no, non fiorisce per essere colto da mano umana!

                                         

 

 

                                 ***

                   Fate malmaritate

                                          

                                              (leggenda austriaca)

 

      elle Alpi austriache, presso un graziosa laghetto di alta montagna, vivevano un tempo alcune Fate gioviali e benevole. Esse danzavano al chiaro di luna, cantavano soavi canzoni, facevano fiorire i rododendri e le roselline di macchia su per i dirupi, amavano ogni cosa graziosa e gentile. Al contrario delle altre Fate che, un po’ altezzose, fanno vita a sé e non si mescolano volentieri agli abitanti del paese, queste erano molto affabili e alla mano: scendevano sin nel villaggio, chiacchieravano con le donne, davan loro buoni consigli, le aiutavano nelle loro faccende, curavano e guarivano i bambini malati e insomma spandevano largamente i loro benefici su tutti. Erano parecchie, tutte giovani e belle; ma due specialmente spiccavano sulle altre per la loro splendida bellezza: quelli del villaggio le avevano soprannominate la Fata Bianca e la Fata Rossa, dal colore dei vestiti che portavano. Di esse s’innamorarono due giovanotti del paese, due pastori. Le altre Fate sconsigliavano le loro sorelle di sposar uomini mortali.

— Queste nozze — dicevano saggiamente —tra creature cosi disparate non riescono mai bene.

Ma i due pastori insistevano, supplicavano, si mostravano cosi perdutamente innamorati, che le due Fate pietose acconsentirono finalmente alle nozze e li sposarono.

Non l’avessero mai fatto! Dopo qualche tempo, i pastori, che erano prima tanto appassionati e premurosi, cambiarono affatto maniere e divennero sgarbati e annoiati. Il marito della povera Fata Bianca giunse sino alla brutalità di percuoterla col bastone. In quanto alla Fata Rossa, sposando il suo pastore, gli aveva raccomandato di non pronunziar mai, per nessuna ragione, tre parole: «Faia, raia, retalaia ». Perché? Che cosa volevano mai dire queste tre misteriose parole proibite? Erano ingiurie? Erano minacce? Erano scongiuri pericolosi che compromettevano il potere magico delle Fate? Non lo sappiamo. Il pastore aveva riso di quella raccomandazione.

— Ma perché mai dovrei pronunziare queste tre parole, cosi difficili a dirsi e persino a ricordarsi?

Invece, forse proprio per la proibizione, le tre parole gli si erano impresse fortemente nella mente e giorno e notte gli turbinavano nel cervello. E una volta che, tornando a casa dal lavoro, aveva trovato la minestra senza sale (anche le Fate qualche volta si sbagliano e fan la minestra senza sale) s’imbestialì, perdette il lume dagli occhi e, scagliandosi come un  energumeno contro la moglie, col proposito deliberato di farle un gran dispetto, pronunziò le tre terribili parole:

— Faia, raia, retalaial

La povera Fata cominciò a tremar tutta, poi cacciò un grido disperato e scomparve.

Dopo questi affronti, i due matrimoni furono disciolti e le Fate se ne andarono tutte via dal paese. Una mattina una donna del villaggio, che stava stendendo il bucato lungo le siepi della strada maestra, le vide passare coi loro fagotti in testa: capì subito che se ne andavano.

— Come? Ci lasciate? — domandò sbigottita.

— Si, ce ne andiamo a cercar un paese dove i mariti siano più garbati e gentili.

 

 

                                  ***

                 

               Marco e le fate

                                           (leggenda austriaca )

          lma era la regina delle Fate; ma non era felice, anzi il suo cuore era pieno di tristezza, perché s’era innamorata di un giovane e bel cavaliere a nome Marco, che vedeva spesso passare nelle valli sottostanti alla montagna dove ella aveva il suo palazzo. La Fata aveva ogni sorta di premure affettuose per lui, sebbene Marco non le avesse nessuna riconoscenza e la trattasse anzi con gran disprezzo.

— Ahimè! — diceva la regina alle sue Fate — ahimè, Marco ha dimenticato i vecchi Dei dei suoi padri per un nuovo Dio che chiama Cristo, e passa davanti alle querce sacre, senza alcun segno di riverenza. Che cosa volete che gl’importi pertanto l’affetto di una Fata?

E la povera Alma piangeva. Ma un giorno che Marco, stanco della lunga cavalcata, era sceso dì sella e s’era buttato sul prato per riposare, Alma gli si era avvicinata senza che lui se ne accorgesse e, con la falce d’oro, gli aveva toccato le palpebre: il bel giovane s’era subito addormentato di un sonno profondo. La regina aveva chiamato a raccolta le Fate:

— Fate, Fate, aiutatemi voi. Marco donne di un sonno profondo. Prendetelo e trasportatelo nel mio palazzo di cristallo, su in alto, nella montagna, dove io lo costringerò a sposarmi.

Le Fate videro infatti il bel cavaliere addormentato sotto un cespuglio di biancospino:presero per le cocche il mantello sul quale dormiva, e si sollevarono agili a volo. Tuttavia, dopo un po’ di quel viaggio aereo, le scosse svegliarono il dormiente, che, aprendo gli occhi, riconobbe Alma che gli stava a lato.

— Che vuoi tu da me, o regina delle Fate? domandò Marco.

— Voglio portarti nel mio palazzo di cristallo per sposarti.

— Questo non potrà avvenir mai — rispose Marco; — perché tu sei una divinità pagana e io sono invece cristiano. Lasciami tornare nel mio castello dove mio padre e mia madre mi aspettano.

— Ma io ti farò felice, ti darò metà del mio regno e metà della mia sovranità sugli spiriti dell’aria.

— Preferisco la corona di stelle che Dio dà ai suoi eletti in Paradiso.

— Ti darò cibo che neanche i re della terra hanno mai assaggiato e berrai vini deliziosi in coppe d’oro.

— Preferisco il pane nero e l’acqua dei nostri anacoreti.

— Ti vestirò di velluti e di pietre preziose.

— Preferisco l’umile e rozzo saio dei frati. Bada che io ho qui con me, sul petto, un medaglione che racchiude una santa reliquia: essa basta per vincere tutti i vostri talismani, tutte le vostre stregonerie; e, se vi tocco con questa reliquia, sarete costretti a lasciarmi.

Allora Alma ordinò alle Fate di alzarsi anche più in alto nel cielo.

— Cosi — disse, rivolto al giovane cavaliere — se ti servirai della reliquia e obbligherai le mie Fate a lasciarti, cadrai nell’abisso e morrai.

— Beati coloro che muoiono per la loro fede  rispose Marco; — perché Dio li riceverà nella sua gloria.

E, cosi dicendo, cavò fuori la santa reliquia e con essa toccò le Fate, le quali, con grandi strida fuggirono via spaventate, in modo che il mantello, non più sostenuto, cadde giù nello spazio come un fiocco di neve. Tuttavia, per miracolo di Dio, il mantello restò tutto quanto aperto come un paracadute, si che scese lentamente lentamente e depose Marco sul prato senza fargli alcun male.

In tal modo il bel cavaliere si sottrasse al potere infernale delle Fate. E le Fate da quel giorno abbandonarono per sempre il paese.

 

                                 ***

             

           La fata filatrice

                                       (leggenda austriaca)

       n una baita solitaria delle Alpi austriache viveva una povera famigliola composta del padre, della madre e di una ragazza di tredici anni chiamata Clara. Questa era una fanciulla bella e buona, se non che era forse un po’ troppo pigra. I  genitori dovevano recarsi ogni giorno al lavoro in alta montagna e tornavano a casa la sera tardi; a casa restava di giorno la sola Clara, a cui i genitori affidavano un duplice compito:  vigilare le tre magre muccherelle che costituivano tutto il loro patrimonio e che durante il giorno pascolavano nel prato che era davanti alla baita; e intanto filare un’intera conocchia di lana. Ma guai se la sera i genitori  trovavano che la conocchia non era stata filata tutta: erano santissime sculacciate e castighi da non finire più, che tutti i giorni si facevano anzi più aspri.

La piccola Clara ne era afflittissima e prometteva solennemente che il giorno dopo sarebbe stata più laboriosa. E la buona intenzione c’era, ma il giorno dopo come resistere alla tentazione di correre un po’ per il prato, di cogliere i rododendri o le fragole nel bosco vicino, di darsi insomma bel tempo? La conocchia intanto era messa in disparte. E quando il sole cominciava a declinare e Clara pensava ai castighi sicuri che l’aspettavano se non filava, tornava a riprenderla e si dava un gran da fare a filare, a filare in gran fretta. Ma poi capiva che aveva preso male le misure del tempo e che ormai era troppo tardi per filare tutta la lana: allora, invece di raddoppiar gli sforzi, si accasciava, deponeva l’interminabile conocchia e si metteva a piangere disperatamente.

Una volta, mentre appunto piangeva cosi a capo chino, senti una voce dolcissima che le diceva amorevolmente:

— Perché piangi, bella bambina? Posso fare io per te qualche cosa che valga a consolarti?

 Alzò gli occhi, e dinanzi a sé vide una donna bellissima che la guardava con occhi pietosi. 

Clara, tra i singhiozzi, le raccontò come stavano le cose.

 — Non te ne prendere — disse la Fata, perché la donna bellissima era appunto una Fata — filerò io per te.

E, presa la conocchia di mano alla fanciulla, in un baleno la filò tutta.

— A me piacciono le bambine allegre — concluse la Fata; — tu pensa ad essere buona, a scherzare e a ridere; a filare la lana penserò io. Ti sta bene?

E detto ciò disparve. Da allora in poi la Fata compariva tutti i giorni alla stessa ora, filava la  lana e se ne andava. La pace e la serenità erano tornate nella casa di Clara, e anzi i genitori della fanciulla non facevano che lodare la sua obbedienza e la sua grande  laboriosità. Clara  tuttavia arrossiva a quegli elogi che sapeva di non meritare, e quando fu più grandicella, si vergognò di sfruttare a quel modo la benevolenza della Fata: volle perciò provare a filare da sola la conocchia, e naturalmente con la buona volontà ci riuscì benissimo. Vinse cosi la  pigrizia e divenne una giovinetta davvero laboriosa e perfetta.

                      

                ***                                                                    

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sovrabbondante
creatura mitologica, fanciulla molto graziosa
che brillano di una luce viva
ricchezze, poteri
tranello
cavità di piccole dimensioni, vortice del lago
roccia ripida
espresso solennemente
comportamento irragionevole
ondeggiare
aveva cambiato espressione
sfrontatamente
luoghi rocciosi, ripidi
molto diverse
creatura in preda all'ira
eremita del deserto
oggetto santificato
attrezzo per filare
dedita al lavoro