La ninfa dell'acqua
(leggenda austriaca)
— Rendimi il velo, bel cavaliere, — supplicò la fanciulla con voce soavissima che, a udirla, faceva male al cuore per la soverchia dolcezza. — Io sono una figlia dell’acqua e abito in un palazzo di cristallo nel fondo del fiume. Ma, senza quel velo, io perderò ogni potere magico e dovrò vagare sulla Terra come una povera fanciulla mortale qualunque. Se tu esaudirai la mia preghiera, io t’insegnerò il luogo dove i nani hanno nascosto i loro tesori. — Bella fanciulla, — rispose sorridendo il cavaliere — anch’io ho un palazzo, molto lontano di qui: se non è di cristallo, è tuttavia un bel palazzo e pieno zeppo di molte ricchezze e di magnifici cavalli. Che vuoi che m’importi dunque del tesoro dei nani? — Allora — riprese la ninfa, turbata da quella risposta — allora t’insegnerò come devi fare per conoscere il futuro. — Ben triste dono mi faresti! Conoscendo il futuro, verrei a perdere la speranza che è la gioia più bella della vita. La bionda fanciulla non aveva più niente da promettere: impallidì, sospirò e grosse lagrime scesero dai suoi fulgidi occhi. Valfredo fu commosso da quel pianto. Guardava pietosamente la ninfa, e più la guardava e più gli piaceva.
La ninfa sorrise, asciugandosi le lagrime. — Ebbene — promise — se mi renderai il mio velo, ti prometto che diverrò tua sposa e, per seguirti, lascerà il mio splendido palazzo di cristallo e le mie bionde sorelle del Danubio. Valfredo era bello e forte, ma anche molto ingenuo: non conosceva la malizia delle donne, non capì l’insidia che si nascondeva sotto quella promessa. E perciò si affrettò a porgere il velo alla ninfa. Ma questa, appena tornata in possesso del velo che agognava e nel quale solo risiedeva ogni sua forza magica, riconquistò immediatamente ogni suo potere soprannaturale: poté pertanto sprofondarsi e scomparire nel gorgo. Al povero cavaliere non restò altro che l’eco di una risata beffarda.
*** La leggenda degli Edelweiss
(leggenda austriaca)
Passarono i giorni, e il principino cresceva vigoroso e bello nel suo fiore, i cui petali splendevano appunto come i raggi di una stella e in mezzo aprivano lucenti occhi d’oro. Ma un giorno gli Edelweiss udirono uno strano rombo, un rovinio come di pietre che franassero:poveri fiori, che spavento provarono! Ed ecco sull’orlo del dirupo, all’ombra del quale gli Edelweiss crescevano, apparvero due enormi mani pelose che si aggrappavano tenacemente alla roccia; e furono subito dopo seguite da una testa gigantesca, mostruosa, e finalmente uno smisurato corpo si spenzolò in fuori e si lasciò cadere sulle balze. Un vecchio Edelweiss sussurrò all’orecchio del Re degli Elfi:
— E’ un uomo. Sono certo che è un uomo. Così
infatti me lo aveva descritto mio nonno, che era riuscito a vederne uno. E
so che gli uomini sono cattivi e fanno molto male ai fiori. Poveretti noi! Il povero Re aveva una gran pena al cuore, mentre guardava con ansia il principino che, ignaro del pericolo, contemplava la straordinaria apparizione dell’uomo con lo stupore giocondo dei fanciulli. L’uomo intanto aveva già adocchiato il candido fiore. — Oh, il bell’Edelweiss! — esclamò. E, coltolo, lo infilò per lo stelo nel cappello. Il principino inesperto era felice di quella novità: non sapeva, il disgraziato, che prima di sera la sua piccola animuccia di fiore sarebbe morta! L’uomo si avviò cantando verso la valle, lasciando il regno degli Edelweiss nella più angosciata desolazione. La natura sorrideva come prima; ma ogni petalo di Edelweiss racchiudeva adesso una lagrima. La Regina rimase per lungo tempo priva di sensi, e il Re non pronunziò parola, poichè il dolore l’aveva schiantato. Passarono così giorni tristissimi su quella vetta di monte. E venne il giorno che la Fata della Montagna uscì dalla sua caverna sotterranea di diamanti per visitare il regno degli Edelweiss: una visita che la Fata faceva ogni anno. — Come mai cosi tristi quest’anno? — domandò, meravigliata. Il Re degli Edelweiss le raccontò allora quel che era successo: e gli tremava la voce, al povero Re, nel rievocare il doloroso ricordo del figlioletto colto dalla mano crudele dell’uomo. La buona Fata s’impietosì tutta per i poveri Edelweiss: capiva lo strazio per quel che era accaduto e la preoccupazione per l’avvenire, per quel che poteva accadere ancora. Cercò di consolare quelle semplici creature. — Io punirò — concluse — questa razza insaziabile degli uomini che fanno strage di ogni cosa gentile; vendicherò la morte del principino. Consolatevi: altri figli vi nasceranno belli e prosperosi; ma da questo momento, ve lo prometto e potete credere alla mia parola, nessun uomo potrà mai più cogliere un fiore di Edelweiss senza incontrare la morte. E così fu. Gli Edelweiss si moltiplicano sulle rocce delle montagne; ma tutti quegli uomini che, attratti dal bianco splendore dei petali, si inerpicano sui picchi dirupati per raccogliere le stelle alpine, cadono sotto la vendetta della Fata: la roccia improvvisamente si stacca, precipita sotto i piedi degli incauti, ed essi finiscono miseramente nell’abisso. Il più bel fiore delle Alpi, oh, no, non fiorisce per essere colto da mano umana!
*** Fate malmaritate
(leggenda austriaca)
— Queste nozze — dicevano saggiamente —tra creature cosi disparate non riescono mai bene. Ma i due pastori insistevano, supplicavano, si mostravano cosi perdutamente innamorati, che le due Fate pietose acconsentirono finalmente alle nozze e li sposarono. Non l’avessero mai fatto! Dopo qualche tempo, i pastori, che erano prima tanto appassionati e premurosi, cambiarono affatto maniere e divennero sgarbati e annoiati. Il marito della povera Fata Bianca giunse sino alla brutalità di percuoterla col bastone. In quanto alla Fata Rossa, sposando il suo pastore, gli aveva raccomandato di non pronunziar mai, per nessuna ragione, tre parole: «Faia, raia, retalaia ». Perché? Che cosa volevano mai dire queste tre misteriose parole proibite? Erano ingiurie? Erano minacce? Erano scongiuri pericolosi che compromettevano il potere magico delle Fate? Non lo sappiamo. Il pastore aveva riso di quella raccomandazione. — Ma perché mai dovrei pronunziare queste tre parole, cosi difficili a dirsi e persino a ricordarsi? Invece, forse proprio per la proibizione, le tre parole gli si erano impresse fortemente nella mente e giorno e notte gli turbinavano nel cervello. E una volta che, tornando a casa dal lavoro, aveva trovato la minestra senza sale (anche le Fate qualche volta si sbagliano e fan la minestra senza sale) s’imbestialì, perdette il lume dagli occhi e, scagliandosi come un energumeno contro la moglie, col proposito deliberato di farle un gran dispetto, pronunziò le tre terribili parole: — Faia, raia, retalaial La povera Fata cominciò a tremar tutta, poi cacciò un grido disperato e scomparve. Dopo questi affronti, i due matrimoni furono disciolti e le Fate se ne andarono tutte via dal paese. Una mattina una donna del villaggio, che stava stendendo il bucato lungo le siepi della strada maestra, le vide passare coi loro fagotti in testa: capì subito che se ne andavano. — Come? Ci lasciate? — domandò sbigottita. — Si, ce ne andiamo a cercar un paese dove i mariti siano più garbati e gentili.
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Marco e le fate (leggenda austriaca )
— Ahimè! — diceva la regina alle sue Fate — ahimè, Marco ha dimenticato i vecchi Dei dei suoi padri per un nuovo Dio che chiama Cristo, e passa davanti alle querce sacre, senza alcun segno di riverenza. Che cosa volete che gl’importi pertanto l’affetto di una Fata? E la povera Alma piangeva. Ma un giorno che Marco, stanco della lunga cavalcata, era sceso dì sella e s’era buttato sul prato per riposare, Alma gli si era avvicinata senza che lui se ne accorgesse e, con la falce d’oro, gli aveva toccato le palpebre: il bel giovane s’era subito addormentato di un sonno profondo. La regina aveva chiamato a raccolta le Fate: — Fate, Fate, aiutatemi voi. Marco donne di un sonno profondo. Prendetelo e trasportatelo nel mio palazzo di cristallo, su in alto, nella montagna, dove io lo costringerò a sposarmi.
Le Fate videro infatti il bel
cavaliere addormentato sotto un cespuglio di biancospino:presero per le cocche il mantello
sul quale dormiva, e si sollevarono agili a volo. Tuttavia, dopo un po’ di
quel viaggio aereo, le scosse svegliarono il dormiente, che, aprendo gli
occhi, riconobbe Alma che gli stava a lato. — Che vuoi tu da me, o regina delle Fate? domandò Marco. — Voglio portarti nel mio palazzo di cristallo per sposarti. — Questo non potrà avvenir mai — rispose Marco; — perché tu sei una divinità pagana e io sono invece cristiano. Lasciami tornare nel mio castello dove mio padre e mia madre mi aspettano. — Ma io ti farò felice, ti darò metà del mio regno e metà della mia sovranità sugli spiriti dell’aria. — Preferisco la corona di stelle che Dio dà ai suoi eletti in Paradiso. — Ti darò cibo che neanche i re della terra hanno mai assaggiato e berrai vini deliziosi in coppe d’oro. — Preferisco il pane nero e l’acqua dei nostri anacoreti. — Ti vestirò di velluti e di pietre preziose. — Preferisco l’umile e rozzo saio dei frati. Bada che io ho qui con me, sul petto, un medaglione che racchiude una santa reliquia: essa basta per vincere tutti i vostri talismani, tutte le vostre stregonerie; e, se vi tocco con questa reliquia, sarete costretti a lasciarmi. Allora Alma ordinò alle Fate di alzarsi anche più in alto nel cielo. — Cosi — disse, rivolto al giovane cavaliere — se ti servirai della reliquia e obbligherai le mie Fate a lasciarti, cadrai nell’abisso e morrai. — Beati coloro che muoiono per la loro fede rispose Marco; — perché Dio li riceverà nella sua gloria. E, cosi dicendo, cavò fuori la santa reliquia e con essa toccò le Fate, le quali, con grandi strida fuggirono via spaventate, in modo che il mantello, non più sostenuto, cadde giù nello spazio come un fiocco di neve. Tuttavia, per miracolo di Dio, il mantello restò tutto quanto aperto come un paracadute, si che scese lentamente lentamente e depose Marco sul prato senza fargli alcun male. In tal modo il bel cavaliere si sottrasse al potere infernale delle Fate. E le Fate da quel giorno abbandonarono per sempre il paese.
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La fata filatrice (leggenda austriaca)
La piccola Clara ne era
afflittissima e prometteva solennemente che il giorno dopo sarebbe stata
più laboriosa. E la buona intenzione c’era, ma il giorno dopo come
resistere alla tentazione di correre un po’ per il prato, di cogliere i
rododendri o le fragole nel bosco vicino, di darsi insomma bel tempo? La
conocchia intanto era messa in disparte. E quando il sole cominciava a
declinare e Clara pensava ai castighi sicuri che l’aspettavano se non
filava, tornava a riprenderla e si dava un gran da fare a filare, a filare
in gran fretta. Ma poi capiva che aveva preso male le misure del tempo e
che ormai era troppo tardi per filare tutta la lana: allora, invece di
raddoppiar gli sforzi, si accasciava, deponeva l’interminabile conocchia e
si metteva a piangere disperatamente. Una volta, mentre appunto piangeva cosi a capo chino, senti una voce dolcissima che le diceva amorevolmente: — Perché piangi, bella bambina? Posso fare io per te qualche cosa che valga a consolarti? Alzò gli occhi, e dinanzi a sé vide una donna bellissima che la guardava con occhi pietosi. Clara, tra i singhiozzi, le raccontò come stavano le cose. — Non te ne prendere — disse la Fata, perché la donna bellissima era appunto una Fata — filerò io per te. E, presa la conocchia di mano alla fanciulla, in un baleno la filò tutta. — A me piacciono le bambine allegre — concluse la Fata; — tu pensa ad essere buona, a scherzare e a ridere; a filare la lana penserò io. Ti sta bene? E detto ciò disparve. Da allora in poi la Fata compariva tutti i giorni alla stessa ora, filava la lana e se ne andava. La pace e la serenità erano tornate nella casa di Clara, e anzi i genitori della fanciulla non facevano che lodare la sua obbedienza e la sua grande laboriosità. Clara tuttavia arrossiva a quegli elogi che sapeva di non meritare, e quando fu più grandicella, si vergognò di sfruttare a quel modo la benevolenza della Fata: volle perciò provare a filare da sola la conocchia, e naturalmente con la buona volontà ci riuscì benissimo. Vinse cosi la pigrizia e divenne una giovinetta davvero laboriosa e perfetta.
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