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              Olaf e il re degli Elfi

                                          (leggenda nordica)

lba d’argento. Per il cielo grigio perla volano gabbiani velocissimi che a torme fitte si ingolfano nel fiordo raggiungendo le rupi  scoscese con alte strida. E a  frotte si posano qua e là, dove i nidi aerei, dentro gli anfratti,raccolgono i piccoli sempre affamati, sempre a becco aperto, pronto a ogni preda. Il mare, fra le rocce immani e altissime, frange i suoi flutti fra biancori  iridati e trasparenze di livido colore.

Il piccolo Olaf, figlio di Lars signore di Flagh-Staad, è lì, sul bordo altissimo del fiordo, e guarda affascinato lo spettacolo. La sua fragile anima sognante raccoglie luce e fantasmi, e negli occhi chiari, a fiotti, passano visioni alterne di storie meravigliose ascoltate durante le lunghe sere nella grande cucina della casa paterna. Vede, ora, i gabbiani che volano da vetta a vetta instancabili, e ode le grida rauche, il battere delle ali allorché gli uccelli frenano il volo innanzi ai nidi, lo stridio dei piccoli; tutto un musicare che si espande nella calma dell’ora come una sinfonia piena di freddi toni e di note acute. Spettacolo delizioso ed entusiasmante dinanzi al quale il piccolo Olaf indugia con estremo piacere.

D’improvviso un'ombra cupa si interpone fra gli argentei voli ... Cos ‘è?  Un uccello grande, nero, drammatico frena il suo volo possente, calando sul culmine di una rupe, e sfavilla dall’occhio rapace una sinistra luce. Olaf rabbrividisce, intuendo che da quell'uccello dall'aspetto feroce nulla di buono può venire alla pacifica colonia dei gabbiani, e sta all’erta un po’ in apprensione e un pò curioso, sicuro, comunque, che per il suo animo ansioso si prepara uno spettacolo insolito.

Infatti, dopo non molto, l’uccellaccio allarga le sue grandi ali e lento, cupo, cala su una roccia sottostante affondando il becco. Attimo impressionante! Un nugolo di gabbiani strillanti s’abbatte sull’intruso e a furia di beccate lo obbliga ad allontanarsi. Il grosso uccello con uno scatto rabbioso s’innalza, tornando alla cima della roccia e da lì guarda giù torvamente.

I gabbiani, ora, con strida lamentose, vorticano attorno al nido insidiato, formando una corona di difesa, ma il rapace non intende desistere dal suo progetto di preda. Troppo gli piacciono le uova e le tenere carni degli implumi. E dopo un po’ di tempo riallarga le sue ali maestose e ricala sulla preda, trapassando il cerchio dei difensori. Altri gabbiani arrivano e si ingaggia una lotta tremenda fra strida, sbattere di ali, svolare di piume, rotolare di gabbiani feriti a morte lungo le ripide pareti rocciose…

Olaf è come incantato. Gli pare di assistere a una lotta fra guerrieri alati, armati di rostri e di unghie, roteanti nel cielo per offendere e difendere. Ma la lotta è impari. Il grande rapace è forte, possente, lotta strenuamente e ... sta per vincere. Allora Olaf, cedendo al suo istinto di ragazzo impetuoso, si mette a urlare per cacciare il feroce invasore dalle rocce, poi lancia sassi grossissimi nell’intento di colpire il rapace. Finalmente un sasso, più pesante degli altri, colpisce la bestia al capo. Stordimento, sangue ... Le ali si piegano e battono l’aria più debolmente. Poi s’afflosciano, e il grosso uccello precipita lungo il burrone sprofondando nel mare fra scogli e spume.

Olaf guarda il rapace che le onde sbattono ora tra roccia e roccia e non sì accorge che attorno a lui i gabbiani hanno composto come una corona roteante. Alza gli occhi, attratto dalle strida, e vede quella giostra di ali, di becchi, di zampe nere abbandonate  all’estasi del volo e intuisce che  tutto  quel  baluginare di argentei guizzi è per lui, comprende che i gabbiani gli fanno festa per ringraziarlo del suo provvidenziale intervento e si commuove. Batte le mani, ride, tende le braccia, si agita ... e non si accorge, con tutto quel movimento, di essersi avvicinato troppo al bordo del precipizio, dove le pareti vertiginose del fiordo cadono nel mare. E  a  un certo  punto, nel suo festoso partecipare alla sarabanda dei gabbiani, perde l’equilibrio e con un urlo altissimo, che risveglia gli echi più lontani, il ragazzo sprofonda nel vuoto tra una fuga d’ali che vanno a oscurare il cielo. Momento terribile! Olaf, ad occhi sbarrati, in quella frazione di secondo, vede il mare che si avventa verso di lui, ode la musica grave delle spume sulle scogliere e ... chiude gli occhi…

Quando li riaprì, pensò di essere giunto in paradiso: ma era un paradiso assai diverso da come se l’era sempre immaginato.

Una grotta immensa e meravigliosa lo sovrastava, una grotta luminosa di luce liquida come l’interno di una perla. Trasparenze stupefacenti stavano sospese nell’aria per il rifrangersi di mille riflessi in un gioco sorprendente; stalattiti e stalagmiti scendevano e salivano come giganteschi candelabri iridescenti, e cento e cento massi di ogni forma brillavano nel palpito di quell’incantesimo di luce; minerali tra i più preziosi come agata, berillo, malachite, quarzo, turchese, giada donavano tutte le loro trasparenze e i loro fulgori all'‘ambiente.

Sbalordito e quasi sgomento per la meraviglia, Olaf si alzò da dove giaceva e vide che stava su un letto tutto d’oro coperto di seriche stoffe. Rimase lì a mirare quello splendore quasi senza fiato, finché si accorse che fra tante meraviglie egli era solo, in un silenzio che ad ascoltarlo dava le vertigini. Allora ebbe paura e cominciò a gridare. Nulla! Riprese a urlare, e per l’immensa caverna l’eco si ripercosse in mille suoni di cristallo, allontanandosi poi in un ondulare di note che accendevano bagliori ovunque.

Pensò:

« Che sia sprofondato in fondo al mare? Ma allora, come è possibile che respiri, e ... dov’è l’acqua? ».

Si guardò ancora attorno e scorse un’apertura per la quale entrava una luminosità di cielo. Corse verso quella luce e vide ... vide che era una finestra naturale, sospesa come un balcone sul precipizio che finiva nel mare. Si domandò il ragazzo:

« E come sono potuto entrare qui se cadevo dall'alto verso il mare? ».

Si volse per tornare al centro della grotta e vide con sommo stupore una figura stranissima che, seduta sul letto d’oro, lo guardava. Chi era quell’essere? Pareva un farfallone, con grandi ali e occhi sporgenti come quelli delle libellule. Ebbe paura e istintivamente cercò un luogo dove nascondersi. Disse allora lo strano personaggio:

— Olaf, come mai temi il mio aspetto se ogni giorno pensi di incontrarmi? Sono uno degli Elfi che abitano questo fiordo. Tu sai che gli Elfi sono amici dei ragazzi e li aiutano quando è necessario.

Disse Olaf, con un filo di voce:

— Ma io gli Elfi non li avevo mai visti prima d’ora!

— E come li immaginavi?

— Pensavo che fossero come i nani, vestiti di rosso e con la barba.

— Perciò non ti piaccio?

— Oh, no! — s’affrettò a dire il ragazzo, ormai rassicurato.

— Anzi, mi piaci molto.

— Bene — disse l’Elfo. — Vieni dunque con me, perché il nostro re vuole conoscerti.

Si alzò e, movendo le ali colorate andò verso il fondo della grotta. Ohaf lo seguì.

Traversarono un lungo corridoio, dopo di che entrarono in un‘altra grotta vasta come la prima, ma assai più splendida e piena di un numero grande di Elfi di ogni colore e dimensione. Erano tutti ordinati a semicerchio attorno a un trono che sembrava di cristallo. Su questo un Elfo, più grande e splendido degli altri, attendeva. Era indubbiamente il re, e Olaf provò un’emozione grandissima. Non poté fare a meno di ammirare quella straordinaria figura tutta scintillii, quelle grandi ali lucenti come l’arcobaleno e restò lì, muto, innanzi a tutti quei grandi occhi accesi che lo guardavano  benignamente. Disse il re degli Elfi:

— Piccolo Olaf, non meravigliarti se tu sei qui nel mio regno, in cui difficilmente i figli dell’uomo possono venire. Sei qui perché oggi tu hai compiuto un atto di bontà salvando un nido di piccoli gabbiani dagli assalti di un cattivo uccello di rapina. Se tutto si fosse svolto senza altri fatti, tu non saresti mio ospite, ma siccome, a un certo momento, dalla tua buona azione stava creandosi un pericolo mortale per te, ecco che i miei Elfi, sempre pronti a intervenire dove occorre, ti hanno salvato mentre precipitavi dalla rupe e ti hanno portato qui. Ecco tutto!

Olaf non seppe dire parola; guardò tutta quella folla di esseri irreali e gli parve di sognare. A un certo punto, però, trovò il coraggio e disse:

— Vorrei tornare a casa.

— Giusto! — disse il re. — Un bravo ragazzo deve ricordare sempre la sua casa.

Batté le mani e un Elfo azzurro venne portando un cofanetto. Il re ne trasse una pietra lucente e la porse a Olaf dicendo:

   — Questa è la pietra con la quale tu hai colpito il rapace, trasformata in un grosso diamante per virtù delle tue buone intenzioni. Te la dono. Tienila a ricordo della tua azione e non dimenticare mai il suo valore simbolico ogniqualvolta ti si presenterà l'‘occasione di fare un atto di coraggio e di bontà.

Batté ancora le mani e sul fondo della sala si aprì una porta. Olaf vi fu accompagnato e vide che la porta dava sul precipizio. Si arrestò sgomento. Ma due Elfi lo presero sotto braccio e, leggeri, uscirono a volo reggendo il ragazzo. Volarono nell’aria azzurra del mattino ormai pieno e posarono Olaf sulla cima della rupe da dove era caduto. Poi, a volo planato, ridiscesero e scomparvero oltre la porta che si richiuse confondendosi con la roccia.

Olaf non raccontò a nessuno la sua straordinaria avventura e nascose la grossa pietra lucente nel giardino.

Passarono parecchi anni e col tempo Olaf si dimenticò dell‘avventura con gli Elfi e della pietra sepolta. Ma un giorno, quando ormai era trascorso molto tempo e Olaf s’era fatto un giovanotto, nel paese si verificò un fatto terribile. Gran parte del monte di Flagh-Staad crollò seppellendo case e campi con vittime umane e strage di armenti.

Grande fu il dolore del popolo, ma più grave fu la carestia che seguì, aumentando i lutti e i disagi della comunità. Tutta Flagh-Staad cadde nella miseria e Olaf, in uno di quei tristi giorni, decise di abbandonare il paese per cercare altrove miglior sorte. Sua madre allora gli disse di scavare urna buca nel giardino per porvi le tavolette con incisa la loro storia, poiché anche ella voleva seguire il figlio. E Olaf andò nel giardino per scavare.

Appena affondò la zappa nella terra, ne uscì un  barbaglio vivissimo. Era la pietra lucente regalatagli molti anni prima dal re degli Elfi, lo splendido, meraviglioso diamante, di purezza e grossezza mai viste. Emozionato Olaf raccolse la pietra, la pulì e gli parve di avere in mano il sole. Gridò:

— Siamo ricchi!

Era vero. La grossa pietra, venduta al re della Norvegia rese tanti sacchi d’oro che Olaf tornò a Flagh-Staad molto ricco. Ricostruì il paese e ne divenne l’half, il capo supremo. E fu benedetto per tutta la vita per la sua saggezza. La buona opera di un bambino aveva salvato un intero paese.

 

***

             Il vascello fantasma

 

                                                       (leggenda olandese)

okke, capitano olandese di lungo corso, era un uomo audace ed esperto del suo mestiere. Nessuna nave poteva competere con la sua in velocità; nessuno poteva competere con lui in imprese ardite e fortunate. Si diceva però sottovoce che la velocità e la fortuna fossero dovute a opere di magia, all’intervento del diavolo. Certo Fokke era un uomo cattivo, empio, crudele, senza scrupoli. Aveva una gran superbia, e quando perdeva le staffe, non aveva più ritegno: più di una volta, per una sciocchezza qualunque, aveva ucciso i marinai alle sue dipendenze; non sapeva dir due parole, senza bestemmiare orrendamente, e qualche volta pronunziava parole di una lingua strana che nessuno capiva e che parevano dirette a un essere invisibile.

Un giorno, viaggiando nell’Africa meridionale, doveva doppiare il Capo di Buona Speranza. Ma il vento era contrario, la burrasca infuriava e non si poteva passare. Chiunque altro avrebbe desistito dalla folle impresa, non cosi Fokke: egli voleva girare il capo a ogni costo, anche col vento contrario, anche con la tempesta che imperversava. Impose pertanto alla sua nave uno sforzo che nessun vascello avrebbe potuto sopportare a lungo. Il fasciame scricchiolava sinistramente, e parve che da un momento all’altro la nave si sarebbe rotta inevitabilmente tra gli scogli. I marinai. spauriti, pregavano, raccomandandosi al loro santo protettore e all’angelo custode; il capitano invece sogghignava, bestemmiava, cantava canzoni sacrileghe, e più cresceva la rabbia delle onde e più la sua baldanza aumentava. Finì col giurare, per tutti i diavoli, d’oltrepassare quel capo, a costo di dover peregrinare pel mare sino al giorno del Giudizio Universale.

Ed ecco apparire a prua, chiamato dalle ardenti invocazioni dei marinai, la maestosa figura di un angelo. Tutta la ciurma s’inginocchiò riverente. Solo il capitano continuò a bestemmiare. Avendo intimato inutilmente all’angelo di andarsene, acceso d’ira, gli sparò contro un colpo di pistola. La palla sacrilega tornò indietro e feri Fokke al braccio. Questo portento, invece di far pentire il capitano del male che aveva fatto, l’inasprì di più. E stava per slanciarsi contro l’angelo, se non che dovette rimanersene lì immobile: una forza misteriosa attanagliava ogni suo membro.

L’angelo allora parlò e disse:

— Empio capitano, ti maledico. Tu starai eternamente sulla tua nave e non avrai mai riposo. Per orribile che sia la tua vita, invocherai invano la morte liberatrice: non potrai morire e percorrerai i mari sino al giorno del Giudizio Universale. Nel tuo pauroso viaggio, ti sarà compagno il Maligno e tu stesso diventerai una specie di demonio del mare. Ti seguirà sempre la burrasca, inseparabile dalla tua nave, e la sola vista di essa sarà per gli uomini annunzio di sventura.

Ci fu nello sguardo atono del capitano un segno impercettibile di qualcosa che rassomigliasse, se non proprio al pentimento, almeno alla consapevolezza del male che aveva fatto? Forse l’angelo, che sa leggere nei cuori, lesse qualcosa di simile in quello di Fokke, perché, dopo una pausa, raddolcì la voce e disse:

— Ogni cento anni ti sarà concesso tuttavia di scendere a terra, di confonderti con gli altri uomini, di vivere la loro stessa vita per sette anni. E, se in queste pause del tuo castigo, tu riuscirai a trovare una sposa che ti ami veramente, che sappia amarti sino alla morte, la tua condanna finirà: tu finalmente morrai e la tua anima sarà salva.

La visione sparve. L’angelo, partendo, aveva portato via con sé, in una nube d’oro, tutti i marinai; e il maledetto rimase solo sulla tolda della nave, che ora apparteneva all’inferno. E infatti un mostruoso pilota, con le corna di fuoco, s’impossessò subito del timone, e cento altri diavoli formarono il terribile equipaggio della terribile nave. La quale cominciò subito a navigare, e da allora percorse disperatamente tutti i mari, con le sue vele rosse spiegate al vento, senza pigliar mai porto. I fulmini colpivano il suo albero maestro senza spezzarlo, guizzavano in mezzo alle vele senza bruciarle, e le onde urtavano continuamente i suoi fianchi e la chiglia senza sconquassarli. Quando il Vascello Fantasma incontrava un’altra nave, mandava in una scialuppa qualcuno del suo misterioso equipaggio a pregare il capitano di ricevere un pacco di lettere: il capitano non poteva rifiutarsi, ma doveva inchiodare le lettere all’albero maestro, se non voleva che qualche disastro capitasse al suo bastimento. Le lettere erano tutte indirizzate a gente sconosciuta o morta da molto tempo. E chi le leggeva impazziva. Invano Fokke, stanco della sua vita disperata, combatté contro i più feroci pirati, affrontò i turbini e i cicloni più violenti: la morte ostinatamente lo respingeva. Più volte, ogni cento anni, discese a terra; ma, tra le tante donne in cui s’imbatté, non era riuscito mai a trovarne nessuna disposta a sposarlo. C’era alcunché di ripugnante nella sua faccia, qualcosa di sinistro nel suo sguardo.

Un giorno, in una di queste tregue che gli concedeva il destino, il Vascello Fantasma fu spinto sulle coste della Norvegia. Dopo tanti tormenti, il capitano, stanco e triste, incontrò sulla spiaggia un vecchio marinaio e gli chiese ospitalità nella sua capanna. Siccome il marinaio stava lì perplesso se accettare o no quell’ ospite strano, Fokke, per persuaderlo, gli diede un pugno di diamanti. E quando seppe che il suo nuovo amico aveva una figlia, gliela chiese in sposa. Il matrimonio fu presto combinato, perché il vecchio, avido di ricchezze, era restato abbagliato dal fulgore di quei brillanti e pensava che era una bella fortuna aver un genero cosi generoso! Naturalmente bisognava però che anche la ragazza acconsentisse.

Ora bisogna sapere che nella capanna del norvegese c’era un vecchio quadro affumicato che raffigurava un uomo in costume olandese: il quadro era un’antica eredità di famiglia e si diceva che fosse il ritratto somigliantissimo del capitano olandese che comandava il Vascello Fantasma, quale era stato veduto in Scozia duecento anni prima. E assieme col ritratto s’era trasmessa da madre in figlia la raccomandazione a tutte le donne della famiglia di guardarsi bene dall’originale. Cosi sin dall’infanzia la fisionomia di quell’uomo pericoloso s’era vigorosamente impresso nel cuore di Senta (cosi si chiamava la figlia del marinaio norvegese). Si che appena il vero Olandese Errante in carne e ossa entrò nella capanna, la ragazza non poté far a meno di trasalire. Anche il fidanzato si meravigliò di trovar lì quel ritratto, e quando gli spiegarono chi mai stesse a rappresentare, cercò di  stornare da sé i sospetti, pigliandosi giuoco della superstizione e fingendo di ridere alle spalle dell’Olandese. Ma intanto, senza volerlo, si abbandonava alla tristezza, mettendosi a descrivere con tocchi vivaci e appassionati le inaudite sofferenze che l’Olandese doveva sopportare nelle immensità dell’Oceano,

— La vita lo respinge, la morte lo rifiuta.

Come una botte vuota che le onde si rimandano l’una all’altra irridendo, lo sciagurato Olandese è sballottato tra la morte e la vita.

Il suo dolore è profondo come il mare sul quale naviga. E come il suo vascello è senza àncora, anche il suo cuore è senza speranza.

La fanciulla era commossa e guardava il fidanzato con occhi umidi e gravi. E quando egli le domandò: «Senta, vuoi sposarmi? mi amerai tu? », la ragazza rispose:

— Si, fino alla morte.

C’ era un cacciatore norvegese, Erik, un giovane bello e buono, che era innamorato perdutamente di Senta e avrebbe dato chi sa che per sposarla. Quando seppe che la fanciulla era promessa allo straniero sconosciuto, si sentì stringere il cuore. Tanto più che egli aveva notato la strana somiglianza dell’uomo misterioso col ritratto che era nella capanna del marinaio. Bisognava salvare la ragazza a ogni costo.

Un giorno Erik incontrò Senta sulla spiaggia, e le si avvicinò.

— Ascoltami, Senta, — le disse con premuroso affetto — dammi retta: non sposare lo straniero. Tu sei preda di un funesto incantesimo: sta a te spezzarlo. Non puoi amare quell’uomo sinistro e dallo sguardo sfuggente. Perderai la tua anima bellissima. Sii invece mia sposa: io ti saprò difendere da ogni male.

Ma la fanciulla non lo ascoltava: guardava lontano nel mare.

Fokke, nascosto dietro uno scoglio, aveva udito le parole di Erik. Il tormento riafferrò il suo cuore. Poteva egli compromettere così la pace e la felicità dell’unica donna buona e pietosa che aveva accettato di sposarlo? Capiva adesso quale enorme sacrificio imponeva alla soave creatura. E non gli reggeva l’animo di rovinarla così. Senza dir nulla a nessuno, l’Olandese fece pertanto nascostamente i preparativi per la partenza, e una mattina, all’alba, usci dalla casa del pescatore, sali sulla nave maledetta, aprì al vento tutte le vele rosse e salpò.

Senta però vigilava: doveva aver intuito che qualcosa era cambiato nell’animo del suo fidanzato e, senza farsi accorgere, lo sorvegliava. E quando vide la rossa vela allontanarsi verso l’orizzonte, sali sulla rupe più alta e gridò:

— Eccomi, sposo mio! Sarò fedele a te sino alla morte, per salvarti, per liberarti dalla maledizione che ti fa soffrire!

E, casi dicendo, si gettò a capo fitto nell’acqua.

La maledizione era rotta. Il Vascello Fantasma s’inabissò nei flutti, e da questi emersero due figure luminose che salivano verso il cielo: erano le anime di Senta e di Fokke, redento dall’amore.

  

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schiere
afflusso eccessivo
ripide
suoni acuti
gruppi
quasi sospesi
aperture,tra le rocce, strette e tortuose
insenatura marina lunga e stretta
spezza
enormi
colori dell'iride
scura
d'argento
ritirarsi
becchi adunchi
apparire e sparire
danza sfrenata
di seta
ben disposti
quadrupedi domestici:buoi,cavalli
bagliore intenso
spietato
rivestimento della nave
stringeva forte
inespressivo
ponte della nave
aspetto esteriore
distogliere
riscattato