1. VERSO I PRIMORDI
Buck, non leggendo i giornali, non
poteva sapere i guai che si preparavano non solo per lui ma per tutti i cani di
grandi dimensioni, di forte muscolatura e di lungo e caldo pelo fra lo stretto
di Puget e San Diego. Perché gli uomini scavando nelle buie profondità
dell'Artico, avevano trovato un biondo metallo, e le compagnie di navigazione e
di trasporti ne avevano diffuso la notizia facendo accorrere migliaia di
cercatori nelle regioni del Nord. Questi uomini avevano bisogno di cani, e i
cani che cercavano dovevano essere forti, di robusta muscolatura per sopportare
le fatiche, e con folte pellicce che li proteggessero dal freddo.
Buck viveva in una grande casa nella vallata
di Santa Chiara baciata dal sole. Era detta la "Proprietà del giudice Miller".
Un po' lontana dalla strada, era mezzo nascosta tra gli alberi, attraverso i
quali si poteva scorgere la grande e ombrosa veranda che la circondava dai
quattro lati. Si giungeva alla casa per viali di ghiaia che andavano per vasti
prati sotto i rami intrecciati di alti pioppi. Sul dietro tutto era costruito in
dimensioni più vaste che sul davanti. Vi erano grandi stalle, a cui accudivano
una dozzina di mozzi e di stallieri, file di casette rivestite di vite
selvatica, per la servitù, e una distesa ordinata e senza termine di costruzioni
minori, i lunghi filari di viti, verdi pascoli, frutteti, e cespugli.
Ma si era salvato dal pericolo di
diventare solo un grasso cane casalingo. La caccia e gli altri esercizi affini
all'aria aperta gli avevano tolto il grasso e rafforzato i muscoli; e l'amore
per l'acqua era stato per lui, come per tutti quelli della sua razza, un tonico
salutare.
Questa era la condizione del cane
Buck sullo scorcio del 1897, quando la scoperta dei giacimenti del Klondike,
richiamò uomini da tutte le parti del mondo nel gelato Nord. Ma Buck non leggeva
i giornali, e non sapeva che Manuel, uno degli aiutanti del giardiniere, era una
conoscenza alquanto pericolosa. Manuel aveva una passione fatale: gli piaceva
giocare alla lotteria cinese.
Inoltre, in questo gioco, aveva una
debolezza ancora più fatale:
la fede in un sistema; e questo fu
la sua rovina. Perché per giocare con un sistema bisogna avere molto denaro,
mentre il salario di un aiuto giardiniere poteva bastargli solo a mantenere una
moglie e una numerosa progenie.
Nella memorabile sera del tradimento
di Manuel, il giudice era a una riunione dell'Associazione dei Viticoltori, e i
ragazzi si davano da fare per organizzare un circolo sportivo. Nessuno vide lui
e Buck attraversare il frutteto dove Buck credeva di andare a fare una semplice
passeggiata. Ad eccezione di un unico uomo, nessuno li vide arrivare alla
piccola stazione di College Park.
L'uomo parlò con Manuel e ci fu tra
loro un tintinnio di monete.
- Dovete impacchettare la merce
prima di consegnarla, - disse rudemente lo straniero; e Manuel passò due volte
una solida corda attorno al collo di Buck sotto il collare.
- Torcetela e lo terrete fermo come
vorrete, - disse Manuel, e lo straniero grugnì un cenno affermativo. Buck aveva
accettato la corda con tranquilla dignità; certo era una cosa insolita: ma aveva
imparato ad aver fiducia negli uomini che conosceva e a far loro credito di una
saggezza superiore alla propria. Quando però i capi della fune furono messi
nelle mani dello straniero, ringhiò in modo minaccioso. Aveva semplicemente
espresso il suo scontento, pensando nel proprio orgoglio che questo equivalesse
ad un comando. Con sua sorpresa la fune gli si strinse attorno al collo
togliendogli il respiro. Furioso balzò addosso all'uomo, che lo fermò a mezza
strada, lo strinse ancor più forte alla gola e con uno strattone se lo caricò
sulla schiena. La fune strinse senza misericordia mentre Buck annaspava
furiosamente con la lingua penzoloni fuori della bocca e il grande petto
anelante. Mai in vita sua era stato trattato così vilmente, e mai in vita sua si
era arrabbiato tanto... Ma le forze lo abbandonarono, la vista gli si annebbiò,
ed egli non capiva più nulla quando i due uomini lo caricarono sul bagagliaio di
un treno.
Quando riprese i sensi si accorse
che la lingua gli faceva male e che era sballottato in qualche cosa in
movimento. Il fischio acuto di una locomotiva a un passaggio a livello gli fece
capire dov'era: aveva viaggiato troppo spesso col giudice per non conoscere la
sensazione di essere in un bagagliaio. Aprì gli occhi con l'angoscia di un re
rapito. L'uomo gli saltò alla gola, ma Buck fu più svelto di lui: le sue
mascelle gli afferrarono la mano e non la lasciarono finché non perse nuovamente
i sensi.
Vi era un impianto per il pozzo
artesiano, e la grande vasca di cemento dove i ragazzi del giudice Miller
facevano il bagno tutte le mattine e prendevano il fresco al pomeriggio. Buck
regnava su questa vasta tenuta. Lì era nato e lì era vissuto per quattro anni
della sua vita. E' vero che vi erano altri cani: non si sarebbe potuto fare a
meno di altri cani, in una proprietà così vasta; ma non contava. Andavano e
venivano, alloggiando nei popolosi canili o vivendo oscuramente nell'intimo
della casa come Toots, il cagnolino giapponese, o Ysabel, la messicana senza
pelo, strana creatura che raramente metteva il naso fuori dell'uscio o le zampe
a terra. Vi erano inoltre i fox-terriers, una banda che gridava paurose minacce
a Toots e a Ysabel guardandoli attraverso le finestre e sfidando una legione di
cameriere che li proteggevano armate di scope e di strofinacci.
Buck non era né un cane casalingo né
un cane da canile. Il reame era tutto suo. Si tuffava nella vasca o andava a
caccia con i figli del giudice; scortava Mollie e Alice, le figlie del giudice,
durante lunghe passeggiate mattutine o crepuscolari; e, nelle serate invernali,
stava sdraiato ai piedi del giudice davanti al camino scoppiettante della
biblioteca. Si lasciava cavalcare dai nipotini del giudice o li faceva rotolare
sulI'erba, e sorvegliava i loro passi nelle loro avventurose escursioni alla
fontana nel cortile delle scuderie e anche più in là, verso i prati e i
cespugli. Andava imperiosamente fra i terriers e ignorava Toots e Ysabel nel
modo più assoluto, perché era un re: un re di tutto ciò che camminava,
strisciava o volava nella proprietà del giudice Miller, compresi gli uomini.
Elmo, suo padre, un grande San
Bernardo, era stato il compagno inseparabile del giudice, e Buck prometteva di
seguire le orme paterne. Non era grosso come lui: pesava solo centoquaranta
libbre, perché sua madre Shep era una cagna da pastore scozzese.
Queste centoquaranta libbre, tuttavia, a cui
bisognava aggiungere la dignità che proviene da un buon vivere e da un
universale rispetto, gli permettevano di comportarsi in un modo veramente
regale. Durante i suoi primi quattro anni di vita aveva vissuto al modo di un
aristocratico benestante; era orgogliosamente soddisfatto di sé, ed era anche un
tantino egoista come sono spesso i gentiluomini di campagna per il loro stesso
isolamento.
- Maledizione, ha un
attacco, - disse l'uomo nascondendo la sua mano straziata al custode del
bagagliaio che era accorso al rumore della lotta. - Lo porto a San Francisco per
incarico del padrone; crede che un veterinario laggiù possa curarlo.
Quel che era avvenuto in
quella notte di viaggio, I'uomo lo raccontò con molta eloquenza nel piccolo
retrobottega di una taverna del porto di San Francisco.
- Ci ho guadagnato in tutto
cinquanta dollari, - brontolava; - se lo avessi saputo non l'avrei fatto nemmeno
per mille pagati l'uno sull'altro.
La sua mano era avvolta in
un fazzoletto insanguinato e il pantalone destro era stracciato dal ginocchio
alla caviglia.
- E quello che te l'ha
venduto quanto ha preso? - domandò il padrone della taverna.
- Cento, - fu la risposta. -
Neppure un soldo di meno.
- Fanno centocinquanta, -
disse il taverniere facendo il conto, - ma li vale davvero.
Il ladro si tolse la
fasciatura sanguinosa e si guardò la mano lacerata. - Se non mi piglio
l'idrofobia...
- Vorrà dire che sei nato
per essere impiccato, - disse il taverniere ridendo. - Sù, dammi una mano per
imballare il carico, - aggiunse.
Sbigottito, soffrendo
tremendamente alla gola e alla lingua, mezzo morto, Buck cercò di resistere ai
suoi tormentatori. Ma fu domato e abbattuto più volte finché i due riuscirono a
limare il suo grosso collare di ottone; poi gli tolsero anche la fune e lo
spinsero in una gabbia di legno. Rimase per il resto di quella spaventosa notte
covando la sua rabbia e il suo orgoglio ferito.
Non riusciva a capire che
cosa significasse tutto questo. Che cosa volevano fare di lui quegli strani
uomini? Perché lo avevano chiuso in quella stretta gabbia? Non riusciva a
capacitarsi, ma si sentiva oppresso dal vago senso di una sciagura imminente.
Più volte durante la notte balzò in piedi nel sentire aprire la porta,
aspettandosi di vedere il giudice o almeno i ragazzi. Ogni volta era la faccia
gonfia del taverniere che lo guardava alla fioca luce di una candela. E ogni
volta il grido di gioia che già tremava nella gola di Buck si cambiava in un
mugolio selvaggio.
Infine il taverniere lo
lasciò solo e al mattino quattro uomini entrarono e presero su la gabbia. Più
che aguzzini apparvero a Buck come esseri diabolici, sudici e stracciati, ed
egli si volse furioso contro di loro di là dalle sbarre. Gli uomini si misero a
ridere e gli tesero un bastone che Buck subito addentò finché non comprese che
era proprio quello che volevano. Allora si sdraiò tristemente e lasciò che la
gabbia fosse issata su di un vagone.
Poi lui e la cassa in cui
era rinchiuso passarono per varie mani.
Impiegati della ferrovia si
presero cura di lui; fu portato in un altro vagone, un carro lo trasportò
insieme a un mucchio di scatole e di pacchi su di un traghetto, dal traghetto fu
portato in un grande magazzino ferroviario e finalmente messo su di un treno
espresso.
Per due giorni e due notti
il vagone fu trascinato da fischianti locomotive, e per due giorni e due notti
Buck non mangiò né bevve.
Nella sua angoscia si era
messo a latrare al personale del treno, che aveva risposto facendogli dispetti.
Quando si gettò contro le sbarre fremendo e con la bava alla bocca, quelli si
misero a ridere e a canzonarlo. Mugolavano e abbaiavano come vilissimi cani,
miagolavano, agitavano le braccia e strepitavano. Tutto ciò era veramente
ignobile, egli lo capiva; ma appunto per questo la sua dignità ne era
maggiormente offesa e la sua rabbia cresceva sempre di più. Non badava molto
alla fame, ma la mancanza di acqua gli dava crudeli sofferenze e portava la sua
rabbia fino al delirio. Sensibilissimo com'era, il cattivo trattamento avuto gli
aveva infatti dato un accesso di febbre alimentata dall'infiammazione della gola
arsa e tumefatta. Era contento di una cosa: gli avevano tolto la corda. Quella
corda aveva dato loro uno sleale vantaggio, ma ora che non c'era più, avrebbe
potuto mostrare quel che sapeva fare. Non gli avrebbero certo messo un'altra
corda al collo: su questo aveva già deciso. Non, mangiò né bevve per due giorni
e per due notti, e durante questo periodo di pena accumulò una riserva di rabbia
che prometteva male per il primo che gli fosse capitato davanti. Aveva gli occhi
iniettati di sangue e si era trasformato in un demonio arrabbiato. Era così
cambiato che lo stesso giudice non l'avrebbe riconosciuto. Gli impiegati del
treno respirarono di sollievo quando lo scaricarono a Seattle.
Quattro uomini portarono
cautamente la gabbia dal vagone in un piccolo cortile dalle alte mura. Venne un
omaccione con una maglia rossa che gli saliva fino al collo e firmò il registro
del corriere. Buck indovinò che quest'uomo era un altro aguzzino e gli abbaiò
furiosamente gettandosi contro le sbarre. L'uomo ebbe un riso crudele e afferrò
un'ascia ed un bastone.
- Non vorrete mica farlo
uscire adesso! - chiese il corriere.
- Sicuro, - rispose l'altro
dando un colpo d'accetta alla gabbia per provarla.
Immediatamente i quattro
uomini che l'avevano portata balzarono via e, mettendosi in salvo sul ciglio del
muro, si prepararono a osservare lo spettacolo.
Buck si avventò sulle
schegge di legno e vi affondò i denti pieno di furia; dovunque l'ascia si
abbatteva dall'esterno egli si precipitava dall'interno ringhiando e latrando
freneticamente ansioso di gettarsi sull'uomo dalla maglia rossa che continuava
tranquillo il suo lavoro.
- E adesso avanti, diavolo
dagli occhi rossi, - disse l'uomo quando ebbe fatto nella gabbia un'apertura
sufficiente perché Buck potesse passare. Nello stesso tempo lasciò cadere
l'ascia e afferrò il bastone con la destra.
Buck era veramente un
diavolo dagli occhi rossi, tutto raccolto per scattare, col pelo irto, la bocca
grondante di bava e un lampo folle negli occhi sanguigni. Si scagliò dritto
contro l'uomo con le sue centoquaranta libbre di furia aumentate da tutta la
passione accumulata in quei due giorni e in quelle due notti. A mezz'aria,
proprio quando le sue mascelle stavano per chiudersi addentando, ricevette un
colpo che lo arrestò di colpo facendogli battere i denti dolorosamente. Fece una
capriola battendo a terra col dorso e col fianco. Non era mai stato colpito da
un bastone in vita sua, e non riusciva a capacitarsi. Con un ringhio che era in
parte un latrato ma assai più uno strido, balzò in piedi e si slanciò. Ancora fu
colpito e gettato a terra. Questa volta comprese cos'era un bastone, ma la sua
furia non gli permetteva di essere prudente. Caricò ancora una dozzina di volte,
e ogni volta il bastone arrestò il suo attacco e lo stese a terra.
Dopo un colpo più crudele,
strisciò ai piedi dell'uomo troppo stordito per slanciarsi. Fece qualche passo
barcollando mentre il sangue gli usciva dal naso, dalla bocca e dagli orecchi;
il suo bel pelo era sporco di bava sanguinosa. Allora l'uomo fece un passo
avanti e gli diede risolutamente un terribile colpo sul naso. Tutte le
sofferenze che aveva avuto fino allora erano nulla in confronto del profondo
spasimo che provò. Con un ruggito feroce, che sembrava quello di un leone, si
slanciò ancora contro l'uomo, ma questi, passando il bastone dalla destra nella
sinistra, lo afferrò con tranquilla sicurezza alla mascella inferiore e gliela
torse. Buck descrisse nell'aria un giro completo e la metà di un altro.
Picchiando poi a terra con la testa e col petto, s'avventò per l'ultima volta.
L'uomo gli diede il capo di grazia che aveva accortamente serbato per ultimo, e
Buck si abbatté come un cencio, privo di sensi.
- Per domare i cani non ha
l'eguale, ecco quel che dico, - gridò entusiasta uno degli uomini sul muro.
- Druther doma un cane al
giorno e il sabato due - rispose il corriere arrampicandosi sul suo carro e
avviando i cavalli.
Buck riprese i sensi, ma non
le forze. Rimase sdraiato là dov'era caduto e gettò uno sguardo all'uomo dalla
maglia rossa.
- "Risponde al nome di Buck",
- disse tra sé l'uomo leggendo la lettera del taverniere che gli annunciava la
spedizione della gabbia e del suo contenuto.- Bene, Buck, ragazzo mio,- continuò
bonariamente, - abbiamo avuto una piccola conversazione, e la miglior cosa che
si possa fare adesso è di non pensarci più. Tu hai capito qual è il tuo posto e
io so qual è il mio. Se sarai un buon cane, tutto andrà benone, ma se sarai un
cane cattivo, te ne darò quante potrai portarne, capito?
Così parlando gli carezzava
senza paura la testa che aveva colpito così crudelmente, e sebbene il pelo di
Buck si ergesse istintivamente al tocco di quella mano, egli sopportò la carezza
senza protestare. Quando l'uomo gli portò dell'acqua, bevve avidamente e poi
mangiò una generosa porzione di carne cruda, a pezzo a pezzo, prendendola dalla
mano stessa dell'uomo.
Era stato vinto, lo sapeva;
ma non prostrato. Capì una volta per tutte che contro un uomo armato di un
bastone non c'era niente da fare, imparò la lezione e non la dimenticò più per
tutta la vita.
Quel bastone fu una
rivelazione: lo introdusse nel regno della legge primitiva. Le vicende della
vita avevano adesso un aspetto più fiero; ed egli le affrontò con tutta la
sagacia nascosta nella sua intelligente natura. Nei giorni successivi giunsero
altri cani, in gabbie o al guinzaglio, alcuni docilmente altri infuriando e
latrando come aveva fatto lui e, ad uno ad uno, li vide sottomettersi al dominio
dell'uomo dalla maglia rossa. Ogni volta osservò lo spettacolo brutale e si
fissò in mente la lezione: un uomo con un bastone fa legge, è un padrone che
deve essere obbedito anche se non necessariamente amato. Su questo ultimo punto,
Buck non cadde mai in colpa, sebbene vedesse dei cani che dopo essere stati
picchiati facevano servilmente festa all'uomo, scodinzolando e leccandogli la
mano. Vide anche un cane che non volle mai cedere né obbedire, e che infine fu
ucciso nella lotta.
Ogni tanto venivano uomini,
degli stranieri, che parlavano ora rudemente, ora gentilmente e in tutti i
possibili modi con l'uomo dalla maglia rossa. E quando passava fra di loro del
denaro, gli stranieri se ne andavano portando con sé uno o più cani. Buck si
domandava dove andassero, perché non tornavano mai indietro. La paura del futuro
era forte in lui, e ogni volta si rallegrava di non essere stato scelto.
Venne anche il suo turno
sotto forma di un ometto magro che parlava un cattivo inglese con molte
espressioni strane e insolite che Buck non capiva.
- Sacredame! - gridò
scorgendo Buck. - Quello un buon forte cane!
Eh? Quanto?
- Trecento ed è regalato, -
fu l'immediata risposta dell'uomo in maglia rossa. - E poiché è denaro del
governo, non vorrete contrattare, eh, Perrault?
Perrault rise. Considerando
che i prezzi dei cani erano andati alle stelle per la straordinaria richiesta,
non era quella una somma eccessiva per un così bell'animale. Il governo canadese
non ci avrebbe rimesso, e le sue spedizioni non sarebbero state meno veloci.
Perrault s'intendeva di cani e guardando Buck comprese che di cani simili se ne
poteva trovare uno su mille. - Uno su DISMILLE, - commentò fra sé.
Buck vide passare denaro fra
loro e non si meravigliò quando, insieme con Curly, una brava cagna di
Terranova, fu portato via dall'ometto magro. Fu l'ultima volta che vide l'uomo
dalla maglia rossa, e quando, insieme con Curly, dal ponte del Narwhal, guardò
il porto di Seattle che si allontanava, fu l'ultima volta che vide le calde
terre del Sud. Lui e Curly furono condotti da Perrault sotto coperta e
consegnati a un gigante dalla faccia bruna chiamato François.
Perrault era un
franco-canadese di carnagione bruna; ma François era un franco-canadese di mezzo
sangue e ancor più bruno di lui.
Appartenevano ad un tipo di
uomini che Buck non conosceva, ma che in seguito avrebbe incontrato in gran
numero, e sebbene non si affezionasse a loro, li rispettò tuttavia lealmente.
Capì subito che Perrault e François erano brave persone, calme e imparziali
nell'amministrare la giustizia, troppo esperte in fatto di cani per poter essere
ingannate. Sotto il ponte del Narwhal, Buck e Curly incontrarono altri due cani.
L'uno era un grande animale dal pelo bianco che era stato portato dallo
Spitzberg dal capitano di una baleniera, e che aveva poi partecipato ad una
spedizione geologica alle isole Barrens. Aveva una certa cordialità traditora,
sempre in festa anche quando meditava qualche tiro, come quando, ad esempio,
rubò la porzione di Buck durante il primo pasto. Buck già si preparava a
punirlo, ma in quel momento stesso la frusta di François fischiò nell'aria
raggiungendo il colpevole; e Buck non dovette fare altro che ricuperare il suo
cibo. Concluse che era stato quello un bel gesto da parte di François e il
mezzosangue salì molto nella sua stima.
L'altro cane non diede
manifestazioni di amicizia né ne ricevette; e non cercò di rubare niente ai
nuovi venuti. Era un tipo triste, imbronciato, e fece capire subito a Curly che
desiderava essere lasciato solo altrimenti ci sarebbe stata baruffa. Si chiamava
Dave, mangiava, dormiva, sbadigliava nel frattempo e non si interessava a nulla
nemmeno quando il Narwhal attraversò lo stretto della Regina Carlotta, e si mise
a rullare, a beccheggiare e a scuotersi come un indemoniato. Mentre Buck e Curly,
eccitatissimi, sembravano impazziti dalla paura, egli alzò la testa con un gesto
di noia, volse loro uno sguardo distratto, sbadigliò e tornò a dormire.
Giorno e notte la nave
vibrava sotto il continuo impulso delle eliche, e sebbene i giorni scorressero
eguali, Buck si accorse che l'aria diveniva più fredda; infine, un mattino,
l'elica si fermò, e il Narwhal, fu pervaso da un'atmosfera di eccitazione. Buck
se ne accorse al pari degli altri cani, e capì che stava per avvenire un
cambiamento. François mise loro il guinzaglio e li portò sul ponte. Al primo
passo sulla superficie fredda le zampe di Buck affondarono in qualche cosa di
bianco e di morbido, molto simile al fango. Balzò indietro sbuffando. Una gran
quantità di quel fango bianco si agitava nell'aria. Si scosse; ma continuava a
venirgli addosso. Annusò curiosamente quella cosa e provò a leccarla. Sembrava
fuoco e subito scompariva. Buck non capiva.
Provò ancora con lo stesso
risultato. Intorno a lui quelli che lo guardavano ridevano forte ed egli si
sentì pieno di vergogna senza sapere perché: era la prima neve che vedeva.
2. LA LEGGE DEL BASTONE E
DELLA ZANNA
Il primo giorno che Buck
trascorse sulla spiaggia di Dyea fu come un incubo. Ad ogni momento erano scosse
e sorprese. Era stato strappato in un attimo dal cuore della civiltà e gettato
nel vivo di un ambiente primordiale. Non era più la vita oziosa baciata dal
sole, senza altro da fare se non andare a zonzo e annoiarsi. Qui non c'era né
pace, né riposo, né un momento di tranquillità. Tutto era confusione e
movimento, e ad ogni istante le membra e la vita erano in pericolo. Bisognava
stare sempre all'erta perché non si aveva più a che fare con cani e uomini di
città: erano tutti selvaggi e non conoscevano altra legge se non quella del
bastone e della zanna.
Non aveva mai visto dei cani
combattere come quegli esseri che sembravano lupi, e la sua prima esperienza fu
per lui una lezione indimenticabile. E' vero che fu un'esperienza indiretta,
perché altrimenti non sarebbe sopravvissuto per trarne profitto. La vittima fu
Curly. Erano accampati presso i depositi di legname, quando lei, coi suoi modi
cordiali, cercò di fare amicizia con un cane eschimese, grosso quanto un lupo
adulto e tuttavia neppure la metà di lei. Non ci fu preavviso, soltanto uno
scatto fulmineo, un rumore metallico di zanne, un balzo da parte ugualmente
veloce e il muso di Curly fu lacerato dall'occhio alla mascella. Era il modo di
combattere dei lupi, colpire e balzare via; ma la cosa non finì lì. Trenta o
quaranta eschimesi accorsero e circondarono i combattenti in un cerchio attento
e silenzioso. Buck non capì quella tacita attenzione né perché essi si
leccassero avidamente le labbra. Curly aggredì l'avversario, che colpi ancora e
balzò da parte. Al suo terzo attacco, il cane l'arrestò col petto in un modo
particolare e la fece rotolare a terra. Curly non ebbe il tempo di rimettersi in
piedi: gli eschimesi che stavano attorno non aspettavano altro. Fecero massa su
di lei soffiando e ringhiando, e Curly fu sepolta, urlante di dolore, sotto i
loro corpi irsuti.
Tutto avvenne così
rapidamente e inaspettatamente, che Buck rimase stordito. Vide Spitz che si
passava sulle labbra la lingua scarlatta come faceva quando rideva. E poi
François che si gettava in mezzo ai cani brandendo un'ascia. Tre uomini armati
di bastoni vennero in suo aiuto per disperderli. Non fu cosa lunga. Due minuti
dopo che Curly era caduta, l'ultimo degli assalitori era scacciato e bastonato.
Ma la cagna giaceva esanime nella neve sanguinosa e calpestata, fatta quasi a
brandelli, mentre il mezzosangue la guardava bestemmiando orribilmente. Quella
scena tornò più volte a turbare i sogni di Buck. Così dunque andavano le cose.
Non era un gioco facile. Una volta a terra, era finita.
Bene, avrebbe cercato di non
cadere. Spitz tirò fuori la lingua e rise ancora, e da quel momento Buck lo odiò
di odio profondo e mortale.
Non si era ancora rimesso
dal colpo causatogli dalla tragica fine di Curly, che ne ricevette un altro:
François gli mise addosso un insieme di cinghie e di fibbie. Era una bardatura
simile a quella che, a casa sua, aveva visto mettere ai cavalli dai mozzi di
stalla. Come aveva visto lavorare i cavalli, così doveva adesso lavorare lui,
trascinare François su di una slitta attraverso la foresta che fiancheggiava la
vallata e tornare con un carico di legna da ardere. Sebbene la sua dignità fosse
profondamente offesa nel vedersi considerare un animale da tiro, egli era troppo
saggio per ribellarsi. Si sottomise di buona volontà e fece del suo meglio
sebbene fosse quella una strana novità. François era severo, chiedeva immediata
obbedienza e la riceveva in grazia della sua frusta; d'altra parte Dave, che era
già esperto, mordeva i quarti posteriori di Buck quando sbagliava. Spitz, anche
lui già esperto, era la guida, e, non potendo raggiungere Buck, lo rimproverava
ringhiando furiosamente, o tirava da parte con accortezza per far capire a Buck
in che direzione doveva andare.
Buck imparò facilmente e,
sotto la triplice guida dei suoi due compagni e di François, fece notevoli
progressi. Prima che tornassero al campo, sapeva già fermarsi al grido di "oh",
e avanzare al grido di "mush", e girare al largo nelle voltate, e lasciar spazio
al cane di dietro quando la slitta carica, in discesa, li incalzava alle
calcagna.
- Proprio tre buoni cani, -
disse François a Perrault. - Quel Buck tira come un dannato. Gli insegnerò tutto
in un momento.
Nel pomeriggio Perrault, che
aveva fretta di partire col suo carico, tornò con altri due cani: Billee e Joe,
fratelli e veri eschimesi. Sebbene figli di una stessa madre, erano diversi tra
loro come il giorno e la notte. L'unica colpa di Billee era la sua eccessiva
cordialità, mentre Joe era l'opposto, cupo e taciturno, sempre pronto a mugolare
e con lo sguardo maligno. Buck li accolse cordialmente, Dave non si occupò di
loro, mentre Spitz volle battersi prima con l'uno poi con l'altro. Billee agitò
bonariamente la coda, girò al largo quando si accorse che quelle gentilezze
erano inutili, e gemette, tuttavia mitemente, quando l'acuta zanna di Spitz gli
strinse il fianco. Ma per quanto Spitz girasse intorno a Joe, questi ruotò sui
calcagni per stargli sempre di fronte, co] pelo irto, le orecchie indietro, le
labbra contratte, le mascelle che si urtavano fra loro quanto più velocemente
potevano, e gli occhi sinistramente lampeggianti: la vera incarnazione della
paura bellicosa. Il suo aspetto era così terribile, che Spitz fu costretto a
trattenersi; ma per dissimulare la sua sconfitta, si volse all'inoffensivo e
gemente Billee e lo inseguì fino al limite del campo. La sera Perrault portò un
altro cane. Un vecchio eschimese, grande, grosso e gagliardo, col muso pieno di
cicatrici gloriose, e un occhio solo, che però fiammeggiava così arditamente da
imporre rispetto. Si chiamava Sol-leks, che significa rabbioso. Al pari di Dave,
non chiedeva nulla, non dava nulla, non si aspettava nulla e quando se ne venne
lentamente ma risolutamente in mezzo a loro, anche Spitz lo lasciò in pace.
Aveva una particolarità che Buck scoprì in modo piuttosto disgraziato: non
voleva essere avvicinato dalla parte del suo occhio cieco.
Buck si rese
involontariamente colpevole di questa offesa e se ne accorse solo quando
Sol-leks si slanciò su di lui e gli lacerò la spalla fino all'osso per una
lunghezza di tre pollici. Dopo di allora Buck evitò di avvicinarsi a lui da quel
lato e finché furono insieme non ebbero più motivo di lite. Al pari di Dave,
Sol-leks aveva un unico desiderio apparente: quello di starsene per conto suo,
ma entrambi, come Buck scoprì più tardi, avevano un'altra e più profonda
ambizione.
Quella notte Buck affrontò
il gran problema di dormire. La tenda, illuminata da una candela, risplendeva;
tiepida in mezzo alla bianca pianura; e quando lui vi entrò, nel modo più
naturale, tanto Perrault quanto François lo scaraventarono fuori a forza di
improperi e a colpi di stoviglie, finché, riavutosi dallo sbigottimento, fuggì
ignominiosamente nel gelo di fuori. Soffiava un vento freddo che lo pungeva
dolorosamente specialmente sulla spalla ferita; si gettò sulla neve e cercò di
dormire, ma il freddo lo fece subito balzare in piedi. Triste e desolato, si
aggirò intorno alle tende ma dappertutto c'era lo stesso freddo.
Qua e là cani selvaggi gli
ringhiarono, ma lui rizzò il pelo mugolando, come aveva imparato a fare, ed essi
lo lasciarono tranquillo.
Finalmente gli venne
un'idea: sarebbe andato a vedere quello che facevano i suoi compagni. Con suo
grande stupore essi erano scomparsi. Si aggirò ancora per il vasto campo
cercandoli, ma tornò deluso. Erano forse nella tenda? No, non era possibile,
altrimenti non avrebbero cacciato via lui. E allora dove potevano essere? A coda
bassa e tutto intirizzito, veramente disperato, continuò a girare intorno alla
tenda, senza meta. Improvvisamente la neve cedette sotto le sue zampe ed egli
affondò. Qualche cosa si muoveva là sotto. Fece un salto indietro mugolando e
ringhiando, pauroso di quella cosa invisibile e sconosciuta. Un piccolo mugolio
amichevole lo rassicurò e lo indusse a farsi avanti per vedere meglio. Un soffio
di aria calda giunse alle sue narici, e là, arrotolato sotto la neve, come una
soffice palla, vi era Billee. Guaiva amichevolmente agitandosi per mostrare le
sue buone intenzioni e, in segno di pace, giunse a leccare il muso di Buck con
la lingua umida e calda.
Un'altra lezione. Così
dunque, facevano gli altri? Pieno di fiducia Buck si scelse un posticino e, a
forza di tentativi disordinati, riuscì a scavarsi una buca. In breve il calore
del suo corpo riempì l'angusto spazio ed egli si addormentò. La giornata era
stata lunga e faticosa, ed egli dormì profondamente e a suo agio, sebbene
mugolasse e ringhiasse in sogno. Non aprì gli occhi finché non fu svegliato dai
rumori del campo che si ridestava, e a tutta prima non riuscì a capire dove si
trovasse.
Durante la notte era
nevicato e la neve lo aveva completamente sepolto. Da ogni lato lo premeva una
bianca copertura, e un gran terrore lo invase: il terrore dell'animale selvaggio
preso in trappola. Certo la sua esistenza si ricollegava ora, risalendo il tempo
a quella dei suoi antenati; perché lui era un cane civile, e non aveva mai
conosciuto trappole per sua propria esperienza, né poteva dunque temerle. Con i
muscoli di tutto il corpo spasmodicamente tesi, irto il pelo sul collo e sulla
schiena, con un ringhio feroce balzò fuori nella luce accecante del giorno,
mentre la neve volava intorno a lui in una nube fulgente. Prima di ricadere
sulle quattro zampe vide il bianco accampamento dinanzi a lui e capì dove era,
ricordando tutto ciò che era avvenuto da quando era uscito a passeggio con
Manuel al momento in cui si era scavata la buca, la sera prima.
L'esclamazione di François
salutò la sua comparsa. - Che dicevo?
- gridava a Perrault il
conducente. - Quel Buck imparerà subito tutto.
Perrault assentì gravemente.
Come corriere del governo canadese, incaricato di portare importanti dispacci,
egli voleva assicurarsi i cani migliori, ed era molto contento di avere
acquistato Buck.
Dopo un'ora, altri tre
eschimesi furono aggiunti all'attacco che arrivò così a un totale di nove; e
prima che trascorresse un altro quarto d'ora tutti erano al loro posto e
trascinavano la slitta verso il cañon Dyea. Buck era contento di essere partito,
e il lavoro, sebbene faticoso, non gli dispiaceva affatto. Fu sorpreso dello
zelo che animava tutto il tiro e che si era comunicato anche a lui, ma ancor più
lo sorprese il cambiamento avvenuto in Dave e in Sol-leks: erano diversi,
completamente trasformati dalla bardatura. Avevano perso tutta la loro passività
e la loro indifferenza, erano attivi e solerti, pieni di zelo perché il lavoro
procedesse bene, e profondamente irritati se qualche cosa lo ritardava per
qualche ostacolo o qualche confusione. Sembrava che la suprema espressione del
loro essere fosse il fare forza sulle tirelle, che vivessero solo per questo, e
che in questo lavoro consistesse l'unico loro piacere.
Dave era il cane di ruota, o
meglio di slitta, Buck correva davanti a lui, e più avanti ancora Sol-leks; il
resto dell'attacco era disposto in fila indiana, fino al cane di testa, che era
Spitz. Buck era stato messo apposta tra Dave e Sol-leks perché imparasse. Era un
buono scolaro, ed essi erano non meno buoni maestri: non gli permettevano di
rimanere a lungo nell'errore e davano forza al loro insegnamento con i loro
denti acuti. Dave era buono e saggio, non mordeva mai Buck senza un motivo, ma
non dimenticava mai di farlo quando era necessario.
Poiché interveniva anche la
frusta di François, Buck s'accorse che costava meno correggersi che ribellarsi.
Una volta, durante una breve sosta, aggrovigliò le tirelle ritardando la
partenza; e Dave e Sol-leks si avventarono su di lui somministrandogli un duro
castigo. Le tirelle si aggrovigliarono ancor più, ma Buck si preoccupò di
tenerle bene in ordine, in seguito. Prima che finisse il giorno si era così bene
impadronito del suo lavoro, che i compagni non lo rimproverarono più. La frusta
di François colpì con minore frequenza e Perrault gli fece l'onore di
esaminargli i piedi molto attentamente.
Fu quella una rude galoppata
su per il cañon, attraverso il Campo della Pecora oltre le Scale e la linea
della foresta, attraverso ghiacciai e cumuli di neve di cento piedi, fin oltre
il grande Passo di Chilcot, che sorge tra la zona marina e la fredda, e si leva
come sentinella del triste e solitario Nord.
Andarono veloci giù per la
catena dei laghi che riempiono i crateri di vulcani estinti, e a notte avanzata
giunsero al grande campo sull'estremo del lago Bennett, dove migliaia di
cercatori d'oro si stavano costruendo barche in attesa della rottura dei ghiacci
a primavera. Buck si scavò la sua buca nella neve e dormì il sonno di un giusto
molto stanco, ma fu risvegliato molto presto, ancora a buio, e riattaccato alla
slitta con i suoi compagni.
Quel giorno percorsero
quaranta miglia perché la pista era già tracciata; ma il giorno dopo, e per
molti altri giorni ancora, dovettero tracciare loro stessi la pista, lavorando
di più e facendo meno strada. Di norma Perrault camminava in testa all'attacco
comprimendo la neve con le racchette per aprire la via. François guidava la
slitta, e qualche volta, ma non spesso, scambiava il suo posto con lui. Perrault
aveva fretta ed era orgoglioso della sua conoscenza dei ghiacci, indispensabile
perché il ghiaccio era molto sottile e non ve ne era affatto là dove l'acqua
correva più velocemente. Giorno per giorno, per giorni senza fine, Buck corse
tra le tirelle. Levavano sempre il campo a notte alta, e il primo grigiore
dell'alba li trovava già a galoppare sulla pista con molte miglia alle spalle.
Sempre piantavano il campo a notte, mangiando la loro razione di pesce e
gettandosi a dormire sulla neve. Buck era affamato. La libbra e mezzo di salmone
seccato che formava la sua razione giornaliera, spariva in un attimo. Non era
mai sazio e soffriva continuamente i crampi della fame. Gli altri cani, che
pesavano di meno ed erano già allenati, ricevevano solo una libbra di pesce, e
questo bastava a mantenerli in buone condizioni.
Abbandonò presto quella
schifiltosità che era stata caratteristica della sua vita di un tempo; era un
mangiatore difficile, e si accorse che i suoi compagni, che finivano prima,
rubavano una parte della sua razione. Non c'era mezzo di difenderla, perché,
mentre egli si azzuffava con due o tre, il cibo scompariva nelle bocche degli
altri. Per rimediare a questo, cominciò a mangiare in fretta come gli altri; e
la fame lo incalzava tanto che non si fece scrupoli di prendere anche quello che
non gli spettava.
Osservava e imparava. Quando
vide Pike, uno dei cani ultimi arrivati, ladro astuto e malizioso, rubare un
pezzo di lardo in un momento in cui Perrault voltava le spalle, il giorno dopo
imitò su più vasta scala quella prodezza, portandosi via tutto il pezzo. Ne
sorse un gran tafferuglio, ma egli non fu sospettato; e Dub, uno stordito che si
faceva sempre cogliere, fu punito per colpa sua.
Questo primo furto mise in
evidenza che Buck era capace di sopravvivere nell'ostile ambiente del Nord: mise
in rilievo la sua capacità di adattamento alle mutevoli condizioni, la cui
mancanza avrebbe significato morte pronta e terribile. Nello stesso tempo segnò
la decadenza o addirittura lo sfacelo delle sue qualità morali, vano ingombro
nella selvaggia lotta per l'esistenza. Nel Sud, sotto la legge dell'amore e
dell'amicizia, il rispetto della proprietà privata e dei sentimenti personali
erano buone cose; ma nel Nord, sotto la legge del bastone e della zanna, chi
avesse dato importanza ad esse sarebbe stato un pazzo, e finché le avesse
osservate avrebbe avuto ben pochi vantaggi.
Non che Buck ragionasse
così. Era adatto all'esistenza, tutto qui, e si adattava inconsapevolmente al
nuovo genere di vita. In tutta la sua vita non aveva mai evitato un
combattimento senza badare a disparità di condizione. Ma il bastone dell'uomo in
maglia rossa gli aveva istillato un codice più fondamentale e primitivo. Come
civile, avrebbe potuto morire per un principio morale, ad esempio, per difendere
il frustino del giudice Miller; ma l'insieme della sua regressione era adesso
messo in evidenza dalla sua abilità di evitare le proibizioni di ordine morale
per salvare così la pelle.
Non rubava per il piacere di
rubare, ma per placare le esigenze del suo stomaco; e non lo faceva apertamente,
ma in segreto e con astuzia, fuori del raggio d'azione del bastone e della
zanna.
Insomma, faceva quello che
era più facile fare che non fare.
Il suo sviluppo, o la sua
regressione, fu rapido: i suoi muscoli divennero duri come acciaio, si abituò a
tutte le sofferenze quotidiane e riuscì a formarsi un'economia interna come una
esterna. Poteva mangiare qualunque cosa anche se ripugnante e indigeribile; e
quando l'aveva mangiata, i succhi del suo stomaco ne traevano ogni minima
particella di nutrimento; e il sangue la portava nei più reconditi angoli del
suo corpo trasformandola in forti e solidi tessuti. La vista e l'odorato
divennero acutissimi, e l'udito gli si sviluppò tanto, che nel sonno poteva
udire i rumori più deboli e capire se annunciavano pace o pericolo. Imparò a
strapparsi coi denti il ghiaccio che gli impastava le dita; e quando aveva sete
e uno strato di ghiaccio ricopriva una pozza, egli sapeva spezzarlo drizzandosi
e colpendolo colle zampe davanti. La sua più notevole abilità era quella di
fiutare il vento e di prevederlo anche con una notte di anticipo. Per quanto non
tirasse un filo d'aria, quando si scavava il suo giaciglio presso un albero o
una roccia, il vento che sorgeva più tardi lo trovava inevitabilmente al riparo,
ben coperto e tranquillo. E non solo imparò per propria esperienza, ma si
risvegliarono in lui gli istinti da molto tempo sopiti. Le generazioni
domestiche scomparivano via via dal suo ricordo. In modo confuso egli riandava
con la memoria alla gioventù del mondo, ai tempi in cui i cani selvaggi si
riunivano in branchi nelle foreste primordiali e uccidevano la loro preda
facendo scorrerie. Non fu faticoso per lui imparare a combattere lacerando e
azzannando al modo dei lupi, perché così avevano combattuto i suoi avi
dimenticati. Essi ravvivavano in lui l'antica vita, e le antiche astuzie da loro
lasciate in eredità all'esistenza erano le sue stesse astuzie.
Apparivano in lui senza
sforzo e senza meraviglia, come se fossero sempre state sue; e quando nelle
lunghe notti gelate levava il muso alle stelle gettando lunghi ululati nello
stile dei lupi, erano i suoi antenati morti e ridotti in polvere, che levavano
il muso alle stelle e ululavano nei secoli attraverso di lui. Quel grido
modulato era il loro grido con cui avevano espresso la loro pena e tutto ciò che
potevano suggerire loro la quiete, il freddo e la notte.
Così, prova evidente di
quale lieve cosa sia la vita, l'antico canto tornava in lui, ed egli tornò nel
suo antico essere; e tutto questo perché gli uomini avevano trovato un biondo
metallo nel Nord, e perché Manuel era un aiuto giardiniere che non guadagnava
abbastanza per mantenere la moglie e le varie piccole copie di se stesso.
3. LA DOMINANTE BELVA
PRIMITIVA
La belva primitiva dominava
fortemente in Buck, e in quelle fiere condizioni di vita si sviluppò sempre più.
Tuttavia era uno sviluppo segreto. La sua nuova astuzia gli ispirava un
equilibrio ed un controllo. Era troppo occupato ad adattarsi alla nuova vita per
sentirsi a suo agio, e non solo non cercò combattimenti, ma li evitò il più
possibile. Una certa ponderatezza era caratteristica del suo atteggiamento. Non
si abbandonava ad atti imprudenti o precipitati, e nel suo profondo odio per
Spitz non mostrava alcuna impazienza e celava ogni ostilità.
D'altra parte, forse perché
indovinava in Buck un pericoloso rivale, Spitz non si lasciava mai sfuggire
l'occasione per mostrargli i denti. Giunse perfino ad attraversargli la strada
cercando sempre di far sorgere una zuffa che sarebbe finita solo con la morte
dell'uno o dell'altro. Questo avrebbe potuto succedere fin dall'inizio del
viaggio, se non fosse avvenuto un incidente inconsueto.
Una sera avevano piantato un
piccolo e triste campo sulle rive del lago Le Barge; nevicava e tirava un vento
che tagliava come una lama di coltello, e l'oscurità li aveva costretti a
cercare a tentoni un posto per accamparsi. Difficilmente avrebbero potuto
trovarne uno peggiore: alle loro spalle sorgeva una roccia a picco, e Perrault e
François erano stati costretti ad accendere il fuoco e a stendere i loro
lettucci sul ghiaccio del lago stesso.
Avevano lasciato la tenda a
Dyea per avere meno bagagli. Furono accesi pochi rami di legno secco, ma il
fuoco cadde nell'acqua attraverso il ghiaccio fuso e li lasciò a finire la cena
al buio.
Buck si scavò il giaciglio
al piede della roccia. Se ne stava lì così bene riparato e al caldo, che lo
lasciò a malincuore quando François distribuì il pesce dopo averlo sgelato sul
fuoco. Ma quando Buck ebbe finito la sua razione e tornò alla buca, la trovò
occupata. Un ringhio minaccioso lo avvertì che l'usurpatore era Spitz. Fino ad
ora Buck aveva evitato ogni litigio col suo nemico, ma questo era troppo. La
belva che era in lui ruggì. Balzò sopra Spitz con una furia che li sorprese
entrambi, ma soprattutto Spitz, perché tutta l'esperienza che aveva di Buck gli
aveva insegnato che il suo rivale era un cane molto timido, capace di cavarsela
solo in grazia del suo peso e delle sue dimensioni.
Anche François fu sorpreso
quando balzarono fuori dalla buca in un solo groviglio e capì la causa di quella
zuffa. - Ah, ah! - gridò a Buck, - dagli, perbacco! Dagli addosso a quel ladro!
Spitz era non meno furioso.
Urlava pieno di rabbia correndo in su e in giù, cercando il momento opportuno di
slanciarsi. Buck era non meno attento e non meno prudente, e si aggirava anche
lui in sù e in giù cercando il momento più opportuno. Proprio in quell'istante
accadde l'inaspettato, che doveva differire la loro lotta a migliore occasione,
dopo molte e molte faticose miglia di pista e di lavoro.
Una bestemmia di Perrault,
il colpo sonoro di un bastone su di un corpo ossuto e uno strido di dolore
segnarono l'inizio di un pandemonio. Il campo apparve improvvisamente popolato
di forme irsute: una sessantina di eschimesi affamati, che avevano sentito
l'odore da qualche villaggio indiano, si erano avvicinati mentre Buck e Spitz
stavano per azzannarsi, e quando i due uomini si scagliarono in mezzo a loro a
colpi di bastone, indietreggiarono mostrando i denti. Erano esasperati
dall'odore del cibo. Perrault ne trovò uno con la testa infilata in una cassa;
il suo bastone piombò pesantemente sulle costole dell'animale e la cassa si
rovesciò. Immediatamente il branco di bestie affamate si azzuffò contendendosi
le gallette e il lardo. Le bastonate caddero su di loro senza avere alcun
effetto: mugolavano e guaivano sotto la grandine dei colpi, ma continuavano a
lottare pazzamente fra loro finché l'ultima briciola non fu divorata. Frattanto
i cani dell'attacco, stupiti erano saltati fuori dalle loro buche e subito
furono aggrediti dai fieri invasori. Buck non aveva mai visto cani simili: con
le ossa che quasi scappavano fuori dalla pelle, veri scheletri avvolti in
sudicie pellicce, con occhi fiammeggianti e la bava alla bocca. Ma la fame li
rendeva paurosi e irresistibili. Non era possibile opporsi a loro. La muta fu
respinta contro la rupe al primo assalto. Buck fu incalzato da tre eschimesi e
in un attimo ebbe il muso e la schiena lacerati. La mischia era paurosa. Billee
guaiva come al solito. Dave e Sol-leks grondanti sangue da molte ferite,
combattevano coraggiosamente a fianco a fianco; Joe lottava come un demonio. Una
volta i suoi denti strinsero la zampa davanti di un eschimese e schiacciarono
l'osso. Pike, balzò accortamente sull'animale azzoppato spezzandogli l'osso del
collo con un morso furioso. Buck prese alla gola un avversario e fu inzuppato di
sangue quando gli recise coi denti la vena iugulare; il caldo sapore di quel
sangue lo inferocì ancor più, si gettò su di un altro ma in quel momento si
sentì addentare alla gola: era Spitz che lo attaccava a tradimento di fianco.
Perrault e François, dopo
aver liberato una parte del campo corsero in aiuto dei loro cani. L'onda
selvaggia degli animali affamati indietreggiò davanti a loro, Buck riuscì a
liberarsi. Fu solo per un momento; due uomini furono costretti a tornare
indietro per salvare le riserve di viveri su cui gli eschimesi tornavano a
slanciarsi dopo aver lasciato la muta. Billee, reso coraggioso dal terrore,
balzò attraverso il cerchio selvaggio e fuggì via sul ghiaccio. Pike e Dub gli
si misero alle calcagna tirandosi dietro il resto della muta. Mentre Buck si
raccoglieva per balzare dietro di loro, vide con la coda dell'occhio Spitz che
si avventava su di lui con l'evidente intenzione di rovesciarlo.
Una volta abbattuto e caduto
sotto la massa degli eschimesi, non c'era più speranza per lui. Ma egli si
preparò a sostenere l'urto di Spitz e poi fuggì sul lago con altri.
Infine i nove cani
dell'attacco si riunirono rifugiando nella foresta. Sebbene non fossero stati
inseguiti, si trovarono a mal partito: nessuno di loro era ferito in meno di
quattro o cinque punti, e alcuni gravemente. Dub era malamente colpito in una
gamba posteriore; Dolly, l'ultimo eschimese aggiunto al tiro, a Dyea, aveva una
brutta ferita alla gola; Joe aveva perso un occhio, mentre quel bonaccione di
Billee, con un orecchio ridotto a brandelli, mugolò e uggiolò tutta notte.
All'alba, cautamente, si trascinarono zoppicando all'accampamento: i predoni se
n'erano andati e i due uomini erano di pessimo umore: una buona metà dei viveri
era andata persa. Gli eschimesi avevano roso le tirelle della slitta e le
coperte; in realtà niente di quello che era anche lontanamente commestibile era
loro sfuggito. Avevano divorato i mocassini di pelle di daino di Perrault, parte
dei tiranti di cuoio, e perfino il laccio di pelle lungo due piedi all'estremità
della frusta di François. Egli si riscosse dalla malinconica contemplazione di
tutto ciò per guardare i suoi cani feriti.
- Ah, ah! Amici miei,- disse
dolcemente,- può darsi che tutti questi morsi vi facciano diventare idrofobi.
Tutti idrofobi, forse, Sacredame! Che ne dite, eh, Perrault?
Il corriere scosse la testa
con un gesto dubbioso; con quattrocento miglia di pista che rimanevano ancora
tra lui e Dawson non poteva ammettere che l'idrofobia scoppiasse tra i suoi
cani. Dopo due ore di maledizioni e di lavoro, le bardature furono rimesse a
posto, e il tiro, dolente delle ferite, era ancora in cammino e si trascinava
penosamente lungo la parte più dura che avessero incontrato nel loro viaggio, la
più dura sulla strada di Dawson.
Il fiume delle Trenta Miglia
era completamente libero dai ghiacci.
Le sue acque impetuose
sfidavano il gelo, e solo nelle zone di riflusso e in quelle più calme il
ghiaccio si era potuto formare.
Sei giorni di lavoro
sfibrante furono necessari per superare quelle terribili trenta miglia.
Terribili in realtà, perché ad ogni passo vi era un pericolo di vita per gli
uomini e per i cani.
Una dozzina di volte
Perrault, che faceva da battistrada, sprofondò passando i ponti di ghiaccio e fu
salvato solo dalla sua lunga pertica che portava in modo che ogni volta si
mettesse attraverso il buco formato nel ghiaccio dal suo corpo. Il freddo era
divenuto intenso, il termometro segnava ventidue gradi sotto zero, e ogni volta
che Perrault sprofondava nel fiume attraverso il ghiaccio era costretto ad
accendere il fuoco e asciugarsi se voleva salvare la vita.
Nulla lo domava; e appunto
per questo era stato scelto come corriere del governo. Affrontava ogni rischio,
esponendo risolutamente al gelo il suo volto rugoso e lottando dal grigiore
dell'alba al buio della notte. Costeggiava le aspre rive del fiume sul ghiaccio
che si curvava e scricchiolava sotto i piedi, così che non osavano fermarsi. Una
volta la slitta sprofondò con Dave e Buck, ed essi furono cavati fuori
semiassiderati e quasi affogati.
Per salvarli fu necessario
il solito fuoco. Si erano coperti di una solida crosta di ghiaccio e i due
uomini li fecero correre intorno al fuoco perché sudassero e si liberassero da
freddo, così vicino alle fiamme da averne il pelo strinato.
Un'altra volta toccò a Spitz,
che si trascinò dietro tutto il tiro fino a Buck, il quale tirava indietro con
tutte le sue forze, puntando le zampe anteriori sul ciglio scivoloso mentre il
ghiaccio cedeva e scricchiolava tutto intorno. Dopo di lui c'era Dave, che
tirava indietro, e al di là della slitta c'era François, che tirava fino a farsi
scricchiolare i tendini.
Un'altra volta il ghiaccio
si ruppe davanti e dietro di loro, e non vi era altro scampo se non su per la
ripa scoscesa. Perrault la scalò per miracolo, mentre François pregava appunto
che il miracolo avvenisse; con ogni corda e ogni cinghia della slitta e usando
anche il più piccolo frammento dei finimenti, intrecciarono una lunga fune; i
cani furono issati uno per uno sul ciglio della scarpata. François arrivò per
ultimo, e infine furono tirati sù la slitta e il carico. Poi si cercò un punto
per scendere nuovamente, e la discesa fu compiuta con l'aiuto della fune; la
notte li trovò nuovamente sul fiume: avevano percorso un quarto di miglio in
tutta la giornata. Quando giunsero a Hootalinqua, e al ghiaccio buono, Buck era
esausto. Gli altri cani erano nelle stesse condizioni, ma Perrault, per
riprendere il tempo perduto, continuò a farli correre velocemente. Il primo
giorno percorsero trentacinque miglia fino al Grande Salmone; il giorno dopo
altre trentacinque miglia fino al Piccolo Salmone; il terzo giorno quaranta
miglia, che li portarono molto innanzi verso le Cinque Dita.
Le zampe di Buck non erano
solide e dure come quelle degli eschimesi. Si erano ammorbidite durante molte
generazioni fin dal giorno in cui l'ultimo dei suoi antenati selvaggi era stato
domato da un uomo della caverna o del fiume. Per tutto il giorno zoppicava
dolorosamente, e quando si piantava il campo, si buttava giù come morto. Per
quanto affamato, non si sarebbe mosso per prendere la sua razione di pesce, e
François doveva portargliela.
Il conducente doveva
strofinargli i piedi per una mezz'ora ogni sera, dopo la cena; e sacrificò gli
alti gambali dei suoi mocassini per farne quattro mocassini a Buck. Fu un grande
sollievo, e un mattino Buck costrinse a contrarsi in una smorfia di riso perfino
la faccia grinzosa di Perrault, perché François si era dimenticato di mettergli
i mocassini e lui si sdraiò sulla schiena agitando nell'aria le quattro zampe in
modo supplichevole e rifiutandosi di muoversi senza di essi. Più tardi i suoi
piedi divennero più solidi per la pista, e quelle calzature ormai logore furono
gettate via.
Una mattina, al Pelly,
mentre stavano attaccando Dolly, che fino allora non s'era fatta notare per
nulla d'eccezionale, essa, improvvisamente, divenne idrofoba. Avvisò con un
lungo ululato da lupo che spezzava il cuore e fece rizzare il pelo a tutti cani
per il terrore; poi si slanciò dritta su Buck. Lui non aveva mai visto un cane
diventare idrofobo né aveva alcuna ragione per temere l'idrofobia; tuttavia
comprese che era qualche cosa di orribile e fuggì via preso dal panico. Fuggì
via deciso, con Dolly che ansava e perdeva bava a un salto dietro di lui; ella
non poteva raggiungerlo, tanto era il suo terrore, né egli poteva fuggire da
lei, tanta era la sua follia. Si slanciò nel grembo boscoso di un isolotto,
corse verso l'estremità più bassa, attraversò un canale irto di ghiacci, balzò
su di un altro isolotto, ne raggiunse un terzo, tornò al corso principale del
fiume e, nella sua disperazione, stava per attraversarlo. Per tutto questo
tempo, sebbene non guardasse, sentiva l'ansare a un salto dietro di sé.
François lo chiamò da un
quarto di miglio, ed egli si voltò, sempre mantenendo la distanza, ansando
penosamente e riponendo in François tutte le sue speranze. Il conducente afferrò
l'ascia, e appena Buck gli fu passato davanti, la fece cadere sulla testa della
folle Dolly.
Buck si abbatté esausto
contro la slitta, senza respiro, incapace di muoversi. Era il momento buono per
Spitz; egli si slanciò su Buck e due volte i suoi denti si affondarono nella
carne del suo nemico indifeso e la lacerarono fino all'osso. Intervenne la
frusta di François, e Buck ebbe la soddisfazione di vedere Spitz ricevere il più
duro castigo che fosse mai stato inflitto a qualcuno del tiro.
- Un diavolo, quello Spitz,
- disse Perrault. - Un giorno o l'altro ammazzerà Buck.
- Ma quel Buck vale due
diavoli, - rispose François. - Più lo osservo e più ne son sicuro. Datemi retta:
un qualche maledetto giorno diventerà matto peggio di un demonio, si masticherà
Spitz ben bene e lo risputerà sulla neve. Proprio così, lo so.
Da quel momento fra i due
cani vi fu guerra. Spitz guida e capo riconosciuto del tiro, sentiva minacciata
la sua supremazia da quello strano cane del Sud. E Buck era strano davvero,
perché dei tanti cani del Sud che Spitz aveva conosciuto, nessuno si era
mostrato capace di sopportare le fatiche del campo e della pista.
Erano tutti troppo delicati
e morivano di fatica, di freddo e di fame. Buck era un'eccezione. Lui solo
resisteva e prosperava, eguagliando gli eschimesi in forza, violenza e astuzia.
Era dunque un cane dominatore, e quel che lo rendeva pericoloso era il fatto che
il bastone dell'uomo in maglia rossa aveva tolto ogni cieco impulso, ogni
avventatezza, dal suo desiderio di dominio. Era scaltro, e poteva aspettare il
suo momento con una pazienza che era veramente primitiva.
Era inevitabile che
avvenisse l'urto per il predominio. Buck ne sentiva l'esigenza perché lo
richiedeva la sua natura stessa, perché era stato preso dall'orgoglio ineffabile
e senza nome della pista: quell'orgoglio che tiene i cani legati al loro lavoro
fino all'ultimo respiro, che li induce a morire felici sotto la bardatura, e
spezza loro il cuore se ne sono distolti.
Era questo l'orgoglio di
Dave come cane di ruota, l'orgoglio di Sol-leks quando tirava con tutte le sue
forze; l'orgoglio che li afferrava quando si toglieva il campo trasformandoli da
bruti sordi e ostinati in creature ardenti, franche, ambiziose; l'orgoglio che
li spronava tutto il giorno, e li lasciava quando, a sera, si piantava il campo,
facendoli ricadere in uno scontento e irrequieto buio. Era l'orgoglio che
animava Spitz e lo costringeva a punire i cani della slitta che sbagliavano o
cercavano di non lavorare lungo la pista, o al mattino si nascondevano quando
dovevano essere attaccati. Ugualmente era questo orgoglio che gli faceva temere
in Buck un possibile cane guida. Ed era appunto questo l'orgoglio di Buck. Egli
minacciava apertamente il dominio dell'altro. Cominciò ad intromettersi fra lui
e i cani che doveva punire, e lo fece deliberatamente. Una notte vi fu una
grande nevicata, e al mattino quel malizioso di Pike non si fece vedere. Se ne
stava al sicuro, ben nascosto nella sua tana sotto un piede di neve. François lo
chiamò e lo cercò invano. Spitz era furente di rabbia. Andava tutto incollerito
per il campo fiutando e scavando dappertutto, ringhiando così terribilmente, che
Pike, udendolo, rabbrividì nel suo nascondiglio.
Quando alla fine fu scovato
e Spitz si slanciò su di lui per punirlo, Buck saltò fra i due con eguale
furore. Giunse così inatteso e si comportò così accortamente, che Spitz fu
respinto e rovesciato. Pike, che tremava come un vigliacco, si rianimò a questa
aperta ribellione e si gettò sul capo abbattuto. Buck, per cui la lealtà
cavalleresca era una legge ormai dimenticata, si gettò a sua volta su Spitz, ma
François, ridacchiando dell'incidente e tuttavia inflessibile nell'amministrare
la giustizia, fece cadere a tutta forza la frusta sulla schiena di Buck. Questo
non valse ad allontanare Buck dal suo rivale prostrato e si dovette ricorrere al
manico della frusta; stordito dal colpo, Buck indietreggiò e la frusta cadde più
volte su di lui mentre Spitz puniva rudemente il più volte colpevole Pike.
Nei giorni che seguirono,
mentre Dawson si avvicinava sempre più, Buck continuò a intervenire tra Spitz e
i colpevoli; ma lo fece accortamente, quando François non era nelle vicinanze.
Con questa chiotta ribellione di Buck, sorse e andò crescendo una
insubordinazione generale. Solo Dave e Sol-leks ne rimasero immuni, ma tutto il
resto dell'attacco andò di male in peggio. Le cose non procedevano più
regolarmente, vi erano continue zuffe, continui disordini, e alla base vi era
sempre Buck. François cominciava a preoccuparsi, perché il bravo conducente
temeva da un momento all'altro la lotta mortale tra i due cani, sapendo che
prima o poi sarebbe avvenuta; e più di una notte i rumori delle zuffe fra gli
altri cani lo costrinsero a uscire nel suo abbigliamento notturno temendo che
Buck e Spitz si stessero azzuffando.
Ma non se ne presentò
l'occasione, e giunsero a Dawson in un buio pomeriggio senza che la grande lotta
fosse ancora avvenuta. Vi erano là molti uomini e innumerevoli cani; Buck li
trovò tutti al lavoro. Sembrava che nell'ordine stabilito delle cose i cani
dovessero lavorare. Per tutto il giorno andavano in sù e in giù lungo la via
principale in lunghi tiri, e di notte si sentivano ancora tintinnare i loro
campanelli. Trasportavano travi da costruzione e legna da ardere fino alle
miniere, e facevano tutti quei lavori che nella vallata di Santa Clara erano
compiuti dai cavalli. Qua e là Buck incontrò dei cani del Sud ma per la maggior
parte erano eschimesi della razza dei lupi selvaggi. Ogni notte, regolarmente,
alle nove, alle dodici ed alle tre, essi alzavano il loro canto notturno, un
canto misterioso e strano a cui Buck si univa con gioia. Quando l'aurora boreale
s'illuminava fredda nell'alto, o le stelle saltavano nella danza del gelo, e la
terra era intorbidita e assiderata sotto il suo manto di neve, il canto degli
eschimesi avrebbe potuto essere la sfida della vita, solo che era modulato in
tono minore con lunghi lamenti e singhiozzi, e sembrava quasi la supplica della
vita, la voce della fatica di esistere. Era un antico canto, antico quanto la
stessa razza, uno dei primi canti del giovane mondo, in un periodo in cui le
canzoni erano tristi. Avvolto nel dolore di generazioni senza numero, era un
lamento che commuoveva Buck nel profondo. Quando egli si lamentava e
singhiozzava, vi era in lui la pena del vivere che era stata l'antica pena dei
suoi padri selvaggi, e insieme la paura e il mistero del freddo e del buio che
erano stati la loro paura e il loro mistero. E il fatto che egli ne fosse così
commosso indicava l'intensità con cui ascoltava, attraverso la lontananza dei
secoli dei primi fuochi e dei primi tetti, i rudi inizi della vita nell'età dei
ruggiti.
Sette giorni dopo il loro
ingresso in Dawson, essi discendevano la costa scoscesa che, passando vicino
alle Baracche volge alla Pista dell'Yukon, e si dirigevano verso Dyea e Acqua
Salata.
Perrault portava dispacci
ancora più urgenti di quelli con cui era venuto; inoltre si era impadronito di
lui l'orgoglio del viaggio, ed egli si proponeva di battere il record dell'anno.
Varie circostanze lo favorivano. La settimana di riposo aveva ristabilito i cani
restituendogli tutte le energie. La pista che avevano tracciato durante l'andata
era stata battuta e indurita da altri viaggiatori. Inoltre il governo aveva
disposto in due o tre punti depositi di viveri per i cani e per gli uomini, e si
poteva dunque viaggiare più leggeri.
Il primo giorno raggiunsero
Sessanta Miglia percorrendo cinquantacinque miglia; il secondo giorno li vide
andare a tutta velocità verso lo Yukon, un bel pezzo avanti sulla strada di
Pelly. Una corsa così bella non fu condotta a termine senza grandi crucci e
arrabbiature da parte di François, perché l'insidiosa rivolta di Buck aveva
distrutto la solidarietà del tiro. Non sembrava più che un unico cane corresse
lungo la pista: l'appoggio di Buck induceva i ribelli a piccole trasgressioni di
ogni genere.
E Spitz non era più un capo
molto temuto: scomparve l'antico timore, e tutti sfidarono la sua autorità. Pike
una notte gli rubò mezzo pesce e se lo divorò sotto la protezione di Buck.
Un'altra notte Dub e Joe si avventarono contro Spitz costringendolo a rinunziare
a castigarli come si erano meritati. E anche quel bonaccione di Billee era
diventato meno bonaccione e non mugolava più pacatamente come nei primi tempi.
Buck non si avvicinava mai a Spitz senza ringhiare e arruffare il pelo
minacciosamente. In realtà si comportava come un vero provocatore e si diede a
far lo spavaldo camminando in su e in giù sotto il naso di Spitz.
Quel rilassamento della
disciplina influiva egualmente sui reciproci rapporti dei cani fra di loro. Essi
si azzuffavano assai più di prima, finché a volte il campo si trasformava in un
manicomio urlante. Dave e Sol-leks erano gli unici che non fossero cambiati, ma
erano divenuti più irritabili per quelle continue liti. François lanciava strane
bestemmie nel suo barbaro linguaggio, e pestava i piedi sulla neve per sfogare
la sua inutile rabbia, e si strappava i capelli. La sua frusta fischiava
continuamente sui cani, ma serviva a poco. Appena voltava le spalle, essi
ricominciavano. Cercava di aiutare Spitz con la frusta, ma Buck capeggiava il
resto della muta. François sapeva che dietro tutto quel disordine c'era Buck; e
Buck sapeva che lui lo sapeva; ma era troppo intelligente per farsi cogliere
nuovamente sul fatto. Quando era attaccato alla slitta lavorava fedelmente
perché il lavoro era divenuto per lui una gioia; ma molto maggior diletto era il
fare insorgere una zuffa tra i compagni e imbrogliare le tirelle.
Alla foce del Tahkeena, una
notte, dopo il pasto, Dub scoprì un coniglio da neve, gli saltò addosso e se lo
fece sfuggire. In un attimo tutta la muta balzò sù urlando. Ad un centinaio di
passi vi era un accampamento della polizia del Nord-Ovest con una cinquantina di
cani, tutti eschimesi, che si unirono alla caccia.
Il coniglio correva lungo il
fiume e voltò in un piccolo affluente correndo sulla sua superficie gelata.
Filava leggermente sulla neve mentre i cani vi passavano attraverso con
violenza. Buck guidava il branco, composto di una sessantina di animali, per
tutte le anse del fiumiciattolo, ma non riusciva a raggiungere la preda. Correva
ventre terra, uggiolando di eccitazione, gettando avanti a balzi il suo
splendido corpo nella fioca e bianca luce lunare. E il coniglio da neve, come un
pallido spettro di ghiaccio, fuggiva via a balzi.
Tutto quel sommuoversi di
antichi istinti che in certi periodi trae gli uomini fuori delle città sonanti
per spingerli nella foresta o nella pianura a uccidere esseri animati con
pallottole di piombo lanciate da mezzi chimici, l'avidità di sangue, la gioia di
uccidere, tutto ciò era in Buck, ma infinitamente più profondo.
Correva alla testa del
branco dietro quell'essere selvaggio, quel cibo vivente, per uccidere coi suoi
denti e immergere fino agli occhi il muso nel sangue caldo.
Vi è un'estasi che segna la
sommità della vita e oltre la quale la vita non può levarsi. E il paradosso
dell'esistenza è tale, che quest'estasi viene quando più si è vivi, e si
presenta come un completo oblio di vivere. Questa estasi, questa felice
dimenticanza, aggredisce l'artista, lo trae fuori di sé avvolto di fiamma;
aggredisce il soldato spingendolo folle nella lotta senza quartiere. Ed ecco che
aggredì Buck mentre guidava il branco e lanciava l'antico grido del lupo
correndo dietro al cibo ancor vivo che fuggiva dinanzi a lui nel plenilunio.
Sprofondava negli abissi della sua natura, di quella parte della sua natura che
più era profonda, tornando indietro nel grembo del tempo. Era dominato dal
violento insorgere della vita, dalla marea dell'essere, dalla completa gioia di
ogni singolo muscolo, di ogni giuntura, di ogni nervo in quanto essi erano tutto
ciò che non è morte, tutto ciò che arde e che aggredisce esprimendosi nel
movimento, volando esultante sotto le stelle e sulla superficie della materia
morta e immobile.
Spitz, freddo e calcolatore
anche nei suoi supremi slanci, lasciò il branco e tagliò attraverso un angusto
lembo di terra intorno a cui il fiumiciattolo faceva una vasta ansa. Buck non se
ne accorse, e mentre girava la curva avendo sempre dinanzi a sé il gelido
spettro del coniglio, vide un altro più grande spettro di ghiaccio balzare dalla
ripa sovrastante sulla strada stessa del coniglio. Era Spitz. Il coniglio non
poté voltarsi, e mentre i denti bianchi del cane gli spezzavano la schiena
afferrandolo a mezz'aria, diede uno strido alto come può gridare un uomo
abbattuto. A questo suono, il grido della vita che precipita dalla propria
altezza nella stretta della morte, tutto il branco che seguiva Buck levò un coro
di gioia infernale.
Buck non gridò. Non frenò la
sua corsa, ma si avventò contro Spitz, spalla contro spalla, con tanta violenza
che non riuscì ad afferrarlo alla gola. Rotolarono più volte sulla neve che si
alzava in polvere. Spitz si rimise in piedi così in fretta che sembrava non
fosse stato nemmeno rovesciato, azzannò la spalla di Buck e fece subito un salto
da parte. Due volte i suoi denti urtarono insieme come le mascelle d'acciaio di
una tagliola mentre indietreggiava per prendere una migliore posizione
ringhiando e contraendo le labbra sottili.
In un lampo Buck comprese:
era venuto il momento, era la lotta mortale. Mentre si giravano attorno
ringhiando, le orecchie tese all'indietro, attenti a cogliere l'occasione
propizia, la scena apparve a Buck in un aspetto familiare. Gli sembrò di
ricordare tutto, i boschi bianchi di neve, la terra, la luce lunare e il fremito
della battaglia. Una calma spettrale gravava su quel silenzioso candore. Non vi
era il minimo alito di vento, non tremava una foglia, e il respiro dei cani si
alzava lentamente visibile, e indugiava nell'aria gelata. Quei cani che
rimanevano pur sempre lupi mal domati, avevano spacciato in fretta il coniglio
da neve, e adesso si erano raccolti in cerchio, aspettando. Erano silenziosi,
solo i loro occhi brillavano e i loro fiati si alzavano lentamente nell'aria.
Per Buck questa scena di antichi tempi non aveva nulla di nuovo né di strano.
Sembrava che fosse stato sempre così, nella consueta vicenda delle cose.
Spitz era un combattente
esperto. Dallo Spitzberg all'Artico, attraverso il Canadà e le Barrens, si era
battuto con cani di ogni genere e li aveva dominati. La sua rabbia era intensa,
ma non cieca. Nella sua ansia di lacerare e distruggere non dimenticava mai che
il suo nemico era animato dalla stessa ansia di lacerare e distruggere. Non si
slanciava se non era pronto a resistere allo slancio dell'avversario; non
attaccava prima di essersi preparato a respingere un attacco.
Invano Buck tentava di
affondare i denti nel collo del grande cane bianco; dovunque le sue zanne
cercavano la morbida carne, incontravano le zanne di Spitz. I denti urtavano
contro i denti, le labbra erano lacerate e sanguinanti, ma Buck non riusciva a
forzare la guardia del suo avversario. Allora si riscaldò e avvolse Spitz in un
turbine di attacchi. Più e più volte tentò di raggiungere la bianca gola dove la
vita pulsava alla superficie, e ogni volta Spitz lo colpì balzando poi da parte.
Allora Buck cominciò a slanciarsi come se mirasse alla gola, e volgendo
improvvisamente la testa e curvandola da parte, cercava di colpire con la spalla
la spalla di Spitz come un ariete per rovesciarlo.
Ogni volta la spalla di Buck
veniva azzannata e Spitz balzava via leggermente.
Spitz era ancora illeso
mentre Buck grondava sangue e ansava. La lotta era ormai disperata e il cerchio
silenzioso degli antichi lupi attendeva per finire il vinto. Adesso che Buck
sentiva che il fiato gli mancava, Spitz cominciò ad aggredirlo facendolo
barcollare. Una volta Buck fu quasi rovesciato e l'intero cerchio dei sessanta
cani balzò in piedi; ma egli si riprese quasi a mezz'aria e il cerchio tornò ad
accovacciarsi aspettando.
Buck possedeva una qualità
propria della grandezza:
l'immaginazione. Lottava per
istinto, ma poteva anche combattere col cervello. Si slanciò come se volesse
dare il solito colpo di spalla, ma all'ultimo momento si appiattì contro la
neve, e i suoi denti afferrarono la zampa sinistra anteriore di Spitz. Si udì
uno scricchiolio di ossa spezzate, e adesso il cane bianco lo affrontava su tre
sole zampe. Per tre volte egli tentò di rovesciarlo. Poi ripeté il colpo e gli
spezzò la zampa destra.
Nonostante il dolore e
l'impotenza, Spitz lottava follemente per tenersi in piedi. Vedeva il cerchio
silenzioso con gli occhi fiammeggianti e le lingue penzoloni e i fiati argentei
che salivano nell'aria, chiudersi intorno a lui, come aveva visto altre volte
quei circoli chiudersi intorno ai suoi avversari sconfitti. Questa volta il
vinto era lui. Non vi era più speranza.
Buck era inesorabile. La
pietà è propria di climi più miti. Si preparò all'ultimo assalto. Il cerchio si
era così ristretto che egli poteva sentire il respiro degli eschimesi sui
fianchi. Li poteva vedere dietro Spitz e ai due lati, già raccolti per lo
slancio con gli occhi fissi su di lui.
Vi fu una pausa; gli animali
erano immobili, come impietriti. Solo Spitz fremeva ed ergeva il pelo
brancolando avanti e indietro, ringhiando minacciosamente come per atterrire la
morte vicina.
Allora Buck balzò di fianco
e finalmente la sua spalla colpì bene l'altra spalla. Il cerchio buio divenne
un'unica macchia sulla neve illuminata dalla luna e Spitz scomparve. Buck stette
a guardare, campione vittorioso, belva dominatrice dei primordi, che aveva
ucciso e aveva trovato che era buona cosa.
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