La scala dei folletti
(leggenda svizzera)
n
mezzo a una foresta selvaggia sorgeva cupo il castello del barone Burcardo,
uno dei signori più potenti della Svizzera. Vedovo da molti anni, unica
sua consolazione era la figlioletta Ida, una giovinetta mite, soave,
bellissima. Il più grande amico del barone era il duca di Berna; e,
siccome questo aveva un figlio, bello, gentile, buonissimo, i due
genitori, per
cementar
meglio la loro amicizia, avevano fidanzato i due giovani che, da parte
loro, si adoravano. Non si era vista mai davvero una coppia di fidanzati
più affettuosa e più felice.
Se non che un brutto giorno, poco
tempo prima delle nozze che dovevano coronare la felicità piena dei due,
improvvisamente scoppiò un
fiero
litigio tra i due genitori: l’antica
amicizia fu rotta bruscamente, e naturalmente anche il fidanzamento. Non
sto a descrivervi la disperazione dei due giovani! Vi dirò piuttosto che,
da quel momento, il barone Burcardo, che era stato sempre uno dei signori
più brillanti e briosi della regione, cambiò affatto carattere: divenne
taciturno, scontroso, intrattabile. Non voleva veder più nessuno, non
voleva ricever più nessuno nel suo castello, e se ne stava sempre chiuso
nei suoi appartamenti. E perciò anche Ida doveva vivere cosi, separata dal
mondo. Povera Ida! Quanti sospiri, quanti pianti! In quella vita da
reclusa, le era
contesa anche la possibilità di poter vedere almeno di
lontano il suo adorato Walter. Ella lo amava sempre; ma che cosa era di
lui? Che faceva? Dov’era? Si ricordava ancora di lei? L’infelice fanciulla
non poteva aver pace.
In una cupa sera d’inverno —
solo la fiamma del camino dava un po’ di vita alle austere sale del
castello desolato — si udirono batter dei colpi alla porta d’ingresso. Nel
castello non veniva più nessuno da mesi: chi poteva dunque essere a quell’ora?
Il servo che andò ad aprire restò stupito a vedere lo strano visitatore
che aveva picchiato: era un omino piccolo piccolo, con un gran mantello
rosso che lo avvolgeva tutto, e col capo coperto da un cappuccio rosso
anch’esso. Aveva l’altezza di un bimbo, di un bimbo aveva anche le guance
rosse e paffute, ma una lunga barba bianca gli scendeva invece sino alla
cintola. Il servo capì subito che aveva a che fare con un
folletto, e
rabbrividì di paura.
— Voglio parlare al signor
barone — disse. Non si può rifiutar nulla ai folletti; e perciò il servo
condusse subito lo strano ospite nella sala. Quando il barone, al bagliore
del fuoco che ardeva nel camino, vide il nano, proruppe in una risata
forzata di
scherno.
— Che vuoi da me, mostricciattolo?
— Sono un
folletto dei vostri
boschi — rispose il nano — e sono mandato a voi dai miei compagni per
chiedervi aiuto. Quest’anno l’inverno si annunzia rigido e lungo, e noi
abbiamo finito le provviste di mele. Non potreste regalarcene?
Nessuna in Svizzera avrebbe osato
negare ai folletti quel po’ di carità che chiedevano; ma il barone era
spregiudicato e, con un
ghigno
cattivo, rispose:
— Non avrai mai nulla da me. Anzi
dirai ai tuoi compagni che io esiga che ve ne andiate via tutti dai miei
boschi, se vi è cara la vita. Vattene.
Il folletto se ne andò tutto
umiliato. E la mattina dopo il barone fece disporre dai suoi servi nel
bosco tagliole e trappole.
Intanto il giovane Walter non
aveva pace neanche lui: più innamorato che mai della sua bella Ida, non
osava presentarsi al castello, ma si aggirava continuamente nel bosco con
la speranza (sino allora, ahimè, sempre delusa!) d’incontrarvi una volta o
l’altra la fanciulla. Un giorno, mentre avanzava cauto nella foresta, gli
parve d’udire il singhiozzar
convulso di un bimbo. Corse verso il luogo da
cui veniva il lamento, e vide un nano che si divincolava al suolo: capì
subito che doveva trattarsi di un folletto e, avvicinatosi, si accorse che
il poveretto aveva una gamba chiusa in una tagliola di ferro. Il buon
Walter apri l’ordigno e liberò il folletto. Poi gli domandò:
— Come mai, tu che sei un
folletto, non hai saputo liberarti da solo? Voi folletti siete molta
potenti.
— Oh, gli uomini non sanno dunque
proprio nulla di noi! — esclamò il nano, con una desolazione così
sproporzionata che non poteva non apparir comica. — Ma non sapete che il
nostro potere, grandissimo infatti sugli animali e sulle piante, non si
estende al ferro e ai metalli? Senza dite, bravo giovane, non mi sarei mai
liberato. Ma ora so chi mi ha teso questa trappola. E’ stato il barone Burcardo, che qualche giorno fa cacciò via con minacce un nostro compagno
che era andato a chiedergli delle mele.
Walter sorrise.
— Se volete delle mele, perché
non venite a prenderle nel mio castello? Ve ne darò fin che ne vorrete.
Infatti quella sera stessa una
schiera di folletti, ognuno dei quali portava un panierino sotto il
braccio, si presentarono nel cortile del castello appartenente al duca di
Berna, e il buon Walter riempi quei panieri di belle mele rubiconde.
— Mio buon giovane, — disse
allora il capo dei folletti — noi ti siamo grati di questo dono che ci fai e
vorremmo far qualche cosa per dimostrarti la nostra gratitudine. C’è
qualche tuo desiderio da soddisfare?
Walter rispose che l’unico suo
desiderio era di rivedere la sua dolce fidanzata Ida.
— La conosciamo — disse con
gravità il folletto, accarezzandosi la lunga barba bianca. — Quando ci
raduniamo al lume di luna sotto le mura del castello di Burcardo, spesso
abbiamo veduto il suo pallido visetto affacciarsi a una finestra che è
nella torre del castello. Deve essere una buona fanciulla; e se tu vuoi
sposarla, noi ti aiuteremo. Trovati domani sera, a mezzanotte precisa, ai
piedi della torre e porta con te un cavallo che sia molto veloce.
Walter non sperava troppo
nell’aiuto di quei nanerottoli: come potevano riuscire a fargli sposare
Ida? Tuttavia non sì sa mai... E quando fu la mezzanotte del giorno dopo,
si trovò puntuale sotto le mura del castello vietato. Ed ecco infatti, nel
buio fitto della natte senza stelle, un agitarsi confuso di piccole ombre,
un brusio come di una
legione d’insetti: erano i folletti, migliaia e
migliaia di folletti che sbucavano fuori da ogni parte e si mettevano
subito al lavoro. Alcuni si arrampicarono con straordinaria agilità su per
il muro della torre; altri dipanarono al suolo non so che matasse di fili
capillari,
quasi invisibili; e pochi minuti dopo una scala di seta, più sottile di
una ragnatela, pendeva da una finestra della torre e toccava terra.
— Arrampicati su questa scala —
disse quello che pareva il capo dei folletti — e non temere: se anche ti
sembra sottilissima, sappi che può reggere un carico almeno venti volte
più pesante del tuo. I nostri compagni che sono saliti sulla torre hanno
di già avvertito la fanciulla del tuo arrivo, si che essa ti aspetta. Fai
presto, non perder tempo.
Walter sì aggrappò alla scala di
seta e cominciò a salire: curioso, più saliva e più si sentiva leggiero!
Gli pareva che qualcuno lo sospingesse. Intorno a lui era il buio
fittissimo, ma a un certo punto sentì, a poca distanza dal suo orecchio,
una voce nota, la voce della sua Ida che gli sussurrava parole affettuose.
— Walter, sei tu? Quale gioia!
Il giovane scavalcò il davanzale
della finestra e fu tra le braccia della fanciulla. Chi
potrebbe
descrivere la loro commozione? Ma i folletti che erano li attorno facevano
fretta: non c’era tempo da perdere. Walter si caricò sulle spalle il soave
peso della fanciulla e discese giù per la scala di seta: in fondo i
folletti stavano pronti ad accoglierli e li ricevettero con danze e salti
ed altre manifestazioni di gioia. Ringraziati i piccoli amici, Walter ed
Ida salirono sul cavallo veloce, che in poco tempo li portò nel castello
del duca di Berna, dove qualche giorno dopo vennero celebrate con gran
pompa le nozze.
I due sposi vissero a lungo
felici; e le loro nozze riportarono la pace nel cuore dei loro padri, i
quali da quel giorno tornarono gli amici affettuosi che erano sempre
stati.
E i buoni folletti ebbero tutti
gli anni, fin che vissero gli sposi felici, mele e mele a sazietà.
***
Come
nacquero gli edelweiss
(leggenda svizzera)
a
Regina delle Nevi era una Fata bellissima. Pastori e cacciatori che
s’inerpicavano
lassù, sulle vette
eccelse
delle Alpi, dove regnano le nevi
perpetue, restavano incantati della sua tanta bellezza e avrebbero dato
qualunque
cosa
per poterla sposare. Davano infatti quasi sempre la vita. Perché una
legge
implacabile del destino impediva che la Fata potesse sposare un
mortale. La Regina delle Nevi del resto doveva aver proprio un cuore di
ghiaccio: attirava presso il suo palazzo di cristallo i
malcapitati, li
accoglieva benevolmente, poi, sul più bello, appena essi le domandavano
di sposarli, sbucavano fuori, a un suo cenno, migliaia e migliaia di
folletti da tutti i crepacci delle rocce: erano tanti e tanti, che non se
ne vedeva la fine e, circondando il pretendente e sospingendolo verso
l’abisso, lo facevano precipitare giù per i
picchi dirupati. Il giorno dopo
qualche
alpigiano ritrovava il suo cadavere sulla riva del torrente.
Un giorno, questa
sorte crudele toccò a un giovane ardito cacciatore di camosci, il più bel
giovane che si fosse mai veduto al mondo. Aveva visto la Regina delle Nevi
in una rosata
aurora di maggio e n’era restato cosi affascinato che,
tornato in pianura a casa sua, non aveva più trovato pace e non pensava
che a lei. Era timido e ingenuo, e perciò non osava ancora rivolgere alla
bellissima Regina la fatale domanda di nozze: ma, da quel primo giorno che
l’aveva ammirata, era tornato più volte nel regno delle nevi per aver la
possibilità di rivederla ancora. Si sedeva ai piedi di lei, taciturno, e
stava ore intere a contemplarla senza nemmeno muoversi. La Fata era in
verità commossa di questa muta ammirazione. E siccome il giovane non
domandava di sposarla, non c’era ragione di chiamare l’aiuto dei folletti.
Forse anche, chi sa, senza avvedersene, la Fata gli si era affezionata. E
se non ci fosse stata la legge del destino a vietarle le nozze con un
mortale, forse quello era l’unico uomo che si sarebbe adattata a sposare.
I folletti se ne erano accorti e temendo che la loro Regina potesse un
giorno trasgredire la legge e attirare nel regno il castigo, di loro
spontanea iniziativa, senza aver avuto alcun ordine dalla loro sovrana,
anzi a sua insaputa, una volta che videro il giovane salire le
balze
dirupate del monte, lo attorniarono e lo spinsero nell’abisso sottostante.
Era il tramonto e
le torri lucenti del gran palazzo di cristallo, dimora della Regina, erano
tutte rosate per l’ultima carezza dei raggi del sole morente.
Da una finestra
del palazzo, la Regina delle Nevi aveva visto ogni cosa.
Era
fatale che
fosse cosi, ma il cuore di ghiaccio della Regina delle Nevi si era a poco
a poco mutato in un povero cuore sensibile di donna: dai suoi occhi
divinamente belli scesero calde lagrime che, rotolando giù, come vive
perle, sulla superficie levigata del ghiacciaio, scesero tra le rupi e li
si fermarono, cambiandosi in piccole stelle d’argento.
Casi nacquero gli
edelweiss, che spuntano proprio sul margine dei precipizi per ricordare,
agli audaci che vogliono coglierli sfidando il pericolo, l’antica storia
d’amore e di morte del giovane cacciatore di camosci che amò segretamente
la Regina delle Nevi e fu da lei segretamente riamato.
***
Il tesoro delle fate
(leggenda
svizzera)
quei tempi la valle del Gerina era la più bella delle Alpi svizzere, con
grassi pascoli e campi fertilissimi, tanto che la chiamavano «La verde».
Nel mezzo c’era un grazioso laghetto, e sulle rive del lago un villaggio
lindo e civettuolo.
Il proprietario dei pascoli e dei campi si chiamava
Aimone ed era un uomo di vecchio stampo, attaccatissimo alle tradizioni,
cordiale, generoso, galantuomo sino allo scrupolo, e perciò benvoluto da
tutti.
Si diceva che la prosperità del
luogo fosse dovuta alla particolare protezione delle Fate, che abitavano
in una caverna sulla roccia sovrastante la vallata. Certo è che Aimone
faceva mettere ogni mattina un secchio di latte su una grossa pietra a
forma di altare che era proprio sotto la
rupe,
e qualche minuto dopo il secchio era vuoto. Chi lo vuotava, e come?
Nessuno era riuscito mai a saperlo: fin che qualcuno rimaneva lì vicino al
secchio a spiare, il secchio restava pieno. Il padrone del resto aveva
proferito
terribili minacce contro coloro che si mostrassero in proposito troppo
curiosi; e ognuno sapeva ch’egli era un uomo da mantenere ciò che
prometteva.
Ma un giorno Pietro, il figlio
del padrone, un giovinetto di forse quindici anni, volle penetrare il
segreto di quel latte che scompariva cosi misteriosamente; e, appena il
secchio fu messo sulla pietra, egli si mise li di guardia e vi restò tutto
il giorno. A sera, il secchio era ancora pieno; ma il latte s’era guastato
e si dovette buttar via. Quello stesso giorno mori la più bella capretta
del gregge, la preferita di Pietro. Quando questi tornò a casa, il padre
lo chiamò nella sua camera e, chiusa la porta e la finestra perché nessuno
udisse, gli parlò in tono grave:
— Ascoltami bene, figlio mio. Tu
non sei più un bambino ormai e certe cose le puoi capire. Per fartele
capir meglio, ti svelerò un segreto che si è conservato per secoli nella
nostra famiglia, trasmesso da padre in figlio. Tu conosci il Rubly, la
roccia che domina la nostra vallata, e sai che circa alla metà di essa si
apre una grotta: là dentro abitano da secoli due Fate che proteggono la
nostra famiglia e la nostra alpe. In ricompensa di questa protezione, ogni
mattina faccio portare sulla pietra che sai un secchio di latte. Sono le
Fate che scendono a prenderlo e se lo bevono: è l’unico loro nutrimento.
Ma guai a colui che volesse impedire alle Fate di prenderlo, guai al
temerario che osasse esplorare la loro grotta! Tu oggi hai commesso
appunto il primo di questi sacrilegi, e stasera la tua capretta favorita è
morta. Ti consiglio perciò di non voler ripetere più il tuo atto
insano.
Pietro, stupito per le parole che
udiva, passò tutto il giorno seguente a guardar di lontano la roccia e la
caverna che vi si apriva a metà; e a furia di fissarvi lo sguardo, gli
parve di vedere infatti due forme bianche e leggiere
fluttuare nel
sentiero verdeggiante che menava alla grotta. Da quel giorno credette
fermamente alle Fate della Verde e si sarebbe guardato bene dal tentare
ancora l’esperimento che gli era costato già la perdita della capretta
favorita.
Passarono gli anni, e Pietro
divenne un bel giovane, laborioso e gagliardo. Tutte le ragazze del
villaggio, si sa, lo avrebbero voluto per marito; ma egli pareva
insensibile alle loro grazie e alle loro moine. Tuttavia venne il momento
anche per lui d’innamorarsi. Era capitata in paese una bellissima
fanciulla forestiera, a nome lolanda. Si diceva che venisse dalla città e
che fosse figlia di un signore: certo i suoi modi erano assai più gentili
di quelli delle valligiane, e anche la sua bellezza aveva qualcosa di più
fine e delicato. Pietro avrebbe dato chi sa che per sposarla; ma la
ragazza si mostrava restia alle nozze, e ogni volta che il giovane gliene
aveva parlato, ella, severa, aveva deviato il discorso.
Un giorno un pastore, sceso dai
monti che sovrastano la valle, aveva regalato a Pietro uno strano ciottolo
molto pesante, di tinta nerastra, con certe venature che, a guardarle da
certi punti di vista, luccicavano come pagliuzze d’oro. Pietro aveva
mostrato il ciottolo alla bella lolanda, che nel vederlo si era subito
trasfigurata.
— Senti, Pietro — gli aveva detto
— se tu riesci a trovare la miniera d’oro che è certamente nel Rubly, io
ti sposerò. Ma non tentar neppure di cercarla da solo: esporresti
inutilmente la tua vita, e morresti come i tanti che ti hanno preceduto.
Bisogna che nelle ricerche ti guidi una Fata. Sai tu se in questo paese ce
ne siano?
— Si — rispose
impudemente
il giovanotto — ne conosco due.
— Ebbene, eccoti una preghiera
magica che costringerà le due Fate che tu conosci ad indicarti la miniera.
E, cosi dicendo, tirò fuori dal
seno una pergamena coperta di caratteri rossi, e la porse a Pietro. Che
lotta fu quella che sconvolse per i tre giorni successivi il cuore del
povero ragazzo! Da una parte c’era il rispetto dovuto alle Fate
protettrici della sua famiglia e della vallata (come avrebbe osato far
loro violenza?); dall’altra parte c’era il suo amore per lolanda. Vinse,
si sa, l’amore. E in una fosca notte d’estate (grossi nuvoloni si
rincorrevano nel cielo) il giovane parti per la montagna. La pergamena gli
bruciava le dita.
Arrivato che fu sul sentiero che
conduceva alla caverna delle Fate, dovette fermarsi, perché il cuore gli
batteva forte forte. Poi riprese cautamente il cammino e arrivò
all’ingresso della grotta che nessuno finora aveva mai violato. Accese una
torcia a vento e si mise a leggere la formula magica scritta col sangue
sulla pergamena.
Ma, appena ebbe pronunziate le
prime parole, tutta la montagna cominciò a tremare dalle fondamenta, un
fragore terribile usci dal profondo dell’antro e si ripercosse per tutta
la valle; lampi squarciavano il cielo, e la rupe, oscillando sulla sua
base, precipitò con spaventoso fracasso sui prati sottostanti.
Quando sorse l’alba, illuminò uno
degli spettacoli più tragici di desolazione: i bei pascoli della Verde
erano spariti e al loro posto era un terreno squallido seminato di macigni
e di sassi di tutte le dimensioni. Di Pietro non si seppe più nulla: non
si riuscì nemmeno a ritrovare il suo cadavere.
***
Non
ti scordar di me...
( leggenda germanica)
n
bel mattino d'estate due giovani innamorati, Anna e Ildovrando,
passeggiavano lungo le rive del Reno.
- Guarda - disse, improvvisamente la
ragazza - guarda che bei fiori!
- E' vero - gridò, con entusiasmo, Ildovrando.
- E' vero... Non ho mai visto corolle di un così tenero azzurro.
I due si curvarono sulla sponda contemplando il
cespo delicato su cui ridevano, come luminosi occhi
di
bimbi, leggiadre stellucce dal color del cielo. Il giovine si avvicinò,
con un salto agile, alla piantina che sembrava sbocciar per prodigio
dalle onde dorate; ma, prima che la sua mano potesse stringere i teneri
steli, perdette l'equilibrio e scivolò in acqua. Il perfido inganno dei
gorghi non gli permise di salvarsi.
- Non ti scordar di me - Gridò l'infelice,
rivolgendo all'amata un estremo sguardo di tenerezza.
I dolci fiori azzurri che crescono in
estate sulle rive dei fiumi,
dei laghetti alpestri, degli stagni vennero chiamati con la dolce
invocazione del giovane moribondo: << Non-ti-scordar-di-me>>.
I non-ti-scordar-di-me simboleggiano il
ricordo amorevole, e perciò commuovono le persone gentili.
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